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sabato 25 novembre 2023

Aggressioni alle donne, solo una soluzione penale?

                                                     



Per piacere, piantantela di colpevolizzare tutti i maschi!! Rischiate l'effetto contrario!!

Noto con preoccupazione che il legittimo sdegno civile per l'ennesimo femminicidio sta trasformandosi in una indegna espressione di protesta radical-femminista, dai contorni politici (che c'entra l'antipatia verso Israele con i femminicidi?) nei confronti di tutto il genere maschile, gestita dalla solita minoranza chiassosa di uomini e donne sempre pronti/e a scendere in piazza.

Attenzione ci sono femmine e femmine, ci sono maschi e maschi!

Bisogna saper distinguere (e qui parafraso una famosa frase di Norberto Bobbio) fra maschi e femmine pensanti e maschi e femmine non pensanti.

Per maschi non pensanti inserisco quelli i cui ideali si riducono al far soldi (magari con il minimo sacrificio possibile), ad avere un bel fisico, a far colpo sull'altro genere per farlo proprio...

Per femmine non pensanti inserisco quelle i cui ideali si riducono al far soldi (magari con il minimo sacrificio possibile), ad avere un bel corpo, a far colpo sull'altro genere per essere oggetto di ammirazione.

Fate attenzione, i colpevoli di femminicidio sono, nella massima parte dei casi quelli che ho definito maschi non pensanti, le vittime di femminicidio o di aggressione sono, nella maggiore parte (non nella totalità...) dei casi, quelle che ho definito femmine non pensanti. 

Certo il comportamento dei maschi è da considerare più grave di quello delle femmine ma l'attaccare indiscriminatamente, come si sta facendo, tutto gli uomini, comporta il rischio grave che gli uomini pensanti (ovvero quelli che hanno valori diversi e più profondi del solo far soldi, o avere un buon fisico, o possedere più donne possibile) si ribellino a questo attacco insensato.

Ormai è acclarato, la soluzione del reato autonomo di femminicidio o l’aggravamento delle pene non funziona.
Di fronte ad un problema che ha la sua origine in un contesto valoriale errato non è sufficiente ricorrere al diritto penale e nemmeno ad una educazione sessuale nelle scuole.
 
Qui si tratta di rieducare tutti gli italiani (uomini e donne) ai valori fondamentali della nostra Costituzione quelli che mettono al centro la tutela della persona umana, di ogni persona umana, al di là delle differenze di sesso, di lingua, di razza, di religione, di opinione politica, di condizioni sociali.  

E questa opera di rieducazione deve essere portata avanti con determinazione dalle poche e fatiscenti agenzie di socializzazione rimaste (famiglia, scuola, comunità ecclesiali) in un contesto di collaborazione reciproca e sulla base di valori condivisi ricavabili dalla Costituzione.
Per piacere, lo ripeto, no ad attacchi indiscriminati, no a lasciare questo argomento in mano a maschi e a femmine non pensanti.

Roma 25/11/2023

mercoledì 16 agosto 2023

Serve una campagna mediatica popolare di messaggi positivi

 



Mi ricordo quando, durante un corso di mediazione civile, uno psicologo ci spiegò che una emozione negativa vale TRE VOLTE di più di una emozione positiva.

Vi spiegate allora perché i politici, per ottenere i voti, puntano ad aumentare le paure delle persone piuttosto che a stimolare un loro atteggiamento costruttivo.
O perché molti agenzie di marketing, per vendere i prodotti da esse sponsorizzate, puntano soprattutto a mettere in evidenza il timore delle cose che vi potrebbero accadere se non comprate i loro prodotti.
O perché i siti di meteorologia privati cercano di catturare click (e di aumentare il loro guadagno vendendo spazio inserzionistico sul loro sito) enfatizzando in tutti i modi (anche attribuendo nomi fantasiosi mitici) le tempeste fredde o le bolle di caldo in arrivo.
D fronte a questa calcolo non basta reagire con 1 messaggio positivo a 1 messaggio negativo che vale per 3. Occorre implementare una campagna di MESSAGGI POSITIVI.
Qui sotto un esempio. I siti di meteo enfatizzano l'impatto della bolla di calore nell'Italia del Centro Sud ma sottacciono completamente che, con un tasso di umidità relativamente basso, il caldo sarà più sopportabile.
E allora la parola d'ordine è: SEMINARE POSITIVO!🙂👍

domenica 28 maggio 2023

Due meditazioni (su Pentecoste e su Maria) che spiazzano.



Vana credulità
 
di

Alberto Maggi 

Il cammino e la crescita del credente verso una sempre maggiore consapevolezza della realtà divina che lo circonda e lo abita non consistono certamente nel “demolire, ma nel portare a compimento” la sua adesione a Gesù e al suo messaggio (Mt 5,17). Perché questo diventi realtà occorre continuamente mettere il vino nuovo della buona notizia dentro otri nuovi, “altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti” (Mt 5,17). “Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente” (Ef 4,23) invita Paolo, e questo rinnovarsi non significa essere fuori dalla Chiesa ma, al contrario, esserle fedeli e seguirla nei suoi insegnamenti. Ma c’è un mese all’anno in cui questo rinnovarsi sembra come svanire. Per tutto maggio, il tempo tradizionalmente dedicato alla Madonna, si riesumano tradizioni, devozioni, culti, processioni, preghiere che si sperava ormai poste sotto naftalina, collocate con il dovuto riverente rispetto nel museo delle religiosità appartenenti al passato e incompatibili con la spiritualità della Chiesa odierna. Queste devozioni, ormai obsolete, hanno avuto origine in una cultura patriarcale, ormai definitivamente tramontata, quando tra genitori e figli non vi erano i rapporti attuali improntati sull’affetto. Il padre rappresentava l’autorità, la severità e il castigo e la sua era una presenza che incuteva timore; la madre era l’amore e la tenerezza, colei che si frapponeva tra il marito e il figlio sia per rivolgere richieste che questi non avrebbe mai osato fare direttamente al padre, sia per parare le punizioni del genitore. Questa cultura patriarcale fu proiettata nella sfera divina, dove Dio è il Padre di cui si ha timore e che non si osa affrontare direttamente. Soprattutto è colui che castiga (“Ho meritato i vostri castighi”). In questa prospettiva Maria svolgeva la funzione della madre sia per accogliere le richieste e i bisogni degli uomini, sia per proteggerli dal castigo divino. Così, in breve, da creatura fu trasformata in un sostituto della divinità, persino più sicura e affidabile di Dio. Ora fortunatamente la società è profondamente cambiata: i figli si rivolgono direttamente al papà senza alcun timore e la mamma non deve più esercitare la sua funzione di mediatrice e protettrice. Per questo non è possibile seguitare a rivolgersi alla Vergine usando queste formule che risentono pesantemente di una teologia e di un linguaggio ormai superati, che non possono più esprimere il sentimento di una Chiesa sempre in cammino e mai immobile. Nei vangeli l’unico soccorritore è il paraclito (Gv 14,16), lo Spirito di verità che non ha bisogno di essere invocato e tantomeno supplicato in quanto la sua presenza è garantita sempre, non solo nel momento del bisogno, come segno della protezione divina. 2 Quale Maria? Purtroppo, per un malinteso teologico, in passato Maria è stata presentata partendo dal compimento in lei del disegno di Dio. Da questa pienezza si è poi considerato in maniera retrospettiva ogni momento della sua esistenza, trasformandola così in una creatura privilegiata che già all’inizio della sua esistenza era più che perfetta, pienamente cosciente di tutto quel che l’aspettava nella vita. I vangeli non partono dalla compiutezza di Maria ma dai suoi inizi, difficili, drammatici, travagliati. Gli evangelisti non esitano a presentare una madre che non solo non comprende il figlio (Lc 2,18-19. 33), ma che addirittura si merita da lui un aspro rimprovero (Lc 2,49). Marco, l’evangelista più antico, la descrive addirittura unita al clan familiare deciso a catturare Gesù ritenuto ormai in preda alla sua follia (“Allora i suoi, sentito questo, uscirono per impadronirsi di lui; poiché dicevano: È fuori di sé”, Mc 3,21). Ma lei, a differenza degli altri, anche se non comprende l’agire di Gesù non lo rifiuta e riflette (Lc 2,50-51). Cresciuta nella pratica della Legge, ritenuta unica espressione della volontà di Dio, Maria si apre gradualmente alla parola del Figlio, che come una spada le attraverserà la vita, costringendola a scelte tanto drammatiche quanto coraggiose (Lc 2,35). Come all’annuncio dell’angelo la giovanetta di Nazaret si era detta disposta a compiere la volontà del Signore e a diventare madre del “Figlio dell’Altissimo” (Lc 1,32), ora Maria accoglie la parola del Figlio che la condurrà a divenire sua discepola: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,35). La fedeltà al cammino della Chiesa nella conoscenza sempre più grande della figura di Maria come gli evangelisti l’hanno voluta presentare, impone pertanto di rivedere modi e formule delle devozioni. Per questo la Chiesa invita “i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione, come pure dalla grettezza di mente nel considerare la singolare dignità della Madre di Dio” (Lumen Gentium, 67), e Paolo VI mise in guardia dalla “vana credulità, che al serio impegno sostituisce il facile affidamento a pratiche solo esteriori” (Marialis cultus, 38). È pertanto più che mai attuale il dovere di rivedere quelle forme che, “soggette all’usura del tempo, appaiono bisognose di un rinnovamento che permetta di sostituire in esse gli elementi caduchi, di dar valore a quelli perenni…” (MC 24). Maria, la temeraria audace galilea antimonarchica che osa affermare che il suo Signore è quello che “ha rovesciato i potenti dai troni” (Lc 1,52) in casa dei suoi parenti della Giudea, regione notoriamente filomonarchica, per un paradosso della storia è stata poi raffigurata su troni sempre più maestosi. I devoti, pur chiamandola “la mamma celeste”, non le si rivolgono come a una madre, ma la supplicano prostrati, come fanno i sudditi per essere ascoltati dai potenti e richiedere la loro protezione. Di fronte ai rischi che la vita comporta, un credente maturo non cerca di mettersi sotto la protezione della Madonna, ma nelle avversità si rafforza e diventa sempre più capace di camminare con le sue gambe. È questo che lo rende una persona adulta, proprio come Maria di Nazaret, l’intrepida donna dei vangeli che invita a mettere in pratica il messaggio di Gesù (“Tutto quello che vi dice, fatelo”, Gv 2,5), perché lei per prima ha creduto che “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37). Pertanto Maria non è la mamma-chioccia sotto il cui manto cercare protezione, ma, come intuirono molti Padri della Chiesa, da Atanasio a Efrem e ad Agostino, è una sorella nella fede, la “vera nostra sorella”, come scrisse Paolo VI (MC 56), la donna coraggiosa che fieramente e a testa alta è andata avanti nella sequela del Cristo, facendosi compagna di viaggio di ogni credente che cammina verso il raggiungimento della pienezza della vita. Per questo la vera devozione a Maria non consiste “in una vana credulità, ma procede dalla fede vera, dalla quale siamo spinti all’imitazione delle sue virtù” (LG 67). E la virtù per eccellenza, quella che ha reso grande la Madonna, è la fede con la quale ha accolto e vissuto il 3 progetto che il Padre ha su ogni creatura, cioè quello di “essere santi e immacolati” (Ef 1,4). In lei il Creatore non ha trovato ostacoli e ha realizzato così il suo disegno d’amore. Questo cammino di Maria verso la pienezza della volontà di Dio, se è stato indubbiamente immediato nell’accoglienza (“Eccomi! Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”, Lc 1,38), ha poi richiesto tempo per la sua realizzazione. Un itinerario, il suo, difficile, irto di ostacoli e sofferenze, che però ha saputo percorrere crescendo e maturando nel suo divenire discepola perfetta del Cristo, disposta a condividerne la sorte (“Stavano presso la croce di Gesù sua madre…”, Gv 19,25). E Maria si è posta coraggiosamente a fianco del giustiziato contro chi lo ha crocifisso, schierandosi così per sempre a favore degli oppressi, dei poveri, dei disprezzati e mai dei potenti che opprimono

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Pentecoste, festa difficile 
di
Don Tonino Bello
 

…… la Pentecoste è una festa difficile. Ma non perché lo Spirito Santo anche per molti battezzati e cresimati è un illustre sconosciuto. È difficile, perché provoca l'uomo a liberarsi dai suoi complessi. Tre soprattutto, che a me sembra di poter individuare così: Il complesso dell'ostrica. Siamo troppo attaccati allo scoglio. Alle nostre sicurezze. Alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l'intimità del nido. Ci terrorizza l'idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci sul mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno. Di qui, la predilezione per la ripetitività, l'atrofia per l'avventura, il calo della fantasia. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama alla novità, ci invita al cambio, ci stimola a ricrearci. C'è poi il complesso dell'una tantum. È difficile per noi rimanere sulla corda, camminare sui cornicioni, sottoporci alla conversione permanente. Amiamo pagare una volta per tutte. Preferiamo correre soltanto per un tratto di strada. Ma poi, appena trovata una piazzola libera, ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini, dei nostri comodi. E diventiamo borghesi. Il cammino come costume ci terrorizza. Il sottoporci alla costanza di una revisione critica ci sgomenta. Affrontare il rischio di una itineranza faticosa e imprevedibile ci rattrista. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama a lasciare il sedentarismo comodo dei nostri parcheggi, per metterci sulla strada subendone i pericoli. Ci obbliga a pagare, senza comodità forfettarie, il prezzo delle piccole numerosissime rate di un impegno duro, scomodo, ma rinnovatore. E c'è, infine, il complesso della serialità. Benché si dica il contrario, noi oggi amiamo le cose costruite in serie. Gli uomini fatti in serie. I gesti promossi in serie. Viviamo la tragedia dello standard, l'esasperazione dello schema, l'asfissia dell'etichetta. C'è un livellamento che fa paura. L 'originalità insospettisce. L 'estro provoca scetticismo. I colpi di genio intimoriscono. Chi non è inquadrato viene visto con diffidenza. Chi non si omogeneizza col sistema non merita credibilità. Di qui la crisi della protesta nei giovani e l'estinguersi della ribellione. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama all'accettazione del pluralismo, al rispetto della molteplicità, al rifiuto degli integralismi, alla gioia di intravedere che lui unifica e compone le ricchezze della diversità. La Pentecoste vi metta nel cuore una grande nostalgia del futuro


lunedì 20 marzo 2023

Merito... non solo. Appunti sulla meritocrazia

 



Parte 1

Come valutare il merito?

Tutto parte dalla seguente domanda birichina che mi sono posto da solo: “Meritocrazia. E' più degno di apprezzamento (e meritevole…) un manager che alza del 2% il profitto della propria azienda farmaceutica o il medico, della medesima azienda, che scopre un farmaco per una malattia rara (dal quale non si prevede pertanto un grosso ritorno in termini di profitto per l'industria farmaceutica)?”
La risposta non è facile, e forse neppure è possibile darne una definitiva. Conviene procedere con ordine.

Il termine meritocrazia viene dal greco, significa letteralmente “potere al merito” e identificando quel tipo di modalità di riconoscimento caratterizzato dal premiare le persone più meritevoli nei campi più vari (aziende, scuole, mondo della finanza, sanità, sport ecc.).
Meritevole è la persona che contribuisce al successo di un ente, dal più piccolo come una famiglia, ai più grandi, come un’azienda o addirittura una nazione.

E qui cominciano i problemi.

Quali sono i criteri per misurare il successo di un ente e come paragonare le storie di successo nell’ambito dei vari enti per premiare le migliori?

E’ più meritevole il manager che alza del 5% l’utile della propria azienda in Borsa, premiando così gli azionisti ma mandando a casa 10.000 dipendenti, o il manager che l’alza solo del 2% ma evita ogni tipo di licenziamento?
E ancora (e qui la risposta sembra a prima vista più facile) è più meritevole lo scienziato che mette a punto il vaccino per una influenza pandemica (che salva milioni di persone e che fornisce un grosso ritorno in termine di profitto) o lo scienziato che scopre un farmaco per le malattie rare (che salva migliaia di persone con un ritorno di profitto ovviamente molto inferiore al precedente)? La vita di più persone vale più della vita di meno persone? ponetevi, prima di rispondere, nei panni di una di queste ultime...

Sembra chiaro che la risposta a queste domande non possa prescindere dall’individuazione di criteri oggettivi atti a misurare il contributo dei singoli al successo e, pertanto, dal tipo di società che si vuole costruire.

Se si vuole costruire una società fondata su valori quali la massimizzazione della ricchezza individuale, del profitto aziendale, del PIL nazionale, saranno considerati meritevoli i cittadini che, con la loro attività, avranno meglio contribuito all’accrescimento quantitativo di questi valori.
Se invece la meta è quella di una società in cui si possa vivere meglio, in cui sia distribuita comunque una base di ricchezza sufficiente per una vita dignitosa, e si punti ad uno sviluppo rispettoso delle esigenze ambientali e della necessità di un solido contesto relazionale interpersonale, allora saranno considerati meritevoli i cittadini che maggiormente si saranno impegnati sul fronte della salute, dell’ambiente e di tutto quant’altro consente alle persone di avere solide e realizzanti relazioni umane.

Pertanto solo se si ha chiaro il modello di sviluppo da implementare e il tipo di società da costruire si potrà meglio capire cosa si intenda effettivamente per merito. Di qui la prima conclusione che non può esistere una concezione di merito condivisa da tutti ma che tale concezione dipenda in maniera molto rilevante dai valori sociali che i singoli cittadini professano.

E non è l’unica questione che si presenta.

E’ comune esperienza (sia pratica che scientifica) che le prestazioni individuali (professionali, sportive, relazionali) dipendono in gran parte da fattori che prescindono dall’impegno individuale. A titolo di esempio possiamo individuare alcuni di questi:

·       il quoziente di intelligenza (Q.I.);

·       l’ambiente familiare e sociale da cui si proviene;

·       il percorso di studi (spesso obbligato) portato (o non) a termine;

·       le doti fisiche e psichiche (talento) naturali.

Come valutare i meriti di due lavoratori di cui uno, con Q.I. superiore alla media, completa un incarico in pochi minuti e senza eccessiva fatica, e l’altro, con Q.I. inferiore alla media, in un’ora ma con grande impegno? Certo il primo avrà del tempo disponibile per portare a termine altri lavori e il secondo forse no, ma chi dei due è stato più meritevole?

Certo, se ci si basa solo sul criterio del profitto, il primo risulterà necessariamente vincente, ma abbiamo visto che il successo materiale non può essere il solo criterio. Magari il secondo lavoratore, più lento ma maggiormente impegnato, potrebbe essere più capace di integrarsi in un efficace lavoro di team.
E ancora, per tornare ad una domanda iniziale, come valutare, in termini di merito, lo scienziato che predispone il vaccino per milioni persone e quello invece che, magari con maggior impegno, scopre una medicina per una malattia rara? Valuteremo il merito in termini di ritorno di profitto, di numero di potenziali persone (pesandone l’importanza individuale in funzione del numero), o invece misureremo la quantità di impegno profuso da ciascuno dei due nel loro lavoro?
Come valutare l’insegnante, dotata di carisma personale, in grado di tenere la classe in termini di disciplina ma con scarsa capacità di trasmettere conoscenze e valori, con un’altra, magari meno esuberante, talvolta schiacciata dagli studenti, ma intenta, con grande impegno, a veicolare in loro sia le conoscenze tecniche che i principali valori sociali? Certo la prima arrecherà meno fastidio al Dirigente scolastico (che potrà limitare i suoi interventi di tipo disciplinare) ma dovrà essere considerata più meritevole dell’altra?

E non sono finiti gli interrogativi da porre sulla questione della meritocrazia.

Come comportarsi sui periodi di valutazione? Dovremo considerare più meritevole il ricercatore che, annualmente, produce singoli risultati di rilevanza normale, o un altro ricercatore, impegnato in un lavoro più complesso e con necessità di maggior tempo di analisi, che raggiungerà un risultato molto più importante ma dopo più anni? Generalmente si è portati a considerare il breve periodo, ma è giusto, non ci limiteremo così a premiare gli sforzi brevi e a disincentivare gli studi lunghi e complessi?

Riepilogando,

·       scopo ultimo del lavoro,

·       importanza dei fattori individuali predeterminati,

·       rapporto fra risultato e impegno,

·       lunghezza del periodo di valutazione

sono (e forse ce ne saranno anche altri) quattro elementi che mettono a dura prova la fondatezza e la ragionevolezza del motto “potere al merito”.

L’impressione netta è, che in questa come in altre questioni sociali, occorra evitare ogni fondamentalismo, ogni presunzione che problemi complessi siano risolvibili con soluzioni semplici, che ci possano essere, in ogni caso, scorciatoie in grado di evitare la indispensabile fatica del discernere, comprendere e solo alla fine decidere.

Il reale merito dovrà essere valutato tenendo conto non solo del contributo al profitto, al guadagno finanziario o al PIL, ma anche di fattori diversi quali l’impegno individuale, il contributo al bene comune e l’importanza del lavoro in rapporto al tempo impiegato. Solo in una ottica così allargata diventerebbe possibile avviare una concreta e giusta politica di riconoscimento del merito.

 

Parte 2

Ma è vero merito?

Ma, nel sostenere il principio meritocratico, siamo certi che veramente stiamo riconoscendo il merito delle persone che premiamo?
Non sarà necessario, prima di ogni cosa, mettere tutte le persone in condizione di godere delle medesimo opportunità? Ovvero garantire quella che viene definita come l’uguaglianza delle condizioni di partenza, di uguaglianza garantita come pari opportunità per arrivare al successo nel proprio campo?
Una volta che fossero definite ed implementate delle sane e positive politiche in campo scolastico, sociale, sanitario, culturale per potenziare i soggetti più deboli e consentire loro di dedicarsi alla attività desiderata perché non innescare, a questo punto, il principio meritocratico e riconoscere il valore dei più meritevoli?

Forse perché il talento del quale siamo dotati e che ci permette di raggiungere o meno determinati risultati di successo non può essere considerato solo “nostro” ma è frutto di un dono o della sorte.
Ogni essere umano nasce infatti con un determinato patrimonio genetico, con determinate doti caratteriali che vengono affinate e potenziate dall’ambiente familiare e sociale nel quale viviamo e che ci offre (ci dona) precise possibilità di crescita.
il DNA genitoriale, il contesto culturale e professionale delle nostre amicizie, la possibilità di accedere a strutture formative adeguate, le risorse finanziare necessarie per viaggiare e conoscere ambienti diversi, sono tutti elementi che giocano a favore (o a sfavore…) di ciascuno di noi nella via verso il successo.
Chi ha avuto la sorte di vivere in un contesto favorevole,  di aver goduto di una istruzione adeguata, di aver frequentato stimolanti ambienti nazionali e internazionali, ha davvero pochi meriti personali in più rispetto a chi ha avuto una sorte sfavorevole per poter pretendere e rivendicare un riconoscimento maggiore nel raggiungimento di determinati risultati.
Se si preferisce, invece di sorte, si può parlare (per chi è credente) di dono di Dio, ovvero di benevolenza divina gratuita, ma in questo caso chi ne è beneficiario non se ne può assolutamente gloriare.

Sane positive sociali in campo scolastico, sociale, sanitario, scolastico potrebbero parzialmente livellare le condizioni di partenza ma non potrebbero mai annullarle e alcune condizioni favorevoli (come il DNA, le amicizie del proprio ambiente sociale, l’influsso culturale familiare) contribuirebbero sempre ad agevolare il cammino dei più rispetto ai meno fortunati.
Si potrebbe forse affermare che, anche se non è certo che ci sia del merito a raggiungere determinati risultati in condizioni di privilegio, si potrebbe però pur sempre riconoscere e premiare l’impegno di chi ha saputo mettere a frutto il talento consegnatogli gratuitamente dalla sorte o dalla grazia divina. Si potrebbe arrivare a teorizzare una meritocrazia dell’impegno.

Siamo certi che almeno l’impegno (visto come capacità di concentrare, anche con sacrificio, i propri sforzi per raggiungere un risultato degno di riconoscimento) sia il frutto autonomo di una nostra scelta?
Non sarà anche l’impegno frutto del nostro peculiare DNA, dell’educazione che abbiamo ricevuto nel nostro contesto familiare e sociale?
La maggior parte di noi conosce ragazzi capaci tranquillamente di impegnarsi in una attività e altri molto meno capaci. Se poi andiamo ad approfondire il loro contesto familiare e sociale di questi ultimi, ci rendiamo conto che è difficile per loro acquisire capacità di impegno e di sacrificio se, intorno a loro, nessuno li sprona in questa direzione o ha dato loro un esempio di vita significativo in tal senso.

Ma allora, se il merito è frutto in maggior parte della sorte o di un dono di Dio, che senso ha parlare di meritocrazia e della necessità di riconoscere i più meritevoli? Non è meglio, se si vuol essere realisti e, allo stesso tempo, equi, rinunciare ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base del merito?


Parte 3

Che succede se rinunciamo al merito?

Rinunciare ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base di un merito che si riconosce esistente altro non vuol dire che passare da una forma di giustizia distributiva che attribuisca a ciascuno secondo i suoi meriti (tenendo conto di alcuni trattamenti minimi non comprimibili) ad un'altra che attribuisca a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Nessuno, in migliaia di anni di storia del genere umano, è riuscito nell’applicare integralmente, in un contesto di rispetto della libertà personale, il secondo criterio se non all’interno di singole piccole comunità o sette ad alta e condivisa tensione ideale.
Il criterio si è rivelato inapplicabile e dissolto nella misura in cui la dimensione di queste comunità è cresciuta, o che la tensione ideale sia fortemente diminuita.
Vuol forse dire che qualche problema di realismo e di compatibilità esiste ed è insuperabile?

Ma la rinuncia ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base di un merito porrebbe problemi anche di normale carattere pratico.
Come eserciteremmo, in una democrazia parlamentare, in una libera associazione, in un condominio, il nostro diritto di voto per scegliere una persona per un incarico? Dovremmo pur sempre valutare i comportamenti e le capacità dei singoli candidati e scegliere quella persona che, a nostro parere,… meriterebbe il nostro voto! Magari le daremmo il nostro voto sulla base dei criteri più disparati (l’età, il livello di istruzione, il genere, il colore dei capelli, il ceto, la residenza…) ma, in ogni caso, dovremmo darle una preferenza e decidere sul perché merita la mia preferenza rispetto ad un’altra persona!

Non vorrei essere semplicistico ma mi sembra che la soppressione tout court del “merito” come criterio di valutazione non sia realisticamente possibile.
Diversa è la soluzione sul come valutare il merito, su quali criteri utilizzare. Come già accennato in precedenza, il reale merito dovrebbe essere valutato tenendo conto di vari fattori quali la competenza personale, l’impegno individuale, il contributo al bene comune, l’importanza del lavoro in rapporto al tempo impiegato, non solo pertanto di fattori solo finanziari quali il contributo al profitto o alla crescita economica.
Solo in una ottica così allargata diventerebbe possibile avviare una concreta e giusta politica di riconoscimento del merito.
Questa ottica postula necessariamente un discernimento serio e il più possibile oggettivo e condiviso.
Se la valutazione personale non appare basata su dati oggettivi e misurabili nonché effettuata senza una sufficiente condivisione, diventa inevitabile che possa venire contestata da chi non si ritenga (magari a torto) inferiore a colui il quale è stato riconosciuto un merito maggiore.
A livello socio-politico certi fenomeni populistici vanno proprio ascritti a questa motivazione, la sensazione di essere stati trattati ingiustamente per una non corretta valutazione del merito personale.
Più sono trasparenti e pubblici sia i criteri per la valutazione del merito sia gli strumenti di misurazione dello stesso, più diventa difficile contestare le valutazione e i conseguenti riconoscimenti (fermo restando che l’unanimità non si potrà mai verificare).

Per chi vorrà approfondire l’argomento appena accettato in queste considerazioni, potrà leggere con profitto:

1.     Carlo Cottarelli – All’inferno e ritorno – Feltrinelli 2021

2.     Michael J. Sandel – La tirannia del merito – Feltrinelli 2021

Luca Ricolfi - La rivoluzione del merito - Rizzoli 2023

 

Roma 20 marzo 2023

lunedì 23 gennaio 2023

Pillole sulla vecchiaia

 


Invecchiare è naturale, ma non è facile, anche perché chi è diventato vecchio prima di te non ti dice tutto quello che succede con l’avanzare dell’età, oppure ti dice cose scontate, risapute, senza avvertirti di cose importanti, ma che vengono ripetutamente sottovalutate.

Aspetti noti


Si sa che la mente non riesce a trattenere tutto nella memoria sicché accade che si ricordino facilmente gli eventi e le persone più lontane nel tempo e che lentamente (ma progressivamente) si attenuino i ricordi di eventi e persone più recenti.
Anzi, per essere più precisi, la emozione che hai provato in quegli eventi (vicini o lontani che siano) gioca spesso un ruolo più rilevante del tempo trascorso. Eventi legati a nascite e a morti importanti, a forti innamoramenti, al matrimonio, a trasferimenti da un luogo all’altro, a promozioni (o rimozioni) rilevanti nella carriera professionale sono realtà che rimangono sempre presenti e impresse nella mente proprio in virtù del grosso impegno emotivo che abbiamo investito in esse.

Si sa anche che la forza fisica diminuisce come anche l’energia psicologica necessaria per affrontare le difficoltà.
In effetti la regolarità nel fare esercizi fisici e nel continuare a cimentarsi in impegni personali di carattere professionale e sociale permette di rallentare il degrado fisico e psicologico, purtroppo non di fermarlo del tutto.
E’ triste accettare che diventa sempre più difficile svolgere ruoli o fare attività che prima svolgevamo e facevamo (bene…) senza fatica, mentre ora ci richiedono sempre più impegno psicofisico e non sempre riusciamo a portare a termine nel modo che vorremmo.
Spesso neppure ci accorgeremmo di tale degrado fisico o psicologico se non avvenissero fatti che ci mettessero di fronte alla cruda realtà.
Come quando mi accadde di scendere velocemente le scale di un ospesdale insieme a mio nipote di 30 anni più giovane; io pensavo di scendere velocemente (e non sarei sicuramente riuscito ad accelerare la mia velocità…) ma vedevo mio nipote allontanarsi sempre più.
Oppure quando io, qualche tempo fa, da vecchio bravo giocatore di ping pong scattavo (o meglio pensavo di scattare) come mio solito per controbattere la pallina e, quando vi arrivavo, regolarmente la stessa era già passata.
O quando, da anziani, camminando velocemente (…), si inciampa e ci si trova a terra malconci senza avere avuto il tempo di mettere le mani avanti e ci chiediamo come sia potuto accadere.
E sì, non solo i muscoli diventano meno robusti e scattanti, ma anche i riflessi! e a questo non si pensa mai… Il degrado muscolare si può rallentare con l’esercizio fisico, quello psicologico con gli esercizi mentali meneonici ma, a quel che so, contro il degrado nei riflessi c’è ben poco da fare.

Si sa pure che anche i sensi lentamente degradano, la vista (con la necessità di usare occhiali con lenti correttive), l’udito (con l’opportunità, in alcuni casi, di apparecchi di rinforzo), il tatto (avete fatto caso che le punte delle dita diventano più sensibili al freddo e meno sensibili nel toccare ed afferrare i fogli di carta e girare le pagine di un libro?), il gusto (la salivazione diminuisce…), l’olfatto (la sensibilità verso gli odori diminuisce).
Sono degradi che si avvertono poco perché avvengono con molta lentezza ma avvengono inesorabilmente e, prima i poi, arriva un momento nel quale ce se ne accorge con chiarezza.

Si sa ancora che una delle caratteristiche della vecchiaia è il ricordare con piacere i tempi passati e confermarsi sempre più nella convinzione che fossero migliori di quelli correnti (dimostrativa è la frase “ai miei tempi…”).
E questo sentimento della nostalgia e del rimpianto per “quando le cose andavano bene” (e il più delle volte non è vero) porta gli anziani ad un atteggiamento di costante incomprensione e di rimprovero verso le giovani generazioni.
Quale la causa vera di questo fenomeno, non confortato da prove reali? A mio parere la presenza di paradigmi mentali superati e obsoleti. Ma ne parleremo più avanti.

Oltre alla labilità mnemonica e mentale, al degrado fisico, psicologico e sensoriale, il vivere in una frequente nostalgia del passato, si potrebbero aggiungere altri aspetti già noti dell’invecchiamento (e ciascuno potrebbe aggiungerne altri), ma è forse giunto il momento per concentrarsi su quelli meno noti.


Aspetti meno noti

Uno di questi contraddice in pieno e sorprendentemente una delle convinzioni più frequenti e diffuse, ovvero quella che i vecchi abbiano più pazienza dei giovani.
Non è vero! La mia esperienza personale, confortata da quella di molti miei coetanei, è che la pazienza non aumenta, bensì diminuisce con l’età.
Ciò che prima veniva sopportato se non con facilità almeno con serenità (un comportamento altrui non adeguato, un ritardo burocratico o personale, un parlare sgrammaticato, un degrado sociale intorno a noi..) ora viene sopportato con molta maggiore difficoltà se non addirittura non sopportato e può  innescare imprevedibili sentimenti di rabbia e di rivalsa.
Mi sono chiesto da che cosa potesse dipendere questa insufficienza di pazienza.
Ho ipotizzato che tale insufficienza potesse dipendere dal minor tempo che una persona anziana inconsciamente (ma realmente) sente di avere davanti a sé, rispetto a quello che sente di avere un giovane.
Il giovane può permettersi di perdere tempo, l’anziano vorrebbe perderne meno possibile perché percepisce di averne sempre meno a disposizione…
Successivamente ho riflettuto che non era il passare inutile del tempo che inquieta l’anziano, ciò che maggiormente lo inquieta è che le cose accadano e che i comportamenti altrui si tengano in maniera molto diversa dalle sue previsioni.


Paradigmi mentali

E qui entrano in gioco i nostri paradigmi mentali.
Tutti noi nella nostra infanzia e adolescenza abbiamo affrontato e superato difficoltà, risolto problemi di vita corrente, deciso le nostre scelte operative, modellando i nostri comportamenti sulla base di valori di orientamento, di criteri di valutazione, di schemi di giudizio (e talvolta di pregiudizio!) appresi nel nostro ambiente familiare, scolastico, sociale e introiettati dentro di noi una volta verificata la loro efficacia.
L’insieme di questi valori, criteri, schemi di giustizia organicamente collegati è ciò che intendo quanto parlo di “paradigmi mentali”.
Tutti i comportamenti della nostra vita, dai più semplici (sedersi, camminare, scendere le scale) ai più complessi (lavorare con professionalità, studiare, giudicare) diventano più semplici da porre in essere nella misura in cui non dobbiamo ogni volta reimparare ma possiamo ricorrere, parzialmente o totalmente ai nostri paradigmi mentali.
Si tratta in pratica di seguire comode scorciatoie ben note piuttosto che dovere costantemente rivedere la mappa stradale e trovare la via migliore.
Senza l’aiuto dei nostri paradigmi mentali la nostra esistenza sarebbe molto più faticosa!
Peraltro essi, man mano che la vita avanza e che la società cambia, rischiano di trasformarsi da comode scorciatoie in difficili percorsi ad ostacoli. E questa trasformazione da scorciatoie che velocizzano il percorso a percorsi ad ostacoli che lo rallentano (o lo bloccano…) acquista sempre maggiore spessore quanto più avanza il cambiamento nella società e, di conseguenza, nella nostra vita.
Molti sociologi di rilievo si sono cimentati nel cercare le spiegazioni dei mutamenti sociali, ne sono state offerte molteplici, alcune convincenti, altre meno, ma una cosa è indiscutibile: la società cambia e cambia in maniera sempre più veloce!
La “società liquida”[1], descritta da Z. Bauman come quella società nella quale l’uomo non fa a tempo a capire alcune realtà sociali che le stesse sono già cambiate, sicuramente non è l’ultimo stadio di questo incessante mutamento.
Non c’è niente da fare. I nostri “paradigmi mentali” molto efficienti ed efficaci nella nostra ,giovinezza per orientare i nostri pensieri e comportamenti, restano strettamente legati alla società per la quale erano stati costruiti.
Ora è necessario e, aggiungerei, vitale, adeguarli e, soprattutto,  adeguarli sempre più in fretta.
D’altra parte però dobbiamo ammettere che siamo sempre portati a porre la nostra fiducia e la nostra sicurezza negli schemi mentali acquisiti e collaudati nella nostra giovinezza e successivamente consolidati durante il susseguirsi degli anni.
Dovremmo cambiare questi schemi di rifermento, questi “paradigmi” e adeguarli alla realtà sociale che cambia, ma non riusciamo a farlo perché sentiamo di stare per avventurarci per strade ignote che rischiamo di mettere a repentaglio o addirittura farci perdere la nostra serena (ma insufficiente) sicurezza.
Forse ora è più facile capire quale sia la motivazione di fondo della costante incomprensione degli anziani verso i più giovani, oppure quella continua carenza di pazienza che avvertiamo ci caratterizza.
Si tratta in fondo, di un conflitto fra, da una parte i nostri paradigmi superati e dall’altra una realtà profondamente mutata e l’esistenza di paradigmi profondamente diversi dai nostri ma stretta conseguenza dei mutamenti sociali.
Se non vogliamo passare il resto dei nostri anni a borbottare e a lamentarci (in pratica a non vivere) non resta altra soluzione praticabile che acquisire nuovi paradigmi mentali.
Ma come abbandonare totalmente o parzialmente i precedenti?
Di seguito la mia esperienza in proposito.

Quando ero poco più che ventenne e avevo in animo di fare la mia tesi di laurea sui valori della democrazia, mi capitò di leggere “I fondamenti della democrazia” di Hans Kelsen[2] .
Kelsen, giurista e sociologo di rilievo mondiale, appartenente alla Scuola di Vienna, sostiene, in questo libro, che il fondamento della democrazia (o, per meglio chiamarla, della liberaldemocrazia) è la cultura del “dubbio”.
Se non ho dubbi, argomentava Kelsen, se penso di avere ragione, di possedere pertanto la “verità” su un determinato argomento, se penso, di conseguenza, che la mia verità non possa che essere sinonimo di bene sia per me che per gli altri (altrimenti non sarebbe “verità”…), quali remore dovrei avere non solo a proporla, ma addirittura ad imporla agli altri... per il loro bene?
Secondo Kelsen solo se mi pongo in un atteggiamento di dubbio, sono capace di presentare la mia opinione all’altro, di ascoltare serenamente la sua e, in uno spirito di ascolto reciproco ( di “dialogo”…), di camminare insieme verso la ricerca della verità.
Nel corso della mia vita talvolta ho avuto la forza (perché non è facile…) di assumere questa cultura del dubbio e mi sono chiesto, in certe situazioni in cui avevo espresso una opinione o adottato un comportamento che altre volte era stato giusto: “se invece avessi torto?”, “se quello che dice il mio interlocutore fosse vero?”, “non è che sto insistendo a seguire la mia idea per ostinazione o, peggio, per pigrizia mentale?”.
Ebbene, quando ho avuto questa forza sovente mi è capitato di cambiare la mia opinione, di accettare in tutto o, più spesso, parzialmente, quella del mio interlocutore.
Avere questa cultura del dubbio può essere il primo passo per l’acquisizione di una maggiore libertà di giudizio rispetto alle informazioni che, da una parte, cerchiamo e troviamo autonomamente dall’altra che ci piovono addosso dall’esterno.
Questo è il primo passo, ma ne occorrono altri.

Una volta acquisita una sana cultura del dubbio, il passo successivo per combattere i paradigmi mentali esistenti consiste nel saper ragionare correttamente e soprattutto nel confrontarsi costantemente con altri.
Leggere molto, leggere, con mente aperta, sia testi concordi con le nostre opinioni che testi discordanti e riportanti opinioni diverse, leggere attentamente notando come le persone articolino e motivino i loro ragionamenti, leggere acquisendo un ampio bagaglio informativo, permette di ampliare non solo le nostre informazioni ma soprattutto la nostra capacità di ragionare ed esprimere giudizi corretti.
Ma non è ancora sufficiente.

Un altro e ultimo passo deve essere quello di confrontare le nostre opinioni, i nostri giudizi con quelli di persone che stimiamo (e che magari hanno opinioni e giudizi diversi) in un dialogo in cui la serenità, la sincerità, la assertività e, soprattutto, la voglia di ascoltarsi reciprocamente rappresentino caratteristiche comuni.

Coltivare sempre il dubbio, leggere (o vedere…) acquisendo il maggior numero possibile di informazioni, classificare, collegare e articolare queste ultime sulla base di ragionamenti corretti, mettere alla prova le nostre conclusioni in confronto e dialogo con amici che partono da conclusioni diverse, tutto ciò dovrebbe permettere di raggiungere un certo livello di capacità mentale e intellettiva sufficiente per riconoscere una gran parte delle informazioni false e fuorvianti e per limitare o superare del tutto l’influenza dei nostri paradigmi mentali e della conseguenti nostre distorsioni cognitive.

Ultima virtù da coltivare è l’umiltà, ovvero la capacità di essere consapevole che, nonostante tutti i tentativi che possiamo mettere in atto, la nostra imperfezione innata di essere umani non ci consentirà mai di essere sicuri di essere completamente liberi da potenziali manipolazioni (di qualsiasi tipo esse siano).

Ma bastano la cultura del dubbio, la lettura intensa e ragionata, il confronto con gli altri, la ricerca dell’umiltà, a superare i nostri paradigmi mentali e a vivere con libertà mentale il presente e il futuro davanti a noi?
No, se, nel contempo non affrontiamo la nostra vita con fiducia, con positività, credendo fermamente che, nonostante tutto quello che ci appare intorno di negativo, il positivo è sempre più grande, anche se così non ci sembra a prima vista.
Ed è su questo aspetto che la Fede (fiducia in un Essere-Amore) può aiutare.



[1] Z. Bauman – Vita liquida – 2008, Laterza editore

[2] H. Kelsen – I fondamenti della democrazia – Il Mulino 1966


lunedì 3 ottobre 2022

Appunti su velocità, tecnologia, libertà

 



Appunti su velocità, tecnologia, libertà

 

1)    La rivoluzione della velocità

 

Spesso mi trovo a riflettere su una considerazione espressa da Sergio Zavoli nel suo libro “C’era una volta la prima Repubblica” pubblicato nel 1999 e che, pressappoco, suonava così: “la rivoluzione non è più il cambiamento, ma la velocità con cui questo avviene”.
Zavoli non faceva altro che vedere la realtà che si era andata sviluppando in quell’ultimo decennio dello scorso secolo. La sempre maggiore diffusione degli strumenti informatici (in primo luogo i computer portatili di grande potenza), la modernizzazione e l’accelerazione dei mezzi di trasporto (aerei e treni superveloci), l’avvento e la veloce diffusione di Internet hanno causato un aumento della velocità delle nostre decisioni e dei nostri comportamenti.
Oggi i computer compiono in nanosecondi operazioni che 20 anni fa costavano minuti di calcolo, il web ci scarica addosso miriadi di informazioni che il più delle volte rischiano di sommergerci, il nostro cervello per far fronte a questa invasione di dati è costretto ad accelerare la propria velocità di elaborazione e a comandare al corpo immediati e rapidi comportamenti conseguenti.

Non è un caso che molti ragazzi soffrano oggi di iperattivismo e comunque non appaiano in grado di dedicare il tempo necessario per considerare esaurientemente un tema complesso. Ricevono così tanti input in brevi periodi di tempo che sono costretti a scelte rapide ma soprattutto approssimative, spesso dettate prevalentemente dall’emotività.

Scrive bene Bauman nella sua teorizzazione della “società liquida” che i tempi del cambiamento sono ormai così veloci che spesso, nel momento in cui riusciamo a cogliere l’essenza di un cambiamento, questo è già superato.

L’unica soluzione sembra essere quella di accelerare, rischiando di perdere alcuni elementi indispensabili per una corretta valutazione di un fatto, o di limitarsi a vivere il momento presente assumendo decisioni che poco tengono conto del passato e che si limitano ad una prospettiva di breve periodo.

Le persone e i Paesi che non cambiano il modo di vivere, accettando questa accelerazione, si trovano ben presto a correre il rischio di essere emarginati.

Certo occorre, d’altra parte, prendere atto che questa rivoluzione della velocità si è rivelata essere uno dei fattori di sviluppo del mondo attuale.

L’utilizzo dei computer è servito per alleviare il lavoro meccanico di tante persone e per migliorare la qualità della vita (basti pensare ai progressi resi possibili nell’ambito della medicina).

La sempre più ampia possibilità di effettuare veloci viaggi virtuali sul web, o viaggi fisici sui mezzi di trasporto ad alta velocità, quella di poter avviare comunicazioni immediate e a basso costo con persone di Paesi lontani, non ultima quella di avere informazioni in diretta sui fatti che si verificano o sui movimenti di opinione che si stanno sviluppando in tutto il mondo, hanno reso quest’ultimo simile ad un villaggio in cui la vicinanza (seppur solo virtuale) è la regola.

Il formidabile vantaggio di questa vicinanza globale deriva dallo scambio di esperienze, di informazioni e di know-how che permette a tutti di poter crescere nelle proprie capacità personali e professionali (quello che A. Sen, Nobel dell’economia, chiama “functionning”), di potersi confrontare, di scegliere le soluzioni più vantaggiose per se stessi, per la propria comunità, per il proprio Paese.

Non si possono d’altra parte, neppure sottovalutare i grossi rischi che il mondo sta correndo inseguendo di corsa questa rivoluzione.
Abbiamo già accennato prima alla grande difficoltà che incontrano i ragazzi nella possibilità di elaborare esaurientemente e con frutto tutte le informazioni dalle quali sono investiti. Sono il più delle volte costretti a fare delle scelte, non sulla base di criteri di valore o di reale importanza, bensì sulla base della maggiore emozione che una informazione suscita nella propria struttura psicologica. Le decisioni sono prese sulla base dell’emotività e in una prospettiva di breve periodo, perché non si ha il tempo per una riflessione ponderata e di maggior durata (il rischio è che, mentre si spende tempo per la riflessione, un problema cambi profondamente di consistenza rendendo inutile il tempo speso per rifletterci meglio).

Non è detto che la situazione cambi profondamente nel mondo degli adulti. La necessità di prendere decisioni veloci costringe spesso a valutazioni non approfondite e approssimative basate su assunzioni di rischio (potenzialmente errate) e sul presupposto (che il più delle volte si rivela impossibile da realizzarsi) di approfondimenti in un secondo tempo. Anche in questo caso la prospettiva non può essere che di breve periodo, sulla base del bene immediato di chi prende le decisioni, in assenza di una adeguata valutazione delle conseguenze nel medio e lungo periodo che, invece avrebbero potuto suggerire una ben diversa decisione. L’ interesse personale o di una piccola collettività nel breve periodo viene privilegiato rispetto al bene comune in un periodo più lungo, del cui raggiungimento avrebbe potuto meglio beneficiare la persona o la piccola collettività che invece ha deciso diversamente.

Le conseguenze della rivoluzione della velocità possono essere poi disastrose per gli anziani, nei quali la necessità di una maggiore lentezza nei comportamenti è conseguenza diretta del maggior numero di anni sulle spalle. Inoltre una inevitabile e progressiva diminuzione della flessibilità cerebrale li porta ad affrontare con sempre maggiore difficoltà il cambiamento, incluso quello per attività che ormai stanno divenendo praticamente indispensabili quali l’accesso ad internet o l’utilizzo di strumenti ICT sempre più complessi (basta pensare alle difficoltà incontrate dai nostri genitori o nonni nel passaggio alla TV digitale o a quelle che incontrano quotidianamente nei rapporti con istituti bancari dai servizi sempre più automatizzati). Si rischia concretamente di arrivare ad una piena emarginazione e ad un completo isolamento degli anziani.

Va anche approfondito il rapporto fra istituzioni, finanza ed economia, alla luce della rivoluzione della velocità.
La competizione crescente, non solo fra le singole persone, ma anche fra i Paesi, costringe questi ultimi a dotarsi di sistemi istituzionali più rivolti a favorire la rapidità decisionale rispetto alle esigenze di partecipazione popolare. L’emergere di sistemi di potere “personalistici”, il successo economico di regimi a base totalitaria, il ricorso a Governi di tipo “tecnico” parzialmente svincolati dal controllo parlamentare, possono essere visti come la conseguenza a livello istituzionale della rivoluzione della velocità.

Ma anche a livello aziendale le scelte economiche vanno assunte velocemente e spesso sulla base di informazioni sommarie e approssimative. Questo può comportare, nelle aziende, la trasformazione dei dipendenti da collaboratori a meri esecutori di operazioni dettagliatamente programmate (l’importante diventa non capire cosa si fa o perché la si fa, ma farla in maniera conforme a quanto previsto). Anche nelle aziende, come nei casi prima indicati, la prospettiva non può non essere che di breve periodo. Nell’impossibilità di spendere tempo per valutare tutti gli aspetti del problema e le possibili conseguenze delle decisioni, ci si sofferma su quelli più evidenti e immediati, trascurando altri forse più importanti ma che non impattano il breve periodo (conseguenze sull’ambiente, sulla qualità della vita, sulle relazioni con e tra le persone, dipendenti o meno).

C’è un ulteriore aspetto da considerare.
La velocità nella elaborazione delle informazioni e nella esecuzione di comportamenti è certamente necessaria allorché si è investiti da un numero considerevoli di dati in periodi di tempo spesso minimi.
Ma, in un mondo dove la competizione fra nazioni, aziende, persone, rappresenta l’elemento discriminante, per poter emergere (e talvolta anche solo per sopravvivere) non è necessario solo essere veloci, ma anche saper andare più veloce dell’altro.

Potremmo oggi riformulare la frase di Zavoli “la rivoluzione non è il cambiamento, ma la velocità con cui questo avviene” in “la rivoluzione non è più nella velocità del cambiamento, ma nell’accelerazione continua di questa velocità”.

Cosa vuol dire tutto questo? Cosa significa per le persone essere costrette ad accelerare sempre più, a spingere sempre al massimo il motore del proprio cervello, dei propri arti?

Come si coniuga questa accelerazione con l’aumento, nel mondo, dei suicidi, di fatti criminali apparentemente inspiegabili, l’incremento di malattie nervose quali depressioni, stress ecc.
Come reagisce la parte spirituale, morale, sentimentale di noi, a queste accelerazioni, alla impossibilità di fermarsi a riflettere, a contemplare, ad amare?

Non si tratta di denigrare il mondo moderno, gli strumenti della tecnica, in particolare quelli della più moderna tecnologia, non si tratta di auspicare un impossibile ritorno indietro, ma certo occorre dare una risposta costruttiva (e forse anche creativa) alle domande appena più sopra formulate.
Ne va della nostra capacità di saper costruire una società in cui la persona umana sia ancora al centro.
 

 

2)    Accelerazione della velocità + superficialità = manipolazione mediatica?

Ultimamente mi sono venuti in mente alcuni flash della mia vita.

Nel primo flash ho visto me che, verso la fine degli anni ’90 leggevo un libro di Sergio Zavoli e rimanevo molto colpito da questa osservazione (la cito a memoria nella sostanza, non so se la formulazione fosse la stessa): “la rivoluzione non è più nel cambiamento ma nella velocità con la quale questo avviene”.

Ricordo che mi fermai a riflettere su quella frase. Mi resi conto che era vero. Avevo allora circa 40 anni e, pensando ai progressi della scienza e della tecnica fino allora avvenuti a partire dal mio anno di nascita non potevo che concordare sugli enormi cambiamenti e sulla velocità con la quale erano avvenuti.

Nel 1974, anno di assunzione, lavoravo in una grande azienda dell’informatica come era l’IBM, operavo e facevo i conti con una calcolatrice da tavolo elettromeccanica, scrivevo a mano lettere che poi venivano dattiloscritte da una segretaria, comunicavo con i miei colleghi di altre città con il telefono fisso o con messaggi scritti inviati tramite la posta interna aziendale.

Nel periodo in cui stavo leggendo quel libro di Zavoli (fine anni ’90) ero ormai in possesso di un personal computer mobile aziendale scrivevo da solo le lettere ed ero in grado di trasmetterle ai miei colleghi di altre città tramite la posta elettronica con i quali, peraltro, ero in grado di parlare ad ogni ora del giorno con il “telefonino” (quello era allora il nome di quello che ora è diventato “cellulare mobile”) aziendale.

Il mondo, dal 1974 alla  metà degli anni ‘90, era cambiato in modo molto profondo e, quello che notavo, questo cambiamento era avvenuto con una crescente accelerazione.

Questo fenomeno non era limitabile solo al mondo del lavoro ma anche a quello della comunicazione, della medicina, della scienza in generale...

L’unico mondo che appariva fermo era quello della politica ma anche esso cambiò improvvisamente, e con una accelerazione imprevedibile, grazie all’operazione giudiziaria di Mani Pulite e all’ingresso in politica di Berlusconi.

Che dire poi del fenomeno della globalizzazione economica e dei primi passi di Internet? L’avvento di Internet avrebbe sempre più rappresentato un momento di svolta epocale rivoluzionaria.

Sì, per parafrasare Zavoli si poteva affermare che  “la rivoluzione non era più nel cambiamento e nella sua velocità, ma nell’accelerazione con la quale tutto questo avveniva”.

Il secondo flash riguarda un mio lungo colloquio con il mio fraterno amico Renato avvenuto negli anni a cavallo del secolo.

Discorrevamo io, dirigente IBM ormai in vista di una pensione non lontana, e lui, lanciato dirigente di una primaria azienda di IT, sul tema del lavoro nel mondo nel terziario avanzato (in particolare elettronica e telefonia mobile).

Io mi lamentavo di essere chiamato dai miei manager sui dispositivi aziendali che mi erano stati forniti, non solo dopo cena e nei giorni festivi ma anche, in maniera massiccia, durante le ferie nelle quali mi vedevo costretto a passare gran tempo a rispondere al cellulare o al PC portatile.

Lui mi confermò che ormai fermarsi ad auspicare il ritorno ad un orario di lavoro fissato in maniera rigida o ad un periodo di ferie di totale riposo era un modo di pensare totalmente superato e irrealizzabile. Con la competizione tra aziende che aveva ormai superato i confini nazionali e si era ormai traferita a livello globale una azienda non poteva permettersi il lusso di fermarsi mai perché, nello stesso momento nel quale essa si fermava, una sua concorrente poteva continuare a lavorare (e a superarla..) in un’altra parte del mondo!

La soluzione non poteva essere trovata nel fissare dei limiti predefiniti all’orario di lavoro, ma nell’essere noi stessi a saper gestire una mole inimmaginabile di dati ogni giorno e a saper conciliare  le nostre attività (lavoro, hobby, famiglia) nel modo migliore tenendo presente l’impossibilità di fare programmi che non fossero se non a breve scadenza.

Aggiunse che, in un periodo non troppo lontano, sia il computer che il telefonino non sarebbero stati due strumenti diversi, bensì sarebbero stati unificati. Bisognava solo chiedersi se avrebbe fatto prima l’IBM a costruire un computer in grado assolvere le funzioni del telefono o la Nokia a costruire un telefonino in grado di assolvere le funzioni del computer.

Era circa intorno al 2005 quando uscì il primo dispositivo Blackberry (né Nokia, né IBM) che gestiva anche le email, oltre che le conversazioni telefoniche e gli sms…, Renato aveva visto giusto in anticipo!

Mi rendevo conto, seppure a malincuore, che le considerazioni (e le previsioni…) di Renato erano verosimili e corrette e, nel frattempo, mi chiedevo, con un certo senso di angoscia: “dato che praticamente sarò sempre connesso in rete e potrò ricevere comunicazioni in ogni momento, dato che questo processo non potrà che accelerare (in funzione della concorrenza su scala globale), come farò a gestire, con discernimento ed equilibrio, questa valanga di dati che mi piomberà addosso tutti i giorni? Quale spazio ci sarà per una fruttuosa vita privata e familiare”?

Nel terzo flash la memoria mi rimanda al 2007, quando con Patrizia passai una settimana di vacanza sulle Dolomiti vicino a Folgarida..

Durante quel breve periodo ebbi motivo di ascoltare una lezione di Ezio Aceti, uno psicologo che stimavo e stimo molto, sulla situazione dei bambini e degli adolescenti oggi.

Ezio faceva notare che quando eravamo bambini e adolescenti, noi avevamo molto meno stimoli, avevamo la radio, forse la televisione, il telefono, il cinema 1-2 volte al mese, gli input dei genitori, le lezioni dei docenti a scuola.

I nostri giochi erano semplici e per nulla o scarsamente interattivi.

Avevamo ampio tempo per ascoltare, per leggere, per far domande….

I bambini e adolescenti di oggi hanno molti più stimoli in aggiunta a quelli nostri (radio, televisione, cinema, genitori, docenti), sono sempre connessi tramite il loro cellulare o il loro computer, possono accedere a giochi molto interattivi che forniscono input e chiedono continue risposte spesso non verbali ma gestuali.

Avendo ogni giorno centinaia di stimoli di più di quanti ne avevamo noi, hanno minor tempo per ascoltare, per leggere, per farsi domande.

Devono sempre correre per tener dietro a tutti questi stimoli, di qui la loro frenesia ma anche l’acquisizione di nuove capacità.

Una delle quali, sottolineava Aceti era una grande capacità di lavorare in multi programmazione, ovvero di svolgere o seguire più attività contemporaneamente, senza peraltro poter approfondire.

Per star dietro a tutti gli input dovevano pagare lo scotto di restare in superficie senza andare in profondità sui diversi temi che affrontavano.

La maggior velocità portava inesorabilmente ad una maggiore superficialità.

Mia moglie Patrizia ed io constatammo la verità di questo assunto quando vedemmo un nostro giovane giovane amico che usciva, nello stesso tempo, a vedere la televisione e a studiare, ciò che né lei né io, da ragazzi, eravamo in grado di fare. Peraltro constatammo anche che lo studio era più basato sulle memorizzazione di ciò che andava leggendo che sulla sua comprensione.

Il quarto flash (ma lo chiamo così solo per comodità) si sostanzia nella maturazione della consapevolezza, nell’ultimo decennio, della accelerazione nella velocità del progresso della tecnologia.

Pur non avendo, da giovane, un retroterra di cultura scientifica (Maturità classica e laurea in Giurisprudenza), la lunga permanenza di 31 anni in una azienda ad alta tecnologia come la IBM, che ha comportato uso costante di HW e SW sempre più avanzato e il contatto continuo con persone di elevata cultura scientifica, mi ha fatto progredire di molto su questo aspetto.

Quando raggiunsi la pensione, il 1 gennaio 2006) acquistai il PC che usavo in azienda, perfettamente aggiornato, e sapevo usare la maggior parte dei programmi più diffusi.

Inoltre maneggiavo bene Internet, creai due email personali, un blog e, nel 2008, due profili e una pagina facebook.

Ora a distanza di appena poco più di un decennio, mi rendo conto che arranco faticosamente dietro una innovazione tecnologica sempre più avanzata, app invece di siti internet, programmi e sistemi operativi sempre più complessi e sofisticati, dispositivi (specialmente i cellulari smartphone) con comandi sempre diversi e pieni di funzioni inesplorate…

Una domanda può chiarire il concetto, quanti miei coetanei conoscono e usano tutte le app precaricate sul loro smartphone (so che non è corretto ma, con questo termine comprendo anche gli I-phone)?

O, più semplicemente quanti semplici cittadini sono capaci di usare un PC o un cellulare al massimo (o vicino al massimo) delle loro potenzialità?

Senza contare che ormai gli smartphone hanno assunto in gran parte anche le funzioni di un PC con l’aggravante di avere schermo e tasti più piccoli e, pertanto, comportanti maggior difficoltà di uso da parte di persone con la vista non perfetta (o anziani).

E’ un tema che è stato definito “digital divide”, ovvero la separazione tra generazioni (nonché singole persone) che si trovano pienamente a loro agio nell’uso appropriato della tecnologia e generazioni (nonché persone) che la usano in maniera superficiale perché non hanno il tempo necessario per imparare e gestire tutti gli stimoli generati dal sempre più rapido progresso tecnologico.

In pratica l’accelerazione della realtà tecnologica costringe una gran parte dell’umanità a correre sempre di più e necessariamente ad essere superficiale.

Non posso a questo punto non citare quanto rimasi colpito, durante lo studio universitario di Sociologia , dalle tesi espresse da G. Simmel e da autori della Scuola di Francoforte circa la differenza tra “ragione” e “intelletto”.

La ragione, secondo questi autori, è un principio che dà ordine alle conoscenze empiriche in base a domande che riguardano il loro “senso, e che non rinuncia al confronto con i sentimenti e con le domande ultime sul valore e sulla vita; l’intelletto è una facoltà essenzialmente logico-combinatoria, eminentemente orientata alla calcolabilità e in questa accezione è la più superficiale e adattabile delle nostre facoltà”.

E come dimenticare l’altro sociologo recentemente scomparso Z. Bauman e il suo riferimento alla “società liquida” , ovvero un tipo di società che cambia tanto velocemente che quando ci accingiamo a studiare uno dei suoi molteplici aspetti per comprenderlo, ci accorgiamo, quando pensiamo di averlo compreso, che quell’aspetto, nel frattempo è nuovamente cambiato.

Dalle riflessioni prima svolte in maniera autonoma e dallo studio del pensiero di questi eminenti autori non resta che concludere che l’unica maniera per stare al passo con le realtà che ci circondano in continuo mutamento accelerato è quella di avere un approccio puntato sulla veloce comprensione superficiale anziché su un discernimento approfondito. Questo perché un discernimento approfondito non è possibile se non a pochi eletti.

Tre recenti libri di M. Tegmark , L. Floridi , S. Quintarelli , tutti incentrati sulla Intelligenza Artificiale (di seguito definita “IA”) hanno destato in me una enorme impressione.

Ero consapevole degli enormi progressi che l’elaborazione elettronica stava facendo, ma mai avrei immaginato quello che ho letto.

Siamo ormai capaci di costruire computer / macchine / robot che sono in grado, in piena autonoma di migliorare se stesse e anche di progettare macchine più performanti. I nuovi  SW sono in grado di elaborare in maniera rapidissima un numero inimmaginabile di dati (i famosi “Big data”).

Chissà, ad esempio, se si sarebbe riusciti a inventare i nuovi vaccini anti-Covid in così breve tempo (rispetto agli standard precedenti) se non si fosse utilizzata la potenza della I.A.?

Ormai il computer che qualche anno fa sconfisse a scacchi il campione del mondo appare ormai ampiamente superato e sta alla mia vecchia calcolatrice elettromeccanica come il super computer di I.A. sta all’ultima versione della calcolatrice scientifica tascabile al servizio di un semplice studente universitario.

Mi ha molto impressionato, ad esempio il leggere che, con l’uso della moderna I.A., le multinazionali dell’e-commerce potranno, con l’accesso ai nostri dati personali, non solo “tagliare” offerte di prodotti particolarmente allettanti per noi, ma anche (e questo è sconvolgente) differenziare e “tagliare” i prezzi sulla base della capacità finanziaria individuale (con buona pace degli schemi della libera concorrenza e della fissazione del prezzo al punto di equilibrio fra la domanda e l’offerta).

Ci troviamo ai confini di un mondo sconosciuto, il cui futuro, nel libro di Tegmark, è soggetto a più e diversi scenari.

La domanda cruciale è: “sarà in grado l’uomo di controllare l’I.A. o questa sfuggirà al nostro controllo, data la sua incommensurabile maggiore capacità e velocità rispetto a quelle del nostro cervello?”

Ma un’altra domanda aleggia.

Assunto che speriamo di essere in grado comunque di controllare lo sviluppo dell’I.A. quanti saranno gli uomini capaci di tenere il passo in questa corsa ad alta velocità. Quali caratteristiche avranno?

A questa domanda non è possibile dare una risposta certa se non rimandando alla figura geometrica di una piramide alquanto bassa, con una base molto molto estesa e con un vertice appiattito molto molto ristretto.

Per questo motivo, qualche riga più sopra ho usato il termine eletti.

Gli eletti sono pochi, perché solo pochi possono avere sia la capacità intellettuale sia il sostanzioso know-how necessari per tenere il passo dell’I.A..

Certamente possiamo trovarli con maggiore facilità tra i giovani, laureati in discipline scientifiche, esperti in informatica, estremamente resilienti, piuttosto cittadini del mondo che riferibili ad una singola identità culturale nazionale.

Saranno i padroni del mondo, avranno una marcia in più e, con questa marcia, potranno essere sempre più potenti e più ricchi, perché saranno gli unici in grado di sfruttare appieno la potenza dell’ I.A..

La conseguenza di questa struttura sociale gerarchica e piramidale sarà certamente una crescita poderosa della disuguaglianza fra la classe degli eletti e la grandissima maggioranza del resto dell’umanità.

Come accetterà questo “resto” uno stato delle cose che lo relega in una situazione permanente di sudditanza (è giusto parlare di sudditanza piuttosto che di povertà perché l’I.A. darà il via ad una crescita poderosa del reddito mondiale e potrebbe permettere a tutti una vita almeno dignitosa)? Non si ribellerà?

NO!
Ma come faccio ad esserne così sicuro.

Abbiamo visto come l’I.A. può arrivare a sapere tutto di noi. Ogni volta che facciamo un movimento su Internet (ricerca di argomenti o di articoli o di fotografia, operazioni sul nostro conto corrente, spedizione e ricevimento di email e messaggi…) i relativi dati possono essere captati e memorizzati per costruire un nostro preciso profilo personale contenente la nostra situazione familiare, i nostri gusti, le caratteristiche fisiche, lo stato delle nostre finanze.

La I.A. può conoscerci meglio e in maniera più precisa e oggettiva di quanto possiamo conoscerci noi stessi. Sulla base delle informazioni in suo possesso, potrebbe benissimo manipolarci, farci offerte di servizi e beni che desideriamo fissando un prezzo “tagliato” sulla intensità del nostro desiderio e del nostro stato finanziario, potrebbe guidare le nostre scelte mostrandoci, su Internet, siti ed app che non conoscevamo ma appetibili su noi…. Potrebbe, e questo è forse l’aspetto più grave, manipolare le nostre scelte politiche, il nostro voto, pur rispettando formalmente la cornice democratica.

Sarebbe facile per l’I.A., conoscendo precisamente i nostri gusti, i nostri interessi, le nostre finanze, le nostre paure, le nostre relazioni personali…, elaborare tutti questi aspetti, mandarci messaggi (diretti, o anche indiretti mostrandoci, nelle nostre ricerche sul web, sempre certi argomenti in grado di agire sulle nostre emozioni profonde) e indirizzare le scelte politiche verso il sostegno ai fini e agli interessi propri della classe degli “eletti”.

Si tratterebbe di accentuale le nostre già esistenti distorsioni cognitive e percezioni selettive, di evidenziare certi aspetti dei nostri gusti e della nostre idee, lentamente annebbiandone altri, di annullare (o perlomeno attenuare fortemente) la nostra voglia di sapere, capire, approfondire in autonomia, e il gioco è fatto.

Potremo diventare schiavi, senza nemmeno accorgercene, pensando invece di essere pienamente libere.

Ho disegnato uno scenario tenebroso e irreale?

No, è uno scenario perfettamente verosimile e chi già lavora sulla elettronica evoluta, sulla comunicazione, se non addirittura sulla I.A. ne è pienamente a conoscenza.

E quello che ho disegnato già parzialmente avviene.

Non vi siete forse accorti che, quando effettuate una inquiry sui motori di ricerca web, al battere di una sola parola, il “sistema” vi offre una serie potenziale di possibili formulazioni della vostra inquiry a partire dalla parola inserita?

Non avete mai notato che, quando ad esempio fate una inquiry su un prodotto, quello stesso prodotto vi appare in una “finestrella” su siti web sui quali siete entrati successivamente.

E come mai facebook vi presenta sempre i post degli amici che più frequentate sul web (non solo su facebook) e non quelli degli altri numerosi amici?

Per passare alla manipolazione politica, come non pensare alle poderose macchine elettorali con propaganda mirata, anche a base di fake news, per indirizzare il voto dei cittadini. E le interferenze di Governi stranieri su elezioni di altri Paesi?

Mettiamocelo bene in testa; già viviamo a rischio di manipolazione in quella che gli esperti di comunicazione chiamano “bolla” mediatica e stiamo correndo il pericolo di esservi sempre più immersi.

Le future dittature potrebbero non essere più causate da colpi di stato o da rivoluzioni sociali, ma dalla manipolazione mediatica, questa sì totalitaria, indotte dalla I.A., per di più sotto la falsa cornice del rispetto formale delle regole democratiche.

Come difendersi da questa I.A dall’aspetto così invadente?

Un primo modo potrebbe essere quello di non difendersi, ma di assecondarne lo sviluppo.

Vorrebbe dire accettare, in cambio di una maggior sicurezza e di un dignitoso benessere, di essere manipolati nelle nostre scelte di fondo, pur conservando (e questo è terribile) la parvenza di una apparente libertà personale.

Un modo alternativo potrebbe essere quello vagheggiato da chi propone un ritorno ad un surreale “stato della natura”.

E’ una ipotesi affascinante anche perché permetterebbe di affrontare anche un altro problema, quello dell’enorme mole di energia che viene consumata dalla I.A..

Ci possono essere due modalità di intendere questo ritorno alla natura, una radicale e una temperata.

La prima consisterebbe nel bloccare il progresso tecnologico e concentrarsi solo nella equa ripartizione dei risultati dello stesso, con due obiettivi:

1) ridistribuire il benessere, creando maggiore uguaglianza tra i popoli e, dentro i popoli, tra le singole persone;

2) ricostruire l’equilibrio ecologico del pianeta.

Ma è una soluzione possibile e, soprattutto augurabile? Vogliamo rinunciare alle ricerche in campo medico per trovare medicinali e vaccini più efficaci, vogliamo rinunciare a ricerche in capo scientifico per, ad esempio, pervenire a trarre energia non dalla fissione, ma dalla ben più pulita fusione nucleare?

E altri esempi potrebbero farsi.

Ma soprattutto, possiamo bloccare l’anelito primordiale dell’uomo ad usare le proprie capacità per trovare soluzioni innovative ai suoi problemi?

No, non possiamo bloccare, sic et simpliciter il progresso tecnologico.

Diverso è ricorrere ad una modalità temperata di ritorno alla natura.

Non si tratta, in questo caso, di bloccare, bensì di rallentare e indirizzare il progresso tecnologico verso obiettivi di:

1) ripristino dell’equilibrio ecologico del pianeta;

2) estrema attenzione a bloccare o quantomeno moderare le potenzialità di manipolazione mediatica indicate qualche riga più sopra.

Siamo ancora in tempo? siamo ancora in grado di controllare lo sviluppo della I.A. o ormai questa è avviata in modo ineluttabile a svilupparsi in maniera autonoma e ad arrivare al punto (terrificante) di essere più potente dell’uomo?

A questa domanda non so rispondere e, sinceramente, non so se gli scienziati stessi siano in grado di rispondere in maniera unanime. Stando alle mie letture sull’argomento, questa unanimità non esiste.

Ma ancora, stando all’attuale modello culturale imperante, siamo in grado ancora di ragionare (perché di questo si tratta) e di porre fine alla catastrofe? O è invece vero che la manipolazione mediatica delle menti è ormai così pervasiva che non è più possibile tornare indietro?

Non so se sia possibile una risposta razionale. Quello che mi sento di poter affermare è che appare necessario un grande atto di fede verso la capacità dell’uomo di rinascere e ricominciare di nuovo.

Servirebbe scoprire nuovi (o riscoprire vecchi?) parametri di riferimento valoriali e culturali quali:

1) il primato della piena dignità di ogni persona umana;

2) il valore della fraternità umana, ovvero la sensazione e la consapevolezza di essere tutti compartecipi di una stesso pianeta e di uno stesso destino;

3) il primato dello spirito di collaborazione su quello di competizione ;

4) il controllo della emotività da parte della razionalità.

Mentre scrivevo questo elenco mi sono accorto che stavo ripercorrendo i temi chiave di quel pensiero personalistico che mi ha sempre affascinato e che ha tra gli autori principali E. Mounier, J. Maritain, G. La Pira, L. Stefanini.

Per cominciare a ricostruire una solida cultura basata sui valori del personalismo occorre andare faticosamente controcorrente.

Come fare? quali strumenti usare?

Si aprono altre pagine da scrivere, e non mi sento in grado di scriverle io o, almeno non in grado di scriverle ora.

Chissà se qualcuno avrà voglia e capacità di continuare?

Comunque grazie a chi ha avuto la pazienza di leggere fino alla fine.

 

3)    Meglio “sapere” o “saper fare”? o… “saper essere”?
 

Un carissimo amico mi ha recentemente segnalato che Umberto Eco diceva che il bravo studente non è quello che sa a memoria la data di nascita di Napoleone, ma quello che è in grado di recuperare in due minuti l’informazione che gli serve l’unica volta della sua vita.

E’ questo l’ultimo di una serie di input mentali che sono arrivati alla mia mente nel corso degli anni e che sono all’origine di questa riflessione.

Il primo lo ebbi molti anni fa, nel marzo 1974, quando avevo 25 anni.

Ero stato appena assunto nella Direzione IBM che si occupava di politiche contrattuali e uno dei primi compiti del mio capo era quello di illustrarmi i contratti standard IBM, futuro oggetto del mio specifico lavoro.

Ricordo benissimo il mio stupore quando, per spiegarmi il primo contratto, quello di noleggio, il capo tracciò su un foglio una riga orizzontale, con due lineette verticali agli estremi dicendomi: “questa è la durata del contratto”.

Il mio stupore aumentò quando scrisse il numero 12 sulla riga orizzontale (“la durata del contratto è di 12 mesi”) e tracciò altre undici lineette verticali lungo la riga per evidenziare i dodici mesi della durata.

Non era finita… Per chiarirmi che il cliente, per recedere dal contratto, avrebbe dovuto dare la comunicazione di recesso con un preavviso di tre mesi rispetto alla fine del contratto stesso, accentuò con un deciso tratto di matita la lineetta verticale che indicava l’inizio del primo mese dell’ultimo trimestre!

Ero attonito, non riuscivo a capacitarmi come il mio capo non sapesse dire con semplicità (per di più ad un laureato in Giurisprudenza con il massimo dei voti): “il contratto IBM di noleggio ha una durata di 12 mesi e può essere disdettato dal cliente con un preavviso di tre mesi rispetto alla scadenza”. Più tardi compresi…

Ma andiamo avanti.

Il secondo input mentale mi deriva ancora dal mio lavoro.

Ero stato abituato, come studente di Giurisprudenza e poi come laureato, a leggere i testi normativi cercando di ricostruirne a mente l’impalcatura teorica, ricordandomi successivamente innanzitutto questa impalcatura e solo dopo quel che ne derivava, ovvero le singole norme.

Scoprii invece il diverso modo di operare in azienda. La normativa, ovvero la procedura veniva trasformata in un diagramma a blocchi nel quale i quadratini o i rombi indicavano i diversi passaggi da fare e le frecce, monodirezionali o pluridirezionali (nel caso che le scelte potessero essere diverse) le opzioni di azioni disponibili.

Per operare non era più necessario rileggere (con gli occhi o, più spesso con la memoria) la normativa, ma era sufficiente rileggere il diagramma a blocchi.

Il terzo input lo ebbi (verso il 2000) in un negozio di vendita di beni elettronici.

Avevo appena acquistato un nuovo cellulare, di marca diversa da quello precedentemente utilizzato e notai che nella scatola non c’era alcun foglio che ne illustrasse il funzionamento (come era stato normale trovarlo in tutti gli elettrodomestici che fino allora avevo acquistato).

Domandai chiarimenti al commesso che, piuttosto stupito per la domanda, mi rispose: “no, non c’è alcun manuale operativo cartaceo, se vuole le può essere d’aiuto andare sul nostro sito web dove lo potrà trovare ma, segua il mio suggerimento, faccia come fanno i ragazzi, ci smanetti sopra e vedrà come è facile, smanettando, imparare le diverse funzioni”.

Il quarto input lo ricevetti nel corso di un incontro che ebbi, verso il 2010, con alcuni giovani amici studenti di Giurisprudenza, tutti ragazzi con buon profitto, che si lamentavano del metodo di insegnamento attuato in Facoltà, troppo sbilanciato verso la parte teorica piuttosto che verso la la pratica.

Rimasi molto sconcertato perché quando mi ero laureato io, lo studio era esclusivamente teorico, ma ne presi atto.

Del resto, nel 2007, quando seguii, ormai in pensione, il Master biennale di Mediazione familiare notai l’abnorme numero di simulazioni. Ogni volta che veniva completato un passaggio teorico subito seguiva una simulazione pratica.

Quando chiesi alla Direttrice del Corso il motivo di queste simulazioni (“ho perfettamente capito la lezione teorica, che bisogno c’è della simulazione?”) mi rispose che la grande maggioranza degli studenti aveva bisogno della simulazione pratica per poter comprendere e far proprio il contenuto della lezione teorica.

Il quinto input (e forse, se mi sforzassi, ne troverei altri…) mi deriva dalla mia esperienza di coniuge di una insegnante.

Mia moglie aveva notato una caratteristica del comportamento comune a molti studenti.

Di fronte ad un problema che comportava l’applicazione pratica di un postulato teorico (che avrebbero dovuto comunque sapere) la maggior parte di essi seguiva due strade alternative:

1) scrivere i termini del problema sullo smartphone sperando così di trovare la soluzione;

2) chiedere la soluzione finale al compagno di classe bravo, che aveva studiato la teoria ed era arrivato alla soluzione con passaggi logici, e, una volta saputo la soluzione finale, provare e riprovare finché non si arrivava alla soluzione che si era carpita.

Sulla base di tali considerazioni mi viene da concludere che ormai si è consolidata la prevalenza del “saper fare” (trovare la soluzione provando o riprovando) sul sapere (ricavare la soluzione dalla teoria) o, per dirla in altro modo, la prevalenza della pratica sulla teoria o, per dirla ancora in altro modo, la prevalenza del metodo induttivo su quello deduttivo.

Sul rapporto fra teoria e pratica mi vengono in mente alcune considerazioni illuminanti di Emanuele Kant:

 

“Si chiama teoria un corpus [Inbegriff] di regole anche pratiche, quando queste regole, come princípi, sono pensate con una certa universalità e quindi si astrae da una serie di condizioni che pure hanno necessariamente influsso sulla loro applicazione. Viceversa si chiama pratica non ogni affaccendarsi, bensì solo quella attuazione [Bewirkung] di un fine che è pensata come osservanza [Befolgung] di certi principi dell'agire, rappresentati in generale.

Che, fra la teoria e la pratica, si richieda ancora un termine intermedio di connessione e di transizione dall'una all'altra, per quanto la teoria possa essere completa, è evidente: infatti al concetto dell'intelletto, che contiene la regola, si deve aggiungere un atto della facoltà di giudicare, tramite cui il praticante [Praktiker] distingue se qualcosa sia o no il caso della regola; e poiché alla facoltà di giudicare non si possono dare sempre di nuovo regole secondo cui dirigersi nella sussunzione (perché si andrebbe all'infinito), così ci possono essere teorici che nella loro vita non riescono mai a diventare pratici, perché fa loro difetto la facoltà di giudicare; per esempio medici o giureconsulti che hanno fatto bene la loro scuola, ma che se hanno da dare un parere non sanno come comportarsi. Ma anche qualora si incontri questa dote di natura, può ancora darsi una mancanza nelle premesse; cioè la teoria può essere incompleta e il suo completamento può forse aver luogo solo tramite esperimenti ed esperienze ancora da fare, dai quali il medico, l'agronomo o il cameralista che viene dalla sua scuola possa e debba astrarre nuove regole e completare la sua teoria. Non dipendeva dunque dalla teoria, quando valeva ancora poco per la pratica, ma dal fatto che non ce n'era abbastanza; teoria, questa, che egli avrebbe dovuto imparare dall'esperienza e che è vera anche se non è capace di darsela da sé e di rappresentarla sistematicamente, come insegnante, in proposizioni generali e dunque non può pretendere il nome di medico teorico, agronomo teorico e così via. Nessuno quindi può farsi passare per esperto in una scienza sul piano pratico e tuttavia disprezzare la teoria, senza farsi riconoscere semplicemente come un ignorante nella sua disciplina, in quanto crede che brancolando in esperimenti ed esperienze, senza raccogliere certi princípi (che formano propriamente ciò che si dice teoria) e senza aver riflettuto sulla sua attività come un intero (che si chiama sistema, se si è proceduto metodicamente) possa andare più lontano di dove la teoria sia in grado di portarlo.”

Questo pensiero di Kant è alquanto lungo ed espresso in un linguaggio molto diverso da quello usato oggi.

Cercando di semplificare e riepilogare, Kant afferma che è più semplice e veloce trovare una soluzione pratica partendo da un impianto teorico che trovarla “brancolando in esperimenti ed esperienze”.

E questa affermazione mi pare estremamente ragionevole se si riferisce alla situazione dei secoli precedenti il XXI.

Oggi, con il rilievo e le capacità elaborativa che ha assunto l’informatica, particolarmente con il sorgere e l’impetuoso crescere della Intelligenza Artificiale (IA) questo è ancora vero?

Torniamo alla considerazione di Umberto Eco citata all’inizio di questo scritto “il bravo studente non è quello che sa a memoria la data di nascita di Napoleone, ma quello che è in grado di recuperare in due minuti l’informazione che gli serve l’unica volta della sua vita”.

Tale considerazione era condivisibile nella misura in cui questo “saper fare” del bravo studente (nel caso in questione saper trovare rapidamente una informazione senza che fosse stato necessario prima “saperla” trattenere sulla memoria) si riferisse solo al reperimento di un dato (la data di nascita di Napoleone) e non pure alla elaborazione di una ipotesi storica per la quale fosse necessario il riferimento ad altri avvenimenti contemporanei alla nascita di Napoleone.

Se invece si fosse trattato di inserire la vita di quest’ultimo all’interno del suo contesto storico (ad esempio la Rivoluzione Francese, la ventata liberale in Europa, la crescita della classe borghese…) una ricerca veloce sarebbe stata possibile solo avendo una cultura di base che avesse permesso di collegare ed elaborare diverse informazioni storiche di carattere sociale, politico, economico.

Oggi la accresciuta potenza dei motori informatici di ricerca, unita alla possibilità di utilizzare anche tutte le immani potenzialità dell’IA permetterebbe al bravo studente citato da U. Eco di avere a disposizione molto rapidamente non solo la data di nascita di Napoleone ma anche le informazioni (collegate) relativamente al contesto storico in cui si trovò a vivere Napoleone.

L’avvento della IA ha cambiato le carte in tavola, il saper smanettare bene (“la pratica”) sulla tastiera di un computer o di uno smartphone è più efficace del sapere (“teoria”) delle informazioni e averle trattenute nella propria memoria pronte per l’uso.

Si può concludere che l’avvento della Intelligenza Artificiale ha confutato il succitato pensiero di Kant sulla prevalenza, sia in  termini di velocità che di efficacia, della pratica sulla teoria e del saper fare sul sapere?

La risposta dovrebbe essere positiva sulla base di un buon grado di ragionevolezza.

L’uomo pratico, per usare i termini del grande filosofo tedesco, non brancola più in esperimenti ed esperienze ma, supportato dalla inimmaginabile (fino a questo secolo) potenza dell’informatica naviga sicuro e veloce tra milioni di informazioni elaborate in pochi nanosecondi per giungere celermente a soluzioni affidabili e sicure.

La pratica, il saper fare, il metodo induttivo, i cosiddetti soft skill (quelli che in italiano vengono chiamati “competenze trasversali”) sembrano aver vinto, grazie soprattutto alla IA, la loro sfida con la teoria, il sapere, il metodo deduttivo, gli hard skill.

Ma è proprio così? Hanno veramente conquistato il monopolio del conoscere?

Temo (o spero?) di no!

Potrà mai l’IA rispondere a domande come queste:

a) quale è il senso della mia vita?

b) perché sento che questa mia scelta, nonostante sia ragionevole sulla base dei dati raccolti, non mi soddisfa internamente?

c) quando è che mi sento pienamente realizzato?

d) che risposta do a questo mio senso del mistero, dell’infinito, che mi trascende?

e) l’amore (sia sensuale che non), l’amicizia, la empatia sono solo reazioni fisico / chimiche del mio corpo o c’entra qualcos’altro?

Sinceramente è mia personale opinione che queste ed altre questioni, appartenenti, sulla base della vecchia cultura classica, al campo della “metafisica”, non possono essere risolte con il semplice ricorso alla IA.

La metafisica riguarda non tanto il “saper fare” né il “sapere” (in termini di conoscere) quanto soprattutto quello che potremmo chiamare il “saper essere”, ovvero la consapevolezza della propria identità, delle proprie radici sia genetiche che culturali, la nostra direzione di marcia verso il futuro, il senso della vita e, diciamolo pure… della morte!

Non sento di poter andare oltre e chiudo senza dimenticare di ringraziare di cuore chi ha avuto la pazienza di leggermi sino alla fine.

 

 

4)    E’ possibile liberarsi della manipolazione mediatica?

Domande senza risposta?

Al termine della mia riflessione su “meglio sapere, o saper fare o, ancora… saper essere?” mi sono chiesto se l’Intelligenza Artificiale (di seguito la chiamerò IA) potrà mai rispondere a domande come queste:

a) quale è il senso della mia vita?

b) perché sento che una mia scelta personale, nonostante si presenti ragionevole sulla base dei dati che ho raccolto, non mi soddisfa pienamente nel mio intimo?

c) quando è che mi sento pienamente realizzato?

d) che risposta do a questo mio senso del mistero, dell’infinito, del sacro, che mi trascende?

e) l’amore (sia sensuale che non), l’amicizia, l’ empatia sono solo reazioni fisico / chimiche del mio corpo o c’entra qualcos’altro?

E ancora:

f) come fare a distinguere il bene dal male?

g) quali sono i valori ai quali non potrò mai rinunciare se non al costo di non considerarmi più un uomo?

La risposta che mi do è No, molto difficilmente l’IA potrà rispondere a domande come queste (e altre potrebbero essere aggiunte da qualche lettore…), comunque sempre riguardanti l’ambito della metafisica o dell’etica.

Domande con risposte da parte dell’IA.

L’IA sarà invece in grado, prima o poi, di rispondere, più velocemente e esaurientemente, dell’uomo, a domande che possano essere risolte tramite:

1) la raccolta delle informazioni necessarie;

2) il successivo loro collegamento rivolto ad elaborare una risposta logica.

Ma cosa vuol dire raccogliere informazioni, collegarle fra loro ed elaborarle in una risposta se non ragionare e, ragionando, dare una risposta toh! “ragionevole”?

Maggiore è il numero di informazioni da trovare, collegare ed elaborare, maggiore è l’efficacia della IA rispetto all’ intelligenza umana.

E’ estremamente importante da sottolineare che, a parte le domande poste nell’ambito metafisico e/o morale, tutte le altre potranno molto probabilmente ottenere risposte più rapide e precise dalla IA.

Non solo, occorre tener presente che l’IA, allo stato attuale del suo sviluppo, può anche riflettere sulle proprie risposte, farsi domande conseguenti e trovare le relative risposte. Già esistono computer che si rendono conto dei propri limiti di elaborazione e si ristrutturano in maniera autonoma (ovvero senza l’intervento umano)  per superare tali limiti (ad esempio creando nuovo software al loro interno).

Praticamente, con la solita eccezione dell’ambito metafisico / etico, già in larga parte l’area della memoria e della razionalità è stata espropriata all’uomo a favore dell’informatica e ancor più della IA.

Per restare su aspetti semplici, basta notare quante volte andiamo sui motori di ricerca per trovare una informazione ( la data di un evento storico, il nome di un personaggio…) o, ancora, quante volte facciamo una domanda, anche complessa e articolata, sui motori di ricerca e questi ultimi ci danno velocemente una risposta esatta.

Senza dimenticare il sostegno che l’IA offre allo sviluppo della scienza e di soluzioni scientifiche all’avanguardia. Alzi la mano chi è convinto che l’IA non abbia contribuito in maniera determinante alla velocità con la quale sono stati trovati i vaccini MRNA per combattere il Covid 19!

Tutto facile allora?

Se la IA risolve i problemi di ordine logico molto più velocemente ed esattamente di noi, se offre un contributo determinante allo sviluppo scientifico, vuol dire che può solo facilitarci la vita?

Forse non è proprio così.

Non sarà forse che con l’avanzare della IA nel campo della razionalità e della memoria quantitativa e meccanica, si ritrarrà lo spazio della razionalità e della memoria umana?

Quanti di noi usano già l’app “calcolatrice” del proprio smartphone per effettuare calcoli anche facili che fino a due decenni fa era normale effettuare a mente sulla base delle famigerate “tabelline” scolastiche e dell’uso delle facoltà cerebrali di computo?

Quanti di noi, per andare in automobile in un posto lontano o anche vicino ma sconosciuto sono ancora soliti andare a cercare questa location su mappe cartacee o (e qui già entra in campo l’informatica) su google maps o app similari invece di affidarsi direttamente al “navigatore” installato sulla propria autovettura o sul proprio smartphone?

Quanti di noi, per scegliere o acquistare una automobile o una casa (o qualsiasi altro oggetto di valore), si affidano ad un programma software (ad esempio, nella maniera più semplice, un foglio Excel approntato da noi stessi o, meglio, già predisposto) nel quale inserire (o trovare già inseriti) i criteri per orientare la scelta tra le diverse alternative (ad esempio, nel caso di una automobile, la casa di produzione, la velocità, il consumo, il tipo di energia che usa, il cambio ecc.) dando a ciascun criterio un peso per giungere ad una valutazione ponderata della scelta fra le diverse alternative? Ci siamo chiesti come avremmo fatto due decenni fa e come molti noi ancora fanno? Forse avremmo usato la nostra capacità di memoria e di ragionamento! Magari avremmo attivato i nostri amici e parenti, ci saremmo consultati con loro invece che… con il computer!

Certo, l’informatica in generale e, più in particolare l’IA sta riducendo i tempi di elaborazione delle nostre scelte personali; ma sta anche riducendo i tempi trascorsi ad utilizzare le nostre facoltà cerebrali e, attenzione! non sta forse atrofizzando, a causa del loro non uso, parte di tali facoltà cerebrali?

E ancora, non sta forse diminuendo la nostra capacità di socializzazione, l’attitudine ad attivare ed a consolidare costruttivi rapporti interpersonali? Sarebbe interessante chiedere, su questo aspetto, il parere di quanti stanno già spendendo molto del loro tempo di lavoro in smart-working.

Fra dieci anni saremo ancora in grado fare un calcolo semplice senza usare l’app “calcolatrice”, andare in un luogo lontano sulla base di una mappa rinunciando all’uso del “navigatore”, fare scelte personali di acquisto senza ricorrere all’aiuto dell’informatica, uscire di casa per incontrare fisicamente gli amici e/o i colleghi di lavoro?

Ma, soprattutto, saremo capaci di fare scelte personali o l’IA le farà in effetti al posto nostro illudendoci del contrario?

Questo è il grosso rischio, più l’IA aumenta il suo spazio nell’ambito della realtà materiale suscettibile di razionalizzazione, più diminuisce nello stesso ambito lo spazio riservato all’uomo e alla sua intelligenza.

Una umanità teleguidata?

Se l’attività di analisi di dati, di loro valutazione, di scelta dell’opzione migliore è svolta in maniera più veloce ed efficace da parte dell’IA che da parte dell’uomo,  non potrebbe accadere di trovarsi di fronte ad una totale resa dell’uomo nell’ambito delle realtà fisiche e materiali e ad un suo rifugiarsi nell’ambito di quelle più intime o di quelle spirituali?

Non potremmo assistere ad una umanità teleguidata in toto da un superpotere dell’IA tramite lo strumento della manipolazione mediatica?

Se l’IA è in grado di conoscere tutto di noi stessi (dati personali, preferenze di ogni tipo, capacità di spesa, simpatie politiche…) cosa potrebbe impedirle di usare queste informazioni per dirigere la nostra vita in una direzione e verso obiettivi propri dei pochi che riescono a governare l’IA? Non abbiamo già avuto esempi di come la manipolazione mediatica riesca ad influenzare scelte elettorali (gli esempi abbondano) o scelte collettive di consumo (addirittura diversificando i prezzi sulla base della capacità individuale di spesa e della propensione al consumo)?

L’IA non potrebbe essere lo strumento per attuare, da parte di pochi, una dittatura informatica tramite la manipolazione mediatica?

Ritenete che si tratti di domande puramente teoriche, di astruserie di persone che si divertono con elucubrazioni mentali?

Forse chi avrà voglia di leggere i testi citati nella piccola bibliografia indicata alla fine di queste considerazioni, potrebbe avere l’opportunità di condividere questo timore.

Come imporre una dittatura informatica?

Quale potrebbe essere una strategia per creare questa situazione nella quale, attraverso un uso spregiudicato (ma mirato…) della IA si possa pervenire ad influenzare pesantemente il comportamento di milioni di persone?

Come pervenire a instaurare quella che più sopra abbiamo definito una “dittatura informatica”?

La strategia probabilmente si dovrebbe strutturare attraverso tre precise serie di azioni.

1.       In primo luogo la raccolta di dati.

Occorre che vengano reperiti, tracciati e quindi raccolti (al fine di poterli elaborare) i dati personali del maggior numero possibile di persone, generalità individuali (data di nascita, residenza, stato civile, situazione familiare), preferenze di consumo, disponibilità finanziarie, simpatie politiche, tipo e qualità delle amicizie…

Si giungono così a creare innumerevoli (miliardi?) di profili individuali e a catalogare e classificare tali profili in blocchi che comprendano profili con caratteristiche abbastanza omogenee fra di loro.

 

2.       In secondo luogo la costruzione e diffusione di quelle che semplicisticamente vengono definite “fake news”.

In realtà non si tratta di costruire e diffondere notizie interamente false, bensì anche notizie parzialmente false oppure di bloccare la diffusione di notizie vere ma che potrebbero far aprire gli occhi su precedenti o contemporanee informazioni false.

E’ una vera e propria azione di falsificazione delle realtà trasmessa con una carica psicologica tale da restare impressa, più che nella parte cerebrale, in quella emotiva, nella cosiddetta “pancia” delle persone .

 

3.       In terzo luogo la creazione di nuovi paradigmi, ovvero nuovi schemi di riferimento mentali.

Tutti noi usiamo questi schemi, ovvero facciamo (in maniera pressoché automatica) una ricerca veloce nella nostra memoria per ricordare come ci siamo comportati in un certo frangente similare e tendiamo a ripetere quel comportamento, particolarmente se quel tipo di comportamento ci ha permesso di conseguire risultati positivi (ci diciamo internamente “ha funzionato bene”

Ogni volta in più che implementiamo quello stesso comportamento tendiamo, con questa continua ripetizione, a consolidare un preciso schema di riferimento.

Può però capitare che quel certo comportamento, che più volte ha funzionato in maniera ottima, dimostri la sua inattitudine a “funzionare” in una situazione che ci pareva uguale ad altre verificatesi in precedenza e che invece era solo apparentemente uguale ma, in effetti alquanto diversa.

E’ quello che accade allorché un paradigma, uno schema di riferimento mentale, si trasforma in una “distorsione cognitiva”, ovvero pensiamo di conoscere una determinata situazione, mentre in effetti la situazione è diversa.

Sulla base delle informazioni in nostro possesso “leggiamo” una situazione in un determinato modo e applichiamo a quella situazione uno schema di riferimento che, nelle volte precedenti, ha funzionato benissimo sfruttando al meglio a nostro favore le potenzialità offerta da quel particolare contesto.

Che accade però se le informazioni che abbiamo raccolto non sono vere o, peggio, sono state falsificate da altri proprio per modificare il nostro comportamento? Accade che il nostro comportamento, implementato in base una visione distorta della realtà, risulta inadeguato agli scopi prefissi.

Ricapitolando i punti precedenti, possiamo dedurre che una “entità” (politica o economica), che sia pienamente a conoscenza delle nostre caratteristiche personali (peculiarità fisiche, dati logistici, familiari e finanziari, preferenze di gusti, opinioni culturali e politiche…) può, inviandoci false informazioni, attivare in noi determinate distorsioni cognitive e condizionare pesantemente il nostro comportamento senza che noi ne siamo consapevoli.

Ma può una “entità” essere in grado di fare questo a livello mondiale, può raccogliere i dati di miliardi di persone, elaborarli creando profili sia personali che diversificati per tipologia di persone, può mirare e veicolare le informazioni false in maniera da differenziare le stesse in funzione delle diverse persone e delle diverse tipologie, può praticamente orientare il comportamento del mondo intero?

Non so se già questo sia possibile ma certamente lo sviluppo della IA lo renderà possibile. Sarà invero possibile imporre una “dittatura informatica” a livello globale attraverso la manipolazione mediatica delle menti delle persone.

Come difenderci?

Come difenderci, a livello individuale, dal rischio che la nostra mente possa essere mediaticamente manipolata e, di conseguenza, il nostro comportamento, essere condizionato e indirizzato verso fini prescelti da altri?

Quando ero poco più che ventenne e avevo in animo di fare la mia tesi di laurea sui valori della democrazia, mi capitò di leggere “I fondamenti della democrazia” di Hans Kelsen .

Kelsen, giurista e sociologo di rilievo mondiale, appartenente alla Scuola di Vienna, sostiene, in questo libro, che il fondamento della democrazia (o, per meglio chiamarla, della liberaldemocrazia) è la cultura del “dubbio”.

Se non ho dubbi, argomentava Kelsen, se penso di avere ragione, di possedere pertanto la “verità” su un determinato argomento, se penso, di conseguenza, che la mia verità non possa che essere sinonimo di bene sia per me che per gli altri (altrimenti non sarebbe “verità”…), quali remore dovrei avere non solo a proporla, ma addirittura ad imporla agli altri... per il loro bene?

A rifletterci, è questo il principio implicito nella dottrina della maggior parte delle religioni a sostegno della loro attività missionaria. Convertire diventa sinonimo di imporre all’altro l’adesione ad una certa fede perché in tal modo realizzerà il suo bene.

Secondo Kelsen solo se mi pongo in un atteggiamento di dubbio, sono capace di presentare la mia opinione all’altro, di ascoltare serenamente la sua e, in uno spirito di ascolto reciproco ( di “dialogo”…), camminare insieme verso la ricerca della verità.

Nel corso della mia vita talvolta ho avuto la forza (perché non è facile…) di assumere questa cultura del dubbio e mi sono chiesto, in certe situazioni in cui avevo espresso una opinione o adottato un comportamento che altre volte era stato giusto; “se invece avessi torto?”, “se quello che dice il mio interlocutore fosse vero?”, “non è che sto insistendo a seguire la mia idea per ostinazione o, peggio, per pigrizia?”.

Ebbene, quando ho avuto questa forza sovente mi è capitato di cambiare la mia opinione, di accettare in tutto o, più spesso, parzialmente, quella del mio interlocutore.

Avere questa cultura del dubbio può essere il primo passo per l’acquisizione di una maggiore libertà di giudizio rispetto alle informazioni che cerchiamo e troviamo autonomamente o che ci piovono addosso da altri.

Ma vivere con questa cultura del dubbio non deve sfociare nell’abbracciare uno scetticismo estremo, bensì nell’evitare di accettare acriticamente informazioni infondate e, invece, nel diventare capaci di valutarle e di discernere, nel mare di informazioni nel quale nuotiamo, quelle vere e utili da quelle false o inutili.

Una volta acquisita una sana cultura del dubbio, il passo successivo per combattere le distorsioni cognitive consiste nel saper ragionare correttamente e soprattutto nel confrontarsi costantemente con altri.

Leggere molto, leggere, con mente aperta, sia testi in linea con le nostre opinioni che testi discordanti e riportanti opinioni diverse, leggere attentamente notando come le persone articolano e motivano i loro ragionamenti, leggere acquisendo un ampio bagaglio informativo, permette di ampliare non solo le nostre informazioni ma soprattutto la nostra capacità di ragionare ed esprimere giudizi corretti.

Ma non è ancora sufficiente.

Un altro e ultimo passo deve essere quello di confrontare le nostre opinioni, i nostri giudizi con quelli di persone che stimiamo (e che magari hanno opinioni e giudizi diversi) in un dialogo in cui la serenità, la sincerità, la assertività e, soprattutto, la voglia di ascoltarsi reciprocamente rappresentino caratteristiche comuni.

Coltivare sempre il dubbio, leggere (o vedere…) acquisendo il maggior numero possibile di informazioni, classificare, collegare e articolare queste ultime sulla base di ragionamenti corretti, mettere alla prova le nostre conclusioni in confronto e dialogo con amici che partono da conclusioni diverse, tutto ciò dovrebbe permettere di raggiungere un certo livello di capacità mentale e intellettiva sufficiente per riconoscere una gran parte delle informazioni false e fuorvianti e per limitare l’influenza della nostre distorsioni cognitive.

Ultima virtù da coltivare è l’umiltà, ovvero la capacità di essere consapevole che, nonostante tutti i tentativi che possiamo mettere in atto, la nostra imperfezione innata di essere umani non ci consentirà mai di essere sicuri di essere completamente liberi da potenziali manipolazioni (di qualsiasi tipo esse siano).

 

Di seguito una breve bibliografia sulla intelligenza artificiale (IA) e sul suo impatto sociale.

 

1.           Max Tegmark “Vita 3.0”, Raffaello Cortina editore, 2018

2.       Stefano Quintarelli “Capitalismo immateriale”, Bollati Boringhieri, 2019

 

3.       Luciano Floridi “Il verde e il blu”, Raffaello Cortina editore, 2020

 

4.       L. Floridi – F. Cabitza “Intelligenza artificiale”, Bompiani 2021

 

5.       Luciano Floridi “Etica dell’Intelligenza artificiale”, Raffaello Cortina editore, 2022

6.       C. Giaccardi – M. Magatti “Supersocietà”, il Mulino, 2022


7.        L. Giustini  “Cluster digitali”, Aracne 2018