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martedì 29 dicembre 2020

Ma la MMT (Modern Monetary Theory) è veramente moderna?

 


Letture giovanili

Nel 1975 (avevo 27 anni e mi piaceva, come anche ora, leggere) comprai e lessi con piacere il “Manuale di politica economica” di Francesco Forte.
L’autore era a quell’epoca docente a Torino di Scienza delle finanze, successore, in quella stessa cattedra, di un gigante come Luigi Einaudi.

Sono stato sempre appassionato di economia, a Roma, durante la frequenza di Giurisprudenza avevo superato, in modo lusinghiero, gli esami di Economia politica e di Scienze delle Finanze.
Dopo la laurea in Giurisprudenza continuai a interessarmi di economia leggendo testi della materia (sia a livello universitario che divulgativo) e soprattutto gli articoli di fondo del Corriere della Sera dedicati all’analisi economica (ad esempio gli articoli di Cesare Zappulli e di un certo… Mario Monti!).
Ricordo benissimo che leggendo il manuale di Forte rimasi colpito da due opinioni che contrastavano con quella prevalente corrente.

La prima, in netta contrapposizione con chi inveiva contro l’aumento di spesa pubblica come causa diretta di una seria dinamica inflazionistica, era che l’aumento di spesa pubblica non poteva creare tensioni inflazionistiche in presenza di un non piego impiego delle potenziali risorse reali del Paese (occupazione, uso degli asset produttivi ecc.).
Vedremo in seguito che questo non è del tutto vero, ma che in linea generale si tratta di una affermazione corretta.

La seconda, in netta contrapposizione con la politica dei vari Governi che si succedevano, tutti intenti a delegare alla Banca d’Italia l’uso della politica monetaria in un’ottica, a seconda dei casi, deflazionistica o inflazionistica della gestione dell’economia, era che lo strumento più adeguato ed equilibrato per indirizzare l’economia del Paese era la politica di bilancio. Sosteneva Forte che far intervenire la Banca d’Italia sulla massa monetaria circolante per spingere o frenare la crescita economica era un modo elegante usato dalla classe politica per evitare di fare scelte impopolari quali quelle di aumentare o di diminuire le tasse privilegiando alcune classi sociali a discapito di altre.
Infatti la diminuzione o l’accrescimento del potere d’acquisto a seguito delle manovre della Banca d’Italia, tramite il tasso di sconto, non faceva altro che penalizzare le classi meno agiate a favore di quelle in possesso di maggior reddito, laddove, invece, l’imposizione di tasse permetterebbe di indirizzare meglio sia i tagli che gli aumenti di denaro nelle tasche dei cittadini.

L’incontro con la MMT

Queste due affermazioni mi sono rimaste impresse nella memoria anche negli anni seguenti, nonostante la netta prevalenza delle teorie economiche monetariste e neoliberali patrocinate dalla Scuola di Chicago di Milton Friedman, mentre Forte si richiamava espressamente al pensiero di J. M. Keynes.
Grande è stata la mia sorpresa nel ritrovare recentemente queste stesse posizioni espresse nel libro “Il mito del deficit” scritto da Stephanie Kelton, docente universitaria, capo degli economisti del Partito Democratico USA e esponente di spicco della teoria economica meglio conosciuta come MMT (Modern Monetary Theory).

Cosa dice la MMT? O almeno cosa io, dilettante, ma non sprovveduto, di economia, ho capito di essa?
 

Elementi essenziali della MMT

Prima di tutto il fondamentale e pregiudiziale presupposto, per uno Stato che voglia ricorrere alla MMT, è:
1) l’avere una piena sovranità monetaria ovvero l’avere un proprio Istituto bancario di emissione (una Banca centrale) non autonomo dal Governo, nonché
2) l’avere una moneta nazionale inconvertibile (ovvero senza obbligo di convertirla con quella di un altro Stato o con un metallo prezioso come di norma è l’oro).

Secondo i teorici della MMT l’obiettivo di fondo della politica economica dovrebbe essere quello di puntare alla piena occupazione prescindendo dall’attenzione all’aumento della spesa pubblica come fonte di inflazione.
Si tratta di ribaltare completamente il pensiero dominante neo-liberale che pone come obiettivo di fondo della politica economica una crescita condizionata da uno stretto controllo del deficit pubblico al fine di limitare gli eventuali rischi inflazionistici.
Secondo l’impostazione neo-liberale si è anche disposti a considerare normale un determinato livello di disoccupazione (dal 5 al 10%) al fine di non far alzare il tasso di inflazione.
Gli economisti che si richiamano alla MMT contestano tale posizione adducendo la motivazione che, finché tutte le potenziali risorse reali[1]  del Paese non sono pienamente impiegate, l’aumento della massa monetaria (ottenuta stampando carta moneta o facendo comprare dalla propria Banca centrale i propri titoli di debito pubblico) non produce rischi inflazionistici.
Infatti la domanda aggregata aggiuntiva di beni e servizi, che viene creandosi a seguito dell’aumento della massa monetaria, può essere riassorbita dal maggiore impiego delle risorse reali del Paese senza per questo originare tensioni inflazionistiche.

L’importante (e qui è chiaro il collegamento con la seconda delle due opinioni espresse nel manuale di Forte, citato all’inizio) è evitare che tali tensioni si originino al momento in cui le risorse reali vengano impiegate nella misura massima (raggiungimento della piena occupazione e del pieno impiego dell’apparato produttivo) ed essere pronti a intervenire con manovre fiscali di restrizione mirata della massa monetaria limitando la liquidità di alcune classi sociali sulla base di precise scelte politiche (è da sottolineare che tali restrizioni mirate non sono possibili con il solo intervento della politica monetaria che adotta strumenti di tipo quantitativo e non qualitativo[2]).

In sintesi l’obiettivo della politica economica non è tenere l’inflazione sotto un tasso considerato ottimale (generalmente il 2%), bensì puntare (mediante l’emissione di moneta) alla piena occupazione compatibile con il massimo impiego delle risorse reali disponibili.
Come si fa a capire quando non c’è margine ulteriore nell’impiego? Quando si innescano tensioni inflazionistiche.
Con un paragone, del quale mi assumo la responsabilità ma che mi pare congruo, il rialzo dell’inflazione è assimilabile al rialzo della febbre, che segnala una infezione nel corpo umano.
Ci misuriamo la febbre quando ne percepiamo alcuni sintomi iniziali (stanchezza, mal di testa, sensazione di freddo…) ma non passiamo il tempo a misurarci la febbre. Così non dobbiamo essere ossessionati dal rialzo dell’inflazione, ma tenerla sotto controllo, con misurazioni periodiche, per evitare che l’economia giri a vuoto e si surriscaldi.
L’inflazione, secondo la MMT, serve a segnalarci che il pieno impiego delle risorse reali è raggiunto e che si tratta di sospendere l’immissione di moneta e di procedere, a seconda dei casi, a misure di sostegno dell’offerta produttiva oppure, se questo non sia possibile, a drenare la quantità di moneta e la conseguente domanda aggregata con misure fiscali mirate.


Due perplessità

L’obiettivo da tenere presente è dunque la massima occupazione. Due perplessità sorgono però immediate.

La prima si può sostanziare nell’osservazione che una massiccia iniezione di liquidità monetaria agevolerebbe senza dubbio il raggiungimento della piena occupazione senza stimolare alcun rischio inflazionistico finché tutte le risorse reali non vengano completamente impiegate.
Ma questo assunto si riferisce alla cosiddetta “inflazione da domanda” (ovvero l’aumento generalizzato dei prezzi originato da un eccesso generalizzato della domanda aggregata di beni e servizi rispetto alla offerta aggregata degli stessi).
Cosa accade nel caso di “inflazione da costi” (ovvero l’aumento generalizzato dei prezzi originato da un aumento, ad esempio, dei costi dei beni importati necessari per lo sviluppo della produzione interna o, ancora e soprattutto dall’aumento dei salari, probabile corollario dell’ aumento vigoroso dell’ occupazione)?
Tale aumento di salari sarebbe quasi automatico nel caso della piena occupazione in quanto, anche se non cesserebbe completamente almeno verrebbe molto attenuata la concorrenza nella domanda di lavoro e le organizzazioni sindacali avrebbero buon gioco nel richiedere ed ottenere miglioramenti salariali).
Ma lo stesso fenomeno potrebbe realizzarsi anche nel caso di mancato raggiungimento della piena occupazione, prima che, come spiegato nel prossimo paragrafo, si possano esplicare gli effetti della “job guarantee”.
Tirando le somme l’assunto della MMT “pompo moneta nel sistema fino all’impiego di tutte le risorse reali” e, una volta raggiuntolo, lo tengo sotto controllo con la politica fiscale, è sicuramente corretto ma non è semplice da mettere in pratica così come viene consigliato.

La seconda perplessità si può esprimere con la seguente domanda: e se, per la vischiosità dell’apparato produttivo (ad esempio per l’impossibilità di fare incontrare una specifica offerta di lavoro con una determinata domanda) non si potesse raggiungere la piena occupazione con la sola immissione di moneta nel sistema economico?
Secondo i teorici dell’economia classica di impronta neo-liberale questo ( una disoccupazione stabile dal 5 al 10%) è da accettare perché è insito nel funzionamento del sistema.

La MMT interviene invece con lo strumento della “job guarantee”.
In pratica si tratta di assicurare una vita degna anche a chi non riesce a trovare un lavoro mediante l’assunzione da parte dello Stato in lavori socialmente utili (essenzialmente lavori di “care” alle persone o di cura del territorio e dell’ambiente).
La job guarantee non deve trasformarsi in un reddito di cittadinanza e disincentivare le persone dalla ricerca di un lavoro, per questo dovrebbe essere previsto un salario che permette una sussistenza umana ma non agiata e comunque una forma di controllo che il lavoro venga effettivamente svolto con produttività e attenzione.
E’ da considerare che i servizi di care e di cura in questione, resi alle persone o al territorio vanno a formare il PIL del Paese, sono da considerare risorse reali, per questo non tendono a innescare tensioni inflazionistiche.

E nel commercio internazionale?

Finora abbiamo considerato la situazione del funzionamento di una politica economica, secondo la MMT, in un sistema nazionale chiuso.
Prima di dedicarci alle perplessità che alcuni passaggi di questa teoria destano, capiamo come la MMT affronta la problematica del commercio internazionale.  

Secondo la teoria classica un Paese dovrebbe cercare di esportare più di quello che importa, al fine di accrescere il proprio PIL e acquisire valuta estera, nonché per evitare, nel caso malaugurato che invece le importazioni eccedessero le esportazioni, di dover aumentare il proprio deficit statale e cedere valuta per acquisire prodotti provenienti dall’estero.
Alle spalle di questa teoria c’è sempre il già visto “mito del deficit” ovvero un bilancio pubblico aggravato dal debito e foriero di probabile inflazione.
La MMT risponde che un Paese che abbia sovranità monetaria (ovvero in possesso di una moneta nazionale non convertibile e con una Banca Centrale nazionale dipendente dal potere politico) non deve avere alcun timore del deficit.
Infatti il possesso di una moneta nazionale non convertibile e la presenza di una Banca centrale obbligata e comprare i titoli di debito emessi dallo Stato permette al Paese in questione di pagare il surplus delle importazioni semplicemente… pagandole con la propria valuta, ovvero aumentando la massa monetaria senza preoccuparsi dell’aumento del deficit finché questo non stimolasse tensioni inflazionistiche. E’ come se la domanda aggregata, spinta dalla politica monetaria espansiva, si rivolgesse all’acquisto di prodotti esteri in aggiunta a quelli nazionali; finché la domanda trova risposta nell’offerta (sia interna che estera) la tensione inflazionistica non dovrebbe innescarsi.
E’ implicito che, qualora si avvertisse un inizio di pressione sui prezzi, il Governo dovrebbe attuare un politica fiscale tendente a ridurre l’eccesso di domanda con iniziative mirate di aumento delle tasse o diminuzione dei benefici pubblici.

Tale impostazione della MMT sul commercio internazionale fa emergere peraltro alcune perplessità.
Il ragionamento procede linearmente finché si assume che il Paese possa pagare le proprie importazioni con la propria moneta nazionale.
Che succede invece se il Paese (“creditore”) che riceve tali pagamenti rifiutasse di accettare tale moneta? E perché questo rifiuto potrebbe verificarsi facilmente?
In primo luogo perché il Paese creditore potrebbe temere che la moneta offerta possa svalutarsi facilmente a causa della sua politica monetaria troppo espansiva del Paese debitore e trovarsi così in possesso di una valuta che non bilancia, in termini reali, il peso dei prodotti esportati.
In secondo luogo perché il Paese creditore, con una economia forte, potrebbe utilizzare la leva del rifiuto per arrivare ad una qualche forma di influenza politica sul Paese debitore.
In entrambi i casi potrebbe esigere che i propri prodotti esportati fossero pagati in metallo prezioso, nella propria valuta o comunque in altra valuta forte diversa da quella del Paese creditore.
Quest’ultimo si vedrebbe costretto ad attuare una politica economica più attenta sul fronte del commercio internazionale (bilanciando importazioni e esportazioni).
In alternativa potrebbe privilegiare le importazioni da Paesi del suo stesso peso politico rispetto a quelle da Paesi “forti”; questo però implicherebbe l’indirizzare le scelte dei propri cittadini verso alcuni consumi a detrimento di altri, comprimendo la libertà personale dei  propri cittadini e mettere in atto un orientamento politico di carattere autoritario
[GS1] [GS2] .

Una svolta autoritaria o altre ipotesi percorribili?

Quello di una svolta governativa in senso autoritario è dunque il rischio di un Paese, non appartenente alla piccola schiera dei Paesi “forti” (USA, Cina, Russia, Regno Unito…, già peraltro dotati di una Forma di Governo autorevole se non autoritaria), che voglia seguire una politica del commercio estero ispirata dalla MMT?
E come potrebbe, in alternativa ad una difficile soluzione di tipo autarchico, tale Paese praticare la MMT pur restando nel contesto del commercio internazionale?
Sì, appare proprio verosimile che un Paese non in possesso di una economia solida e non in grado di imporre (o almeno negoziare) l’uso della propria moneta negli scambi internazionali, non possa praticare integralmente sic et simpliciter i postulati della MMT.
Non per altro il libro “Il mito del deficit” di S. Kelton, citato all’inizio fa espresso e quasi esclusivo riferimento alla situazione USA e al suo dollaro, considerato universalmente come moneta di riserva del sistema valutario mondiale. 

Le alternative ipotizzabili all’abbandono, totale o parziale, della MMT sono due.
La prima ipotesi, già accennata poco sopra, è quella di porre in essere una politica economico sostanzialmente autarchica che però necessita, per essere attuata, di una stringente programmazione economica e di indirizzi abbastanza vincolanti sugli investimenti e sui consumi privati. A livello costituzionale e politico l’autarchia postula una svolta in senso autoritario della Forma di Governo.
La seconda ipotesi, forse più praticabile ma che presuppone una ampia visione e un grande coraggio politico, è quella di rafforzare il peso economico e politico di uno Stato puntando decisamente al superamento dello Stato nazionale verso un più esteso Stato Federale, composto dalla unione di più Stati nazionali.
Il peso politico ed economico acquisito permetterebbe al Governo Federale di porre in essere, con maggiore autonomia internazionale, una politica ispirata ai princìpi della MMT, corroborata dalla presenza di una Banca Centrale con il compito di sostenere gli obiettivi del Governo Federale (in primis, contemporaneamente, il raggiungimento e il consolidamento della piena occupazione  e il controllo della inflazione).
Come non pensare, noi cittadini europei ad una Unione Europea trasformata in Stato Federale e, in tal modo, in grado, ad un livello più alto rispetto a quello degli Stati Nazionale, di acquisire una reale “sovranità” politica e monetaria e un Governo autorevole per confrontarsi, con successo, con le altre superpotenze politiche ed economiche mondiali?
Curiosamente la MMT, teoria di politica economica e monetaria, sostenuta dai partiti “sovranisti” nazionali in Europa, potrebbe fungere da ponte verso una concezione, più realistico “sovranismo a dimensione europea”.

Conclusione

Concludendo, e scusandomi subito per la semplificazione (forse eccessiva, ma necessaria, in funzione del target di lettori al quale è rivolta questa riflessione), si possono tirare le somme finali, esplicitandole in due riflessioni.
In primo luogo, la MMT (Moderna Teoria Monetaria) tanto “moderna” non è se non intesa come una moderna e innovativa interpretazione del pensiero Keynesiano incarnato in uno Stato forte politicamente ed economicamente.
In secondo luogo la MMT, anche se non attuabile sempre ed ovunque, mette a disposizione della classe politica (e della classe dirigente nel senso più esteso) una “cassetta degli attrezzi” da utilizzare insieme agli altri strumenti della politica economica tradizionale (sia di impronta classica che Keynesiana), senza contare i nuovi orientamenti di economia civile di mercato, emersi soprattutto fra studiosi italiani di economia (Zamagni, Becchetti, Bruni, Gui, Pelligra).
Come spesso accade, il pragmatismo e il sincretismo pagano più della purezza dottrinale.


Roma 29/12/2020                                                      Giuseppe Sbardella

 



[1] Con il termine risorse reali ci si riferisce all’apparato produttivo e alla massa dei potenziali occupati

[2] Tipo la variazione del tasso di sconto e dei vari tassi di interesse decisi dalla Banca centrale


 [GS1]

 [GS2]