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domenica 28 agosto 2011

Tutto prevedibile....o quasi..

Il mondo occidentale è nel pieno di una ampia crisi economica e finanziaria, che l'ha praticamente colto di sorpresa. Ma è veramente tutto così sorprendente?

Per capirne di più è forse opportuno porci due domande.


La prima è: cosa vuol dire che una Nazione ha un pesante debito pubblico? Vuol dire, come succede anche nel caso delle famiglie, che ha dovuto contrarre debiti perché non era in grado di far fronte alle spese con il proprio reddito abituale. Vuol dire, in termini macroeconomici, che ha vissuto, e forse sta vivendo, consumando più di quanto sta producendo.

La seconda domanda è: cosa è la speculazione finanziaria? Scopo classico, legittimo ed utile, della finanza è la raccolta dei soldi dei risparmiatori per indirizzarli (tramite l'acquisto di azioni, obbligazioni o titoli misti) verso le necessità di investimento di aziende private o pubbliche, nazionali o internazionali. Le operazioni speculative, invece, prescindono completamente da questo scopo; sono operazioni che si esprimono in artifici o altri strani meccanismi che permettono di accrescere i propri soldi senza portare alcun beneficio concreto all'economia reale.

Due classici esempi di speculazione si hanno: 1) quando si vendono al prezzo N alcuni titoli senza averne il possesso (prevedendone il calo di valore) per poi riacquistarli a breve ad un prezzo minore di N e lucrando sulla differenza fra i due prezzi; 2) quando si acquistano titolo che praticamente consistono in scommesse su un default parziale o totale di una Nazione (c'è che ha guadagnato miliardi di dollari scommettendo sulla perdita della 3 A da parte degli USA. In entrambi questi esempi le operazioni speculative portano al ribasso delle Borse a prescindere dalla realtà concreta dell'economia.


Tornando alla domanda iniziale, possiamo con tranquillità affermare due elementi di fatto:

  1. tutti i Paesi dell'occidente (più marcatamente quelli dell'Europa meridionale) hanno continuato dagli anni '60 ad oggi, a praticare politiche keynesiane di aumento del debito pubblico, incrementando, senza copertura reale, la spesa pubblica non tanto per l'attuazione di investinenti produttivi necessari, quanto piuttosto per motivi clientelari e elettorali.

  2. Buona parte della ricchezza in possesso delle famiglie, spesso ignare, era originata da investimenti finanziari frutto di operazioni speculative da parte di banche e altri organismi finanziari. Tutto ciò a valle di un mentalità che prevedeca come normale e inevitabile la crescita dei mercati finanziari.

La crisi dei titoli subprime statunitensi dovuta all'impossibilità da parte delle famiglie americane di pagare titoli a tasso crescente sui mutui delle proprie case (titoli a rischio altissimo che le banche avevano disperso su miriade di risparmiatori “impacchettandoli” in loro obbligazioni) ha funzionato da detonatore di una situazione di crisi.

Ma era prevedibilissimo che la crisi sarebbe prima o poi scoppiata. Non si può vivere per troppo tempo al di sopra delle proprie possibilità, prescindendo completamente dai dati reali del reddito conseguito a fronte del lavoro prodotto.

E' una responsabilità piena della maggioranza degli economisti e di tutta la classe politica occidentale aver chiuso (forse anche dolosamente) entrambi gli occhi su questo sbocco inevitabile.


Occorre aggiungere come concause della crisi ancora almeno altri due elementi.

Il primo il declino demografico dei Paesi occidentali. La bassa natalità ha provocato una diminuzione della base produttiva e della domanda di beni di consumo solo parzialmente supplita dalla massiccia immigrazione da Nazioni più povere.

Il secondo la competizione con i Paesi emergenti asiatici che, fino a 30 anni, fa si limitavano a copiare i nostri prodotti e a rivenderceli a minor costo (ma anche con minori funzionalità). Oggi la crescita della cultura tecnologica in quelle aree permette a quei Paesi di produrre, a basso costo, prodotti tecnologicamente perfetti e di venderli nei nostri mercati. Ormai è solo parzialmente vero che la maggior parte di quei prodotti esce da fabbriche là localizzate da multimazionali occidentali, mentre è vero che cresce la quantità di prodotti che escono da fabbriche di proprietà asiatiche. I nostri giovani, cresciuti in una atmosfera ovattata e coccolati al massimo, si trovano ora a competere con i giovani asiatici, molto più intraprendenti e tecnologicamente più preparati.

La terza (ma non ultima) concausa della crisi è da ricercare nella iniquità del modello di crescita economica finora praticato. Il vivere al di sopra delle risorse, lo speculare, non fa parte dello stile di vita di tanti saggi padri di famiglia, ma dei pochi (mano troppo...) “arrampicatori”sociali che amano rischiare e arricchirsi sulla pelle degli altri. La forbice tra i più ricchi e i più poveri è andata sempre più allargandosi mentre nel contempi si è ridotta (proprio per la riduzione del reddito dei più) la base della domanda di beni di consumo normale (non di lusso); e questo è sempre il primo passo di una recessione.


Che fare in una simile situazione? C'è la speranza che politici ed economisti sappiano parlare sinceramente alle popolazioni occidentali e dir loro che non ci sono meccanismi economici o finanziari indolori per uscire dalla crisi. E' finita l'epoca della creatività finanziaria e ricomincia l'epoca della economia reale.

Occorre spegnere l'illusione di una crisi passeggera che ci permetterà di tornare al nostro vecchio stile di vita senza cambiare nulla delle nostre precedenti abitudini.


Ma forse sarà meglio parlarne più diffusamente in un prossimo scritto.


lunedì 15 agosto 2011

In cammino..

Partito di là, Gesù si ritirò nel territorio di Tiro e di Sidone. Ed ecco una donna cananea di quei luoghi venne fuori e si mise a gridare: «Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide. Mia figlia è gravemente tormentata da un demonio». Ma egli non le rispose parola. E i suoi discepoli si avvicinarono e lo pregavano dicendo: «Mandala via, perché ci grida dietro». Ma egli rispose: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele». Ella però venne e gli si prostrò davanti, dicendo: «Signore, aiutami!» Gesù rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini». Ma ella disse: «Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le disse: «Donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi». E da quel momento sua figlia fu guarita.
Un episodio evangelico sconcertante, una risposta di Gesù («Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele») chiaramente sbagliata. Tutti i Padri della Chiesa, tutti i teologi sono concordi nell’affermare che Gesù è venuto sulla terra, si è incarnato, per la liberazione dal male, per la salvezza di tutti, non solo degli Israeliti.
La maggior parte dei commenti a questo brano mette in evidenza la forza della preghiera della cananea che, con la sia insistenza e (lo dice pure Gesù) con la sua fede, gli fa cambiare idea. Al massimo la risposta sbagliata di Gesù viene considerata come una voluta provocazione per stimolare la fede e la preghiera della donna.

Ma forse questo brano del Vangelo può offrisci lo spunto per altre riflessioni.
Gesù è vero Dio e vero uomo, un mistero insondabile sovrarazionale, ma che può tuttavia essere oggetto di qualche balbettio investigativo.
Il Suo continuo rivolgersi verso il Padre, la preghiera, la durissima agonia nel Getsemani, il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” sono forti indizi per pensare che Gesù, come Dio Figlio, aveva un rapporto interpersonale, paritario con Dio Padre.
Ma come uomo?
Come uomo la piena consapevolezza della Sua missione, forse la stessa consapevolezza della figliolanza verso il Padre, non sono state chiare sin dalla nascita.
D’altronde l’umanità di Gesù lo ha reso uguale agli altri uomini nella sua maturazione umana e nella crescita culturale e intellettiva. Il Gesù bambino non può avere la stessa “pienezza” (per usare un termine biblico) di quello adulto, l’umanità di Gesù non può non essere cresciuta in lui con l’età anagrafica. Pensare il contrario vorrebbe dire seguire una visione “miracolistica” e disumana per cui il Gesù neonato avrebbe avuto la stessa consapevolezza del Gesù trentenne.
Di qui la risposta certa (o almeno dotata di altissima probabilità) che Gesù, vero Dio e come tale sempre Santo e immacolato, ha avuto una crescita personale umana nell’acquistare la piena consapevolezza della Sua missione.
Il rapporto continuo con il Padre, lo stato di preghiera costante in cui era immerso, erano gli strumenti necessari, a Gesù vero uomo, per comprendere la volontà del Padre, sia quella generale (la propria missione), sia quella del momento presente in cui viveva.
E allora si capisce, in un’altra dimensione, il brano del Vangelo dal quale siamo partiti.
La frase di Gesù ((«Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele») non è sbagliata, ma riflette la situazione, in quel momento, della consapevolezza di Gesù circa la natura della sua missione. Pensava veramente di essere stato mandato per la salvezza solo degli Israeliti.
Viene però stimolato ad un approfondimento sia dalla reazione dei suoi compagni che lo spingono a fare qualcosa, seppur nel modo sbagliato (“mandala via!”), sia dal forte atteggiamento di fede e di preghiera della donna cananea.
Gesù appare e si rivela a noi come una persona in cammino verso la pienezza della consapevolezza su se stessi e sulla propria missione (e vocazione). Tale pienezza sarà raggiunto solo al momento della morte in croce (“Signore, nelle tue mani affido il mio Spirito”, “Tutto è compiuto”...)
Quali le riflessioni personali da trarre dall’insegnamento di questo brano del Vangelo?
La prime è che come Gesù ci si rivela come una persona in cammino, così noi dobbiamo avere la stessa consapevolezza di essere persone in cammino. Altro che presunzione di possedere la verità, altro che pensare di essere arrivati, essere perfetti.
L’esperienza di Gesù ci porta alla comprensione che solo uno spirito di forte preghiera, di intenso e frequente colloquio con il Padre, ci può far guardare avanti e aprire ampi spazi di ulteriore verità
Contemporaneamente occorre avere la forza, la pazienza, di ascoltare i fratelli, i nostri amici (i discepoli) ma anche quelli che vorremmo evitare e che forse ci infastidiscono (la cananea). Il cammino si fa in cordata, o meglio, in comunione, in unità, non da soli...
E forse, oltre a riflettere noi come cristiani, dovrebbe riflettere anche la Gerarchia ecclesiale. Anche essa, se vuole seguire il comune Maestro, non deve sentirsi sempre in possesso di una verità già raggiunta una volta per tutte, bensì sentirsi in cammino.
Anche nel caso della Gerarchia il cammino di maturazione procede sulla base della preghiera e dell’ascolto vero dei propri fratelli, sia i fedeli laici che, perché no? i credenti di altre religioni (la cananea) e forse anche i non credenti.

martedì 9 agosto 2011

Bene comune, ... ma di che parliamo?

Si parla tanto di bene comune. Forse può essere utile riportare, senza alcuna pretesa di essere esaurienti, pochi ma mirati brani sul bene comune tratti da alcuni documenti e da un importante economista (spesso controcorrente).

Si tratta solo di stimolare la riflessione. Ad esempio perché, per chi vuole ampliare la propria conoscenza non andare a leggere quello che scrivono sul bene comune pensatori come Sturzo, Rosmini, Maritain?

Cominciamo con la definizione del bene comune data dal Concilio Vaticano II (Gaudium et spes, 26):

"l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono nei singoli membri, nelle famiglie e nelle associazioni il conseguimento più spedito e più pieno della loro perfezione".

Il Compendio della DSC (paragrafo 164) aggiunge:

“Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro. Come l’agire morale del singolo si rralizza nel compiere il bene, così l’agire sociale giunge a pienezza realizzando il bene comune. Il bene comune infatti può essere inteso come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale”.

E al paragrafo 165:

Una società che, a tutti i livelli, vuole intenzionalmente rimanere al servizio dell'essere umano è quella che si propone come meta prioritaria il bene comune, in quanto bene di tutti gli uomini e di tutto l'uomo. La persona non può trovare compimento solo in se stessa, a prescindere cioè dal suo essere « con » e « per » gli altri.

E ancora quasi a conclusione (par.167):

Il bene comune è conseguente alle più elevate inclinazioni dell'uomo, ma è un bene arduo da raggiungere, perché richiede la capacità e la ricerca costante del bene altrui come se fosse proprio.

La Caritas in veritate (par. 7) precisa:

“Bisogna poi tenere in grande considerazione il bene comune. Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. E’ il bene di quei “noi-tutti” formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene.

Secondo Stefano Zamagni (L’economia del bene comune”, Città Nuova 2007, pag. 12) “...il bene comune non va confuso né con la somma dei beni privati né con il bene pubblico. Nel bene comune il vantaggio che ciascuno trae per il fatto di far parte di una comunità non può essere scisso dal vantaggio che altri pure ne traggono. Come a dire che l’interesse di ognuno si realizza insieme all’interesse degli altri, non già contro (come accade per il bene privato) né a prescindere dall’interesse degli altri (come succede con il bene pubblico). In tal senso “comune” si contrappone a “proprio” come “pubblico” si contrappone a “privato”.