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martedì 30 novembre 2021

Libertà vo' cercando...

 

Se si chiede in giro alle persone cosa esse intendano per libertà, la risposta più diffusa è la seguente: “essere in grado di fare ciò che pare e piace”.
Se poi si domanda se esistano dei limiti alla loro libertà e quali pensano debbano essere, la risposta più comune è che ognuno è libero di fare tutto quello gli pare e piace a condizione di non ledere lo spazio altrui della libertà.
Se si vuole ancora approfondire e si chiede come ci si accorga di ledere l’altrui spazio di libertà, si scopre allora che, per la maggior parte delle persone, libertà significa fare tutto ciò che pare piace finché l’altro non reclami che si sta ledendo il suo spazio di libertà.

A questo punto ci accorgiamo forse che stiamo arrivando ad una svolta paradossale e rischiamo di trovarci di fronte ad un problema pressoché insolubile.
Se il limite della nostra libertà dipende dalla reazione dell’altro, la nostra libertà, in ultima analisi dipende dal limite di consapevolezza e sopportazione dell’altro.
Infatti:
1) qualora l’altro sia un prepotente si rischia un conflitto.
2) qualora l’altro è un mite e remissivo la mia libertà rischia di diventare predominio sull’altro.

Ma si può ancora definire libertà quella che giunge a poter soffocare se non proprio a reprimere la libertà altrui?

Si può obiettare che l’ordinamento giuridico è stato creato proprio allo scopo, fra l’altro, di regolare i confini tra le libertà delle nostre azioni.
Non tutto peraltro è contemplato e regolato dalle norme giuridiche e non è neppure auspicabile che lo sia, perché altrimenti vivremmo in un regime che non lascia, paradossalmente, nessuno spazio alla libertà, dove tutto risulterebbe predeterminato per legge.

Che fare dunque in quegli spazi di autonomia individuale non regolati dalla legge, quale definizione di libertà ci può essere veramente di aiuto in questi casi?

In aggiunta, la società e i suoi processi cambiano continuamente, sono in perenne evoluzione; che fare quando la legge viene superata dagli eventi e dai processi sociali e la libertà di una parte sembra restringersi, mentre quella di un’altra sembra allargarsi e si aprono conseguentemente dei conflitti (basta pensare all’evoluzione dei rapporti intergenerazionali)? Come si risolvono? E se i conflitti sulla interpretazione delle norme riguardano non i rapporti tra persone, ma i rapporti tra Stati? Che fare? Se si pensa bene le guerre non sono altri che modi di risoluzione di conflitti tra due diverse percezioni sui limiti delle proprie libertà.

Forse una chiave per approcciare in una maniera nuova il tema della libertà può far leva sul concetto di reciprocità e, più in particolare far leva su quel principio etico comune a tutte le principali leggi morali descritto come regola d’oro e che recita “non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso” o, in una modalità positiva “fai all’altro ciò che vorresti fosse fatto a te stesso”.
In pratica io sono libero di fare un’azione se, nello stesso tempo, lo svolgimento della mia azione non è di impedimento all’altro nello svolgere liberamente una azione dello stesso tipo.
In questa ottica il limite alla propria libertà non è più il confine dell’altrui libertà ma l’inizio della stessa.
Paradossalmente la mia libertà non finisce dove incontra la libertà dell’altro, ma inizia dove inizia la libertà dell’altro e finisce dove finisce l’altrui libertà.

 Il concetto può essere meglio spiegato se si ricorre ad un esempio recente, quello della mascherina chirurgica da porre sul viso per difenderci dalla pandemia in essere.
Tutti sappiamo (o dovremmo sapere) che la mascherina non è un dispositivo che protegge noi se non in piccola parte, quello che fa, quando la indossiamo, è proteggere l’altro dalle famose “goccioline” di saliva che emettiamo parlando e che potrebbero contenere il virus e infettare l’altro con cui parliamo.
In pratica io proteggo l’altro portando la mascherina e l’altro protegge me,  portandola anche lui.
In altre parole io permetto all’altro esprimere la propria libertà, innanzitutto di vivere e poi di muoversi, di avere relazioni interpersonali ecc.., e lui lo permette a me.
O anche, semplicemente, si può dire che io tutelo la libertà dell’altro di avere una vita sana e lui protegge nello stesso tempo la mia identica libertà.

Se io intendessi la libertà come la facoltà di indossare o meno la mascherina (concetto individualistico della libertà), e l’altro facesse lo stesso, io limiterei la libertà dell’altro di vivere in salute mentre io stesso dovrei affrontare una mia limitazione della libertà di vivere in salute per il rischio di essere infettato dall’altro.
Qualcuno potrebbe obiettarmi che, se l’altro indossa la mascherina, io comunque sarei tutelato nella mia salute anche se non la indossassi. Questo è vero, ma è fuor di dubbio che il mio comportamento egoistico indurrebbe anche l’altro a fare lo stesso (perché indossare una fastidiosa mascherina per proteggere me, se io non la indosso per proteggere lui?) e a togliersi la mascherina, tornando ad una paradossale situazione nel quale la libertà di una vita sana si trasformerebbe in una libertà di infettarci reciprocamente.

Analoga situazione per l’assunzione del vaccino contro il Covid 19, che protegge me stesso dal contagio, ma non in maniera totale (non è uno scudo, ma un filtro anche se potente).
Se io mi vaccino e l’altro non si vaccina è pur sempre possibile, anche se in misura minore, che io possa infettare l’altro mentre è probabile, in misura maggiore, che l’altro possa infettare me.
Se siamo entrambi vaccinati il rischio di potersi infettare è minimo (quasi vicino allo zero), infatti potremo anche non indossare la mascherina.
La reciprocità rinforza la nostra libertà

Un altro esempio può essere quello della ricerca scientifica.
Se uno scienziato utilizza la sua libertà personale per condividere i suoi progressi con altri scienziati e questi altri reciprocamente condividono i loro con lui, ne deriva una più rapida crescita della ricerca scientifica globale.
Anche in questo caso la libertà di ricerca si amplia se non trova il limite nella libertà dell’altro ricercatore ma se entrambi considerano l’altrui libertà come un momento di partenza e non come in confine.

In un mondo complesso, globale e interconnesso come il nostro più si applica la regola d’oro della reciprocità più crescono le nostre libertà personali e si amplia la sfera di libertà nella società civile e progredisce lo sviluppo sociale.

Roma 30/11/2021   

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Postilla: quello che mi rammarica è che questo scritto, pur semplice, è troppo lungo per essere letto e compreso da quelli che pensano che libertà equivale e fare quello che mi pare e piace finché l’altro non reclama           

domenica 14 novembre 2021

Fede negozio, fede ideologica, fede esigenza o fiducia fraterna?

 

Introduzione

Il titolo per queste considerazioni mi è venuto dal ricordo di un episodio occorsomi alla fine degli anni ’90, quando ancora lavoravo.
Generalmente andavo a pranzo nella mensa aziendale con gli amici Roberta (e talvolta le Roberte erano 2!), Gianfranco, Antonio e. dopo il pranzo, a davamo a fare una passeggiata digestiva (con annesso caffè) nei dintorni del palazzo che ospitava la nostra azienda.
In quel periodo la società per la quale lavoravamo incontrava grosse difficoltà di mercato e ricorreva sempre più spesso, con diverse modalità, a operazioni di riduzione del personale.
Una di queste operazioni si preannunciava molto cospicua nel numero delle persone coinvolte e la preoccupazione fra gli impiegati, era diffusa e notevole.
Proprio parlando con Gianfranco osservai come la assemblea sindacale, alla quale avevo appena partecipato era stata molto affollata, contrariamente al costume in vigore nella nostra azienda, che vedeva sempre assemblee alle quali partecipavano solo gli attivisti sindacali, in verità sempre molto pochi.
Gianfranco mi rispose che dei sindacati e delle chiese ci si ricorda solo nei momenti di difficoltà allorché occorre chiedere protezione o qualche servizio specifico.
Era proprio vero! Mi dissi.
Si aderisce al sindacato perché si ha il timore di perdere il posto di lavoro, come si va in chiesa per chiedere la somministrazione di un sacramento o di un servizio nei momenti delicati della nostra vita (nascita, educazione dei figli. matrimonio, prossimità della morte).
Sindacati e chiese sono spesso visti come negozi, come esercizi commerciali che forniscono servizi precisi.

La riflessione con Gianfranco andò avanti e si approfondì.
A quel tempo ero molto impegnato nella “missione” sui luoghi di lavoro indetta dal Papa Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del 2000. L’obiettivo della missione era quello di portare, nei luoghi di lavoro, l’annuncio della Buona Novella di Gesù, Dio che ci libera e ci salva.
Mi lamentavo con Gianfranco del fatto che, nonostante gli sforzi posti in essere da me e dai miei colleghi credenti, la “missione” non decollava come avremmo desiderato.
Egli mi riportò all’esempio del negozio. Qualcuno va al negozio perché avverte l’esigenza di comprare una cosa, altrimenti non ha senso andarvi. Così la Fede si “accende” (e si va in Chiesa) quando si tratta di acquisire un servizio come può essere il nostro matrimonio, la I comunione dei nostri figli (certe volte soprattutto per i regali che arrivano…), l’estrema unzione quando i nostri cari stanno per morire.
Aveva ragione! La “missione” giubilare non decollava perché i miei colleghi non avvertivano l’esigenza di avere una Fede che orientasse la vita sul luogo di lavoro, laddove, invece, era necessario solo essere dotati di una seria professionalità e seguire le istruzioni del datore di lavoro.
Io ero convinto del contrario (e ho provato a dimostrarlo nel mio libro “Controcorrente – la mia storia di cristiano e di manager” pubblicato qualche anno più tardi) ma dovevo rassegnarmi, Gianfranco ragionava in modo corretto.

Ecco, questo ricordo mi è venuto in mente quando mi è sorta la voglia di stendere queste mie considerazioni sul tema della Fede.
Ma veramente io credo, o mi sono abituato alla dottrina che mi è stata inculcata negli anni giovanili e poi l’ho seguita acriticamente?
Come si è sviluppata e consolidata questa mia Fede (o, come preferisco chiamarla, prova di Fede) nel corso degli anni? Come è maturata? E’ una Fede negozio o una Fede che nasce da una esigenza profonda?
Superati i 70 anni, giunto alla terza fase della mia vita, quando la morte non può essere esclusa dal novero degli eventi probabili, mi è venuto in mente di ripercorrere la mia esistenza cercando di dare una risposta a queste domande.

Bambino - ragazzo

Sono nato nel 1948 e, come quasi tutti i bambini miei coetanei, sono stato subito battezzato, e ho ricevuto una educazione cristiana dai miei genitori.
Il segno della croce e le formule delle preghiere me le ha insegnate mia madre, che si vantava di avere preso il diploma di catechista.
Quando cominciai ad avere 3-4 anni, mia madre cominciò a portarmi alla Messa. Io mi annoiavo tremendamente (la Messa, tra l’altro era celebrata in latino,,,) e lei, per calmarmi e stimolarmi, mi diceva di essere paziente e di aspettare perché il prete avrebbe detto una favoletta… in italiano. Anni più tardi mi resi conto che la favoletta, alquanto noiosa, altro non era se non il brano del Vangelo e la relativa successiva predica del prete.
La mia era una Fede immotivata ma granitica, assicurata dalla mia fiducia in mamma, credevo in Gesù, nella Madonnina (sì, così, al diminutivo per affetto fanciullesco), nei santi anche se, lo confesso, le loro figure e le loro storia mi annoiavano perché troppo melense.
Ricordo quando pregavo, soprattutto quando pregavo la Madonnina che mi facesse il miracolo di far ricrescere il “braccetto”, ovvero il mio braccio destro focomelico.
Una Fede semplice, poco approfondita, miracolistica che, però, mi ha fatto da base solida per il resto dell’esistenza.

A scuola ho frequentato, dalle elementari al liceo un istituto privato retto da religiosi e lo studio della religione era uno dei punti di forza dell’insegnamento (più tardi mi convinsi del contrario).
In religione sono stato sempre bravo, ho preso sempre “moltissimo” (i voti andavano in crescita, da scarso a sufficiente, a molto, moltissimo) tranne una volta che presi solo “molto” e ci rimasi male anche perché non ne avevo capito il motivo.
Ricordo che conoscevo perfettamente a memoria tutte le più o meno 100 domandine del Catechismo di S. Pio X (se oggi le rileggessi mi metterei le mani nei capelli… che non ho).
Due episodi però cominciarono ad incrinare le mie sicurezze in materia di Fede.

Il primo riguarda la catechesi di preparazione alla Prima Comunione e alla Cresima (a quel tempo si celebravano insieme).
Già il prete che ci preparava incuteva un senso di paura e di tenebra, Padre Bongo (mi pare che si chiamasse così..) era molto anziano, non aveva una voce chiara (bofonchiava…).
Il suo aspetto rispecchiava perfettamente l’immagine di Dio che ci trasmetteva nelle sue catechesi, un Dio Padre esigente, severo, austero, molto attento, più che alle intenzioni, a certi dettagli materiali.
Ricordo Padre Bongo che ci ammoniva a non far cadere l’ostia eucaristica sul pavimento e nemmeno a masticarla quando ci veniva messa in bocca. L’ostia era il corpo e il sangue di Gesù, non poteva essere sporcata con la polvere del pavimento, tantomeno frantumata con i nostri denti bensì doveva essere ammorbidita con la saliva e poi inghiottita.
Altra perla era quella con la quale ci si raccomandava, dopo la Comunione, di fare un devoto ringraziamento a Gesù (in ginocchio con le mani davanti agli occhi) per essere entrato dentro di me e di rivolgergli le nostre richieste con le preghiere. Per me, che sono stato sempre un tipo molto sintetico, questo del ringraziamento profondo e della preghiera di richiesta era un grosso problema (quanto tempo dovevo passare a ringraziare, cosa dovevo pregare?) ma lo risolsi. Dopo un breve ringraziamento e la richiesta di salute per me e per i miei genitori, controllai sottocchio il mio compagno a fianco e non appena lui sollevò lo sguardo, lo sollevai pure io.
Tutte queste a ammonizioni e questa ossessiva attenzione ai dettagli comportamentali mi rafforzavano nell’idea di un Dio più attento alla forma che alla sostanza.
E a proposito di forma e sostanza ero molto perplesso sul fatto che il pane dell’ostia e il vino dentro il calice, pur mantenendo l’apparenza di pane e vino, diventassero, dopo la consacrazione del sacerdote, nel corpo e nel sangue di Gesù. Ma le perplessità (allora…) passarono, non avevo studiato, nelle famose “domandine”, che Dio è onnipotente? Non può di conseguenza trasformare immediatamente pane e vino in corpo e sangue?
Ricordo ancora con angoscia il momento della confessione con Padre Bongo, prima della Comunione, ero atterrito da quella figura nera dietro la grata, non riuscivo a capire bene quello che diceva… che dovevo confessarmi? che peccati poteva fare un bravo bambino di 10 anni se non dire qualche bugia e praticare qualche disubbidienza ai genitori? e che voleva dire Padre Bongo con quella continua domanda se avevo “fornicato”?  Certo, sapevo che il divieto di fornicare era uno dei comandamenti del Decalogo di  Mosè, ma non avevo capito cosa significasse e Padre Bongo non era poi stato così chiaro nell’esposizione….
Se ripercorro con la memoria quel periodo mi rimane nella mente il senso di angoscia che provavo nel comprendere la mia religione soprattutto come un insieme di comandi e divieti, stando bene attenti a prescrizioni di comportamenti.

Quanto appena raccontato si verificò in IV o V elementare.
Il secondo episodio che mi destò perplessità occorse quando ero liceale.
Nel periodo di Pasqua era d’uso che gli scolari più grandi dell’Istituto partecipassero tutti ad un minimo ritiro pasquale, venivano tutti raccolti nell’aula magna e dovevano ascoltare quanto diceva un bravo predicatore scelto per l’occasione dal nostro Preside.
Il tema della riflessione era quell’anno la partecipazione alla Messa
Quella volta rimasi scioccato quando sentii questo prete dire con chiarezza che, quando si andava alla Messa, non era tanto importante ascoltare e capire quanto piuttosto l’essere presenti e silenziosi perché la “grazia” (un termine che mi è tuttora ostico) di Dio operava per sua forza intrinseca a prescindere dalla mia attenzione
Per me che avevo grosse difficoltà a stare per tre quarti d’ora ad ascoltare frasi in latino e prediche “pistolotto” molto noiose, fu un sollievo. Ma al contempo rafforzò le mie perplessità su un Dio molto attento ai comportamenti esterni e molto meno ad intenzioni e animi.

Un ricordo importante di quell’età (andavo alla medie inferiori) mi ritornò alla mente molti anni dopo.
Ero solito passare le vacanze estive con i miei genitori a Grottaferrata, dove avevamo un piccolo appartamento in proprietà.
Spesse volte, mentre giocavo con i compagnucci al giardino del bivio tra Grottaferrata e Frascati, vedevo spesso passare un gruppo di giovani sempre insieme che trasmettevano una strana sensazione di inusuale gioia.
Chiesi a mamma, che mi rispose: “stai attento, sono protestanti, non parlar loro, leggono la Bibbia”.
Solo molti più tardi realizzai che erano “Focolarini” ovvero appartenenti ad un movimento ecclesiale che avrebbe, in seguito, contato molto nella mia esistenza.
Cercavano di leggere e mettere in pratica una frase del Vangelo al mese, scelta dalla loro fondatrice Chiara Lubich.
A quel tempo però, ai fedeli cattolici, veniva proibito di  leggere l’Antico Testamento e  suggerito di leggere il Nuovo, in particolare il Vangelo, solo in presenza e con l’assistenza di un sacerdote.
I Focolarini, che non rispettavano queste regole, erano tacciati di vicinanza al protestantesimo e soggetti a vigilanza.
Per fortuna stava arrivando il tempo del Concilio Vaticano II

 

Quella volta alla “Chiesetta” al KM 35 della Casilina

Durante la mia frequenza al liceo, maturavo nel fisico e nell’intelletto, non mi accontentavo più di risposte prefabbricate su nessun argomento, tantomeno sull’esistenza di Dio, anche se cercavo prove della sua esistenza mosso più che da un reale dubbio, dalla esigenza di dare un terreno solido alla mia Fede che, in ogni caso, non era mia intenzione mettere in discussione.
In questa ottica le “5 vie per arrivare a Dio” di S. Tommaso di Acquino[1] mi parevano ragionevoli, ma non decisive; infatti, se non avessero dato adito a dubbi, ora saremmo tutti credenti…!

La svolta avvenne in maniera inspiegabile ed improvvisa.
Verso la fine del periodo liceale, passavamo l’estate nella nostra azienda agricola di nocciole, sita a Labico, vicino a Palestrina, in provincia di Roma.
Una mattina, mi ricordo come se fosse ieri, mi trovavo di fronte ad una chiesetta (fatta costruire dai miei nonni) posizionata al Km. 35 della via Casilina e aspettavo che passasse mia madre in macchina per prendermi e andare insieme in azienda, all’interno per circa 3 Km.
Mia madre tardava e, come spesso mi è accaduto, cercavo di ammazzare il tempo pensando.
Ad un certo punto la mente si fissò su un pensiero.
“Ma è veramente certo che io creda nell’esistenza di Dio o, per stare in pace con me stesso, faccio finta di crederci e, in effetto, mi limito a vivere come se Dio non esistesse?”
E ancora “sì, S. Tommaso ha le sue 5 vie che mi hanno abbastanza convinto ma, appunto, abbastanza, non completamente, e poi già Kant aveva smontato razionalmente quelle prove e, comunque se fossero stare realmente inequivocabili, tutti sarebbero credenti… e ciò non è”.
Mi veniva poi un’altra domanda: “posto anche che S. Tommaso avesse ragione e che le sua vie provassero l’esistenza di Dio, di quale Dio si tratta? Quale religione venerava il vero Dio? Come potevo pensare che la mia religione cristiana venerasse il vero Dio?”
Sì, ero arrivato ad un punto di svolta, per la prima volta nella mia vita mettevo realmente in dubbio l’esistenza di Dio, uno dei punti fermi basilari del mio modo di vivere.
Cercai di dipanare le domande che si ponevano davanti a me.
Innanzitutto rinunciai alle vie filosofiche; se Dio realmente esisteva era troppo grande per essere pienamente compreso dalla mente degli uomini, se fosse stato possibile era la prova che Dio non era Dio. Di lui, pensai, possiamo avere indizi, barlumi di luci, non vere e proprie prove della sua esistenza.
Cercai allora un altro approccio, forse conveniva partire dalla storia invece che dalla filosofia.
Gesù Cristo è indubbiamente un personaggio storico (le affermazioni di studiosi romani ne provano l’esistenza), i Vangeli parlano di lui e della sua conferma di essere Dio, come tale era morto e risorto. Ma potevo credere ai Vangeli? potevo credere a quel gruppo di discepoli, gli apostoli che avevano continuato la sua predicazione (poi consolidata nei Vangeli) soprattutto perché lo avevano visto risorto?
La domanda fondamentale si riduceva dunque a se potevo credere a quel gruppo di persone semplici, senza un elevato spessore intellettuale, che rischiavano la vita nel proclamare il messaggio di Cristo morto e risorto per liberarci dai peccati e darci una vita eterna. Certo, nessuno rischia la vita per un fantasma, tantomeno la rischiano in molti ma, mi domandavo, se avessero avuto una forma di allucinazione collettiva? Se avessero tanto desiderato di vedere Gesù ancora vivo da immaginare di vederlo risorto in mezzo a loro? O se si fossero inventato tutto?
Ci fu un particolare dei Vangeli che mi venne in aiuto, sia nel Vangelo di Giovanni[2] che in quello di di Luca[3] si racconta che Gesù appare ai suoi discepoli dopo la morte e mangia con loro. Può un fantasma, il frutto di un’allucinazione mangiare? No! Era più verosimile che veramente Gesù fosse realmente risorto.
Ma se i discepoli si fossero inventato tutto? Per quale motivo? Per acquistare forse autorevolezza verso i Giudei e i pagani? Per guadagnare? Non mi convinceva, molti degli Apostoli si sono tutt’altro che arricchiti, hanno affrontato la morte pur di non rinnegare Cristo, erano, a quel che di capisce, persone semplici, incapaci di architettare un disegno e un racconto quasi diabolico, perché mai insistere e rischiare la vita quando sarebbe stato molto più comodo rinnegare tutto?
La fine del mio ragionamento fu che era più verosimile credere nella resurrezione di Gesù (e pertanto in tutto quello che lui aveva detto e fatto) che non credere.
Più tardi mi resi conto che l’apparizione di Gesù risorto poteva essere spiegata in modo diverso dalla ipotesi della bugia architettata bene o dell’allucinazione collettiva ma ne parlerò più avanti.
Intanto mia madre era passata e prendermi in macchina, salii e ricordo la mia soddisfazione interiore e la mia serenità per la riflessione appena svolta.
Conseguita la maturità classica, mi iscrissi alla Facoltà di Giurisprudenza. Incominciava una nuova fase della mia vita religiosa caratterizza da alcuni punti fondamentali:
1) l’ingresso nel Centro Fides;
2) la conoscenza dei Focolarini;
3) nuove amicizie.
Il tutto nel contesto di una vita della Chiesa cattolica ormai caratterizzata dalla svolta del Concilio Vaticano II.
Ma andiamo per ordine.

Il Concilio Vaticano II, svolta nella Chiesa e per me.

Il Centro Fides era una associazione parrocchiale mista (composta da giovani maschi e femmine) della Parrocchia del Sacro Cuore a Roma.
Quando io cominciai a farne parte, nel 1966, era stata appena fondata da un sacerdote salesiano, Don Aldo Maria Fasolato, molto deciso e determinato, ma anche paterno, che aveva avuto il coraggio di fondare a Roma il primo centro cattolico misto.
Purtroppo la mentalità aperta di Don Aldo si fermava a questo aspetto, per il resto era un sacerdote molto tradizionalista, legato ad una spiritualità essenzialmente devozionale, composta di rosari a gogo a Maria Ausiliatrice, di culto della personalità verso Don Bosco e verso il Papa (“se pure il Papa sbagliasse, io sarò con il Papa”).
Vi chiederete come facessi io a resistere in un simile ambiente.
In effetti fra Don Aldo e me c’era un affetto reciproco, anche se inframezzato da clamorosi dissidi, gli volevo bene e lo stimavo perché voleva bene ai suoi giovani e lottava per noi.
Ma soprattutto stavo bene al Centro Fides perché avevo l’occasione di iniziare e coltivare belle e nuove amicizie, alcune delle quali durano ancora, penso alle sorelle Carla e Antonietta, a Guido, ai cari Enzo ed Enrico (colleghi conosciuti a Giurisprudenza che portai io al Centro Fides) con i quali ci vediamo almeno una volta all’anno quando Enrico (residente a Fabriano) passa a Roma, a Lia (con la quale ci siamo ritrovati su facebook), ma anche a Pompeo e Roberto che purtroppo ci hanno lasciato.
Ci accomunavano tanti aspetti di ogni tipo e avevamo tra di noi un dialogo continuo e fruttuoso, anche confrontandoci partendo da posizioni diverse.
Uno degli argomenti sui quali ci confrontavamo era certamente l’impatto del Concilio Vaticano II (in svolgimento durante quegli anni) sul nostro modo di vivere la Fede.

Il Concilio Vaticano II fu indetto da Giovanni XXIII, iniziò nell’ ottobre del 1962 e si concluse nel dicembre 1965 sotto il pontificato di Paolo VI succeduto, nel 1963, al precedente Papa.
Esso ha costituito una svolta decisa nella Chiesa, ma anche nella società.
Non è nell’economia di questo scritto (una autoriflessione sulla esperienza della mia Fede) spiegare esaurientemente cosa abbia rappresentato e quali mutamenti sociali abbia originato. Mi limito a raccontare quali aspetti innovativi del Concilio influenzarono la mia Fede e la mia spiritualità.
Sicuramente il primo fu l’enfasi posta sul ruolo del fedeli laici (di seguito li chiamerò per brevità “laici”).
Fino ad allora la Chiesa aveva dato una definizione negativa: laici sono i fedeli che non sono “chierici”.
I Padri Conciliari affermarono innanzitutto che tutti i fedeli (laici inclusi) hanno una unica vocazione alla santità e fanno parte di un popolo sacerdotale.
Affermarono anche che le realtà temporali (diritto, economia, arte, istruzione…) erano anche esse frutto della creazione da parte di Dio, godevano peraltro di una legittima autonomia e funzionavano secondo leggi loro proprie. Per essere più chiari le scelte effettuate nell’ambito di queste realtà temporali non potevano prescindere da una posizione personale di Fede ma comunque dipendevano sia dalle competenze personali, sia dal contesto del momento nel quale venivano a porsi, sia dalle scelte degli altri che operavano negli stessi ambiti.
I documenti del Concilio dichiaravano con chiarezza che la gestione delle realtà temporali rientrava nelle competenze dei laici (per la loro specifica indole secolare) e affidavano loro la “consecratio mundi” ovvero la costruzione di realtà temporali, nel tempo e nello spazio, cercando di conformarle al disegno creativo di Dio su di esse.
Tutto ciò era di molto conforto su di me e sugli altri laici consapevoli.
Fino ad allora eravamo stati in una posizione secondaria rispetto ai preti e ai religiosi, eravamo praticamente degli esecutori delle loro direttive, ora avevamo una definizione positiva, una vocazione (alla santità), una area di competenza (le realtà temporali), una funzione (la consecratio mundi).
Certo, una gran parte dei preti e dei vescovi rimase disorientata, non voleva riconoscere questa svolta (che in parte toglieva loro potere), costrinse noi laici ad una dura battaglia per vedere confermati nel fatti il nostro ruolo, la nostra competenza specifica, la nostra funzione.
E la battaglia continua ancora…
Un altro punto innovativo del Concilio, che mi coinvolse emotivamente e spiritualmente, fu la riforma liturgica, in particolare la celebrazione della Messa non più in latino, ma in lingua volgare (nel nostro caso, in italiano).
La Messa cessava di essere un fatto pressoché misterioso, ma quello che diceva e faceva il celebrante diventava chiaro. Finalmente noi comuni mortali cessavamo di assistere ad un rito celebrato dai presbiteri, ma partecipavamo in qualche modo noi stessi al rito. Esso era finalmente qualcosa di realmente significativo per noi.
La riforma liturgica non si fermava alla Messa in lingua volgare, ma si estendeva alla ritrovata centralità della Bibbia, Parola di Dio, della quale i Padri conciliari consigliavano la lettura ai fedeli, sia individuale che, preferibilmente, comunitaria.
Un altro aspetto sul quale il Concilio innovò profondamente fu quello del rapporto della Chiesa cattolica con i cristiani di diversa denominazione, con i credenti di altre religioni, con i non credenti.
Centrale diventava l’affermazione che lo Spirito di Dio “soffia dove vuole” e la conseguente deduzione che la Chiesa Cattolica non possiede la verità nella sua interezza ma che semi della stessa sono sparsi anche nelle altre religioni e nella coscienza di tutti gli uomini.
Di qui l’esigenza di una conversione della Chiesa Cattolica che modificasse il suo atteggiamento da detentrice della verità da insegnare a tutti a ascoltatrice dello Spirito e in continuo dialogo con tutti.
Si passava da una posizione di “tolleranza” verso le altre religioni ad una affermazione della “libertà religiosa” ovvero del diritto di ogni uomo a cercare liberamente Dio.
Diventava centrale il rispetto della coscienza personale definita “sacrario” nel quale ogni uomo credente poteva trovare la voce di Dio.
Ultimo aspetto del Concilio che mi colpì fu il coretto dimensionamento della devozione (fino allora sovradimensionata) alla Madonna e ai santi e l’affermazione del cosiddetto “cristocentrismo” ovvero il mettere la figura di Gesù Cristo al centro della Fede e della spiritualità dei cristiani.

Come modificarono queste posizioni conciliari la mia posizione spirituale?
Sicuramente si accrebbe la consapevolezza della mia dignità di fedele laico, compartecipe della vocazione generale alla santità e chiamata operare nelle realtà temporali (lavoro, politica, arte…) per allinearle al disegno di Dio su di loro.
Aumentò anche la mia partecipazione cosciente all’Eucarestia e cominciai a leggere di più la Bibbia (in particolare il Nuovo Testamento e alcuni libri, come i Salmi, del Primo Testamento).
Imparai anche a non sopravvalutare la cornice dogmatica delle religione cristiana ma a sviluppare la capacità di dialogo e di interrogazione della mia coscienza personale per scoprire la volontà concreta di Dio nel momento presente.
Inoltre la mia attenzione a realtà sociali quali la politica, l’economia, il diritto, mi portò all’approfondimento di quella che allora veniva chiamata “Dottrina sociale della Chiesa”, ovvero a quel complesso articolato e collegato di insegnamenti del magistero ecclesiale in materia sociale.
Non potevo neppure non notare come le innovazioni emerse nel Concilio potevano essere interpretate come una rivalutazione implicita del pensiero di Lutero che, quasi 500 anni prima, aveva già espresso posizioni simili. Di qui il mio avvicinamento, che tuttora continua al luteranesimo.

Uno fra gli amici più cari di quel periodo (ma anche di adesso) era Guido Gliozzi che mi introdusse alla conoscenza del Movimento dei Focolari e ad una esperienza che dura tuttora.
Guido parlava spesso del Movimento dei Focolari e della sua fondatrice Chiara Lubich ma, soprattutto mi colpiva l’energia interiore e la gioia che sembrava promanare da tutti i pori della sua pelle; il suo sorriso, la sua carica erano contagiosi, così come quelli di altri aderenti ai Focolarini che ebbi a conoscere in quel periodo.
Così, spinto dalla mia curiosità e dalla innata voglia di capire accettai l’invito di andare a L’Aquila per partecipare alla Mariapoli, convegno annuale dei Focolarini della durata di 4 giorni.
Ne tornai spiritualmente sconvolto in senso positivo, non facevo altro che parlarne con tono entusiasta (direi infuocato) sia in famiglia, sia con gli amici, sia in Parrocchia.
Ma cosa è che mi aveva tanto colpito?
Il messaggio fondamentale, il nucleo della spiritualità di Chiara Lubich era, per come l’avevo capito io: “Dio è amore e ti ama immensamente”.
Per un giovane, cresciuto nella religiosità pre-conciliare di un Dio Padre-padrone, giudice affettuoso ma severo sempre pronto a valutare il suo comportamento e l’osservanza alle norme della Chiesa, era un capovolgimento rivoluzionario: “Dio mi ama, mi ama così come sono, pronto sempre a perdonare i miei errori e a spronarmi ad andare avanti”.
Era anche un Dio che mi diceva chiaramente, con semplicità disarmante, quale fosse la richiesta avanzata ai suoi discepoli come diretta conseguenza di questo suo amore infinito. Gesù, nel suo discorso-testamento, al termine dell’ultima cena, aveva espresso il suo desiderio (sotto forma di suo nuovo comandamento) “amatevi come io vi ho amato” e aspirate ad essere, nella fraternità “una cosa sola” come lo erano lui e il Padre.
Sì, dovevo amare tutte le persone, una ad una, man mano che la volontà di Dio me le faceva incontrare, senza preferenze per nessuno, amandole con la stessa misura di Gesù, ossia essendo pronto a dare la sua vita per ognuno di loro, anche per quello che magari prima mi era proprio antipatico.
Gesù che muore crocifisso, abbandonato dal Padre e subito risorge, era il paradigma di questa nuovo modo di vivere, una continua morte per il fratello e una continua resurrezione ad una vita più piena.
Siccome, tutti avremmo dovuto vivere così ecco la promessa, il sigillo di Gesù: “dove due o più sono riuniti nel mio nome, io sarò in mezzo a loro”. In questo modo riuscivo meglio a capire la Chiesa, comunità di fratelli che si amano nell’unione a Gesù in una continua avventura pasquale di morte e resurrezione.
Sembra difficile, complicato, duro, anzi doloroso da mettere in atto, ma qui veniva in rilievo l’esperienza della Mariapoli, città costruita giorno per giorno nell’allenamento ad amarsi reciprocamente, servirsi continuamente l’un l’altro, momento dopo momento.
Quale era il risultato? Una serenità indicibile, una gioia piena, una energia spirituale senza limiti, la stessa che avevo notato in Guido.
Fu un anno bellissimo, quello seguente tornai in Mariapoli, in compagnia di una mia carissima amica, e l’esperienza, fatta in due, fu anche migliore.
Oggi, 55 anni più tardi, pur essendo aderente dei Focolarini, mi domando che fine abbia fatto quell’entusiasmo, quella carica interiore e come si sia ridotta ad un tenue filo di appartenenza quasi formale.

Parallelamente a questa esperienza continuavo a leggere libri di carattere spirituale. Ricordo, fra gli altri, la “Forza di amare” di Martin Luther King e “Il Dio in cui non credo” di Juan Arias, nonché “il Catechismo olandese” ovvero il catechismo predisposto ed utilizzato dalla Chiesa olandese in piena conformità ai nuovi orientamenti emersi dal Concilio.
Parallelamente alla conoscenza dei Focolarini, cresceva in me l’insoddisfazione verso il tipo di religiosità molto tradizionale e devozionale che si viveva nella mia Parrocchia. Soprattutto mi infastidiva lo stile delle “confessioni” sempre, contrariamente a quanto avevo imparato in Mariapoli, improntate ad una immagine di un Dio giudice severo ed esigente.
Evidentemente il Concilio non era ancora entrato nella mia Parrocchia (e forse neppure in molte altre…).
All’Università la Sapienza di Roma (dove frequentavo le lezioni di Giurisprudenza insieme agli amici Enzo ed Enrico) era presente una Cappella universitaria gestita dai Padri Gesuiti.
A scuola avevo studiato qualcosa di S. Ignazio e della Compagnia di Gesù, del loro spessore intellettuale, della loro obbedienza ai Superiori, della loro fedeltà al Papa, niente di più.
Comunque, spinto come al solito dalla mia voglia di conoscere, entrai nella Cappella e chiesi ad un gesuita di confessarmi.
Fu una rivoluzione.
Durante la confessione, seduto in un salottino (non in ginocchio…!) davanti al Padre gesuita, non mi sentivo più come un imputato in attesa di giudizio, ma come un figlio abbracciato dal padre misericordioso che lo spronava a ricominciare una vita piena di gioia e a procedere con sicurezza.
Mi ricordo che uscii da quella confessione convinto di aver trovato il mio “doppio binario” spirituale: da una parte la spiritualità, piuttosto mistica, dei Focolarini, dall’altra la spiritualità dei gesuiti (che intravvedevo appena…) ma basata anche sull’approfondimento teologico – culturale e sulla capacità di discernimento.

Mi ero ormai laureato (con il massimo dei voti) ma trascorsero tre anni prima di trovare un lavoro definitivo.
Nel frattempo la mia vita spirituale continuava in modo piatto, seguitavo a frequentare il Centro Fides, ormai purtroppo trascinato da un gruppo che ne aveva accentuato il carattere tradizionale e devozionale, tanto lontano da me.
Guido aveva cambiato abitazione e si era allontanato, con Enzo ed Enrico (sempre più spesso a Fabriano) i legami si erano allentati, mi restava la bella amicizia con le due sorelle Carla ed Antonietta.
Carla mi spronava a correre più velocemente lungo la strada dei rinnovamento conciliare, mi portava spesso a Messe nelle quali la liturgia era molto diversa da quella che conoscevo e che mi era familiare.
Andavano troppo veloci per il mio passo. Sono stato sempre fondamentalmente un “centrista”, non mi sono mai piaciuti i tradizionalisti ma neppure i troppo progressisti, amo il gradualismo, mi piace assimilare lentamente le novità, con quella gradualità che mi permette di farle entrare dentro di me senza creare scompiglio.
E’ stato un periodo piatto, che ricordo senza particolari rimpianti, a parte il quasi un anno trascorso a Firenze come borsista di Diritto Parlamentare, denso di importanti e differenziati stimoli culturali, ma carente sotto il punto di vista della Fede.
Per mia fortuna il buon Dio mi stava riservando una bella sorpresa.

Milano

Fra le tante domande di assunzione fatte (a Banche, a Compagnie di assicurazione, ad Enti pubblici economici…), l’unica alla quale ebbi risposta positiva, con invito a presentarmi per un colloquio, fu, con mia grande sorpresa, quella che avevo inviato alla IBM Italia.
Dopo una serie di colloqui, con esiti favorevoli, svoltisi a Roma e a Milano, fui assunto, con sede di lavoro Milano.
Per inciso, ricordo come il mio futuro Capo mi confessò che, nel corso del colloquio con lui avuto, era stato impressionato favorevolmente per un mio richiamo al valore prioritario della “coscienza” personale.

La permanenza, per 4 anni, a Milano, ha segnato profondamente la mia maturazione umana, il mio spessore e orientamento culturale, la mia spiritualità, tanto che spesso mi definisco scherzosamente un milanese nato per caso a Roma.
Per quanto riguarda l’esperienza spirituale, mi vengono in risalto tre punti:
1) la comprensione più piena del valore della Chiesa locale;
2) l’approfondimento della Dottrina sociale cristiana;
3) le “domande” sulla Fede.

Un cristiano cattolico a Roma, nella seconda metà dello scorso secolo, si sarebbe trovato a vivere nella culla del cattolicesimo, nella città sede del Papa, in un luogo dove si respirava la tradizione cristiana in ogni angolo, nella massima espressione della dimensione universale della Chiesa, ma senza alcuna consapevolezza di vivere anche in una Diocesi il cui Vescovo era il sommo Pontefice.
Arrivato a Milano tutto mi proiettava verso la coscienza dell’importanza di far parte di una Diocesi, di essere incardinato in una Chiesa locale; la deferenza verso la figura del Vescovo, anzi l’Arcivescovo, di Milano, l’attenzione a e la conservazione di uno specifico rito liturgico (quello ambrosiano), la presenza massiccia dell’elemento maschile nel laicato (a Roma era fortemente predominante quella femminile), l’orgoglio verso il maestoso Duomo, tutto mi dava l’idea di un Popolo di Dio, presente su un determinato territorio, in cammino di maturazione di fede sotto la guida del suo Vescovo.
Un aspetto, questo della Chiesa locale, largamente ignoto ai cattolici romani dell’epoca (oggi forse un po’ di più, ma mica tanto…).

Altra caratteristica dei cattolici milanesi mi pareva anche quella di non accontentarsi delle risposte facili del catechismo di S. Pio X o dei resoconti divulgativi del Concilio. I fedeli milanesi, sia laici che clerici cercavano l’approfondimento culturale, anche in campo religioso e biblico.
Ricordo la mia sorpresa quando, per la prima volta, dalla bocca di Don Cesare, rettore del pensionato nel quale alloggiavo, sentii dire che il Vangelo era essenzialmente non un libro da leggere come resoconto fedele della parole e delle opere di Gesù, ma una sorta di catechismo compilato, secondo il costume dell’epoca, a mo’ di “narrazione”. Ad esempio molto probabilmente la narrazione della parabola del cieco nato voleva significare, detta in termini attuali, Gesù è luce, una locuzione astratta non esprimibile nella cultura e nel linguaggio degli Ebrei di allora…
A Milano continuò la mia frequentazione dei gesuiti, in particolare andavo spesso alle conferenze e agli incontri culturali che si svolgevano al Centro S. Fedele, presso l’omonima Chiesa da loro tenuta.
Mi abbonai alla loro rivista “Aggiornamenti sociali (alla quale peraltro sono ancora abbonato) e di lì cominciò il mio interesse verso i temi di carattere morale e il mio approfondimento nei confronti della Dottrina sociale della Chiesa, che mi ha accompagnato fino ad oggi.
Il rischio che stavo correndo con questa continua e intensa ricerca culturale sui fondamenti della Fede era quello di pensare ad essa come una costruzione dogmatica di concetti e documenti, dimenticando l’aspetto essenziale e preminente di un rapporto personale e intimo con Gesù.
La mia, per tornare alle categorie citate all’inizio di questo scritto non era (se non in parte…) una Fede negozio, non era neppure (anche se ne rappresentava un aspetto importante) una Fede esigenza, era piuttosto una Fede ideologia, un complesso concatenato di princìpi, norme e concetti, utile per inquadrare la realtà in uno schema religioso precostituito, che mi servisse da orientamento per giudicare quello che mi avveniva intorno e per effettuare scelte concrete operative.
Questo della Fede ideologia è per me un rischio ricorrente, ma è anche un rischio che accetto e affronto volentieri convinto che, per una Fede matura, la mente (capace di costruire schemi cognitivi) e il cuore (capace di darci sensibilità verso le realtà più bisognose di aiuto, sono entrambi necessari.

Fu in quel periodo milanese (che ricordo sempre con particolare affetto) che presi l’abitudine di chiedere ai miei amici più cari (ricordo in particolare Adriano e Carlo) perché credessero.
Sinceramente non rammento la risposta che mi diede Carlo ma, conoscendo la sua impostazione mentale, posso immaginare che si trattasse di una risposta improntata alle 5 vie di S. Tommaso o a qualcosa di similare.
Ricordo invece benissimo quello che mi rispose Adriano spiazzandomi. La Fede, per lui si basava, su un rapporto personale di amore reciproco con Gesù, rapporto dal quale nasceva la fiducia reciproca, ovvero la Fede.
“Noi, disse Adriano, siamo amici, tu hai fiducia in me e io in te. Ma è una fiducia che, in parte si basa su un salto nel buio, perché né tu conosci appieno me, né io conosco appieno te. Abbiamo fiducia perché abbiamo un rapporto di amicizia, di affetto che ci lega. Anche la Fede in Dio deriva da questo rapporto di amicizia con Gesù”.
Mi spiazzò perché non era un argomento che si basava su una deduzione logica ma su un rapporto, in particolare sull’amore di Gesù per me e sullo speculare amore mio verso di lui.
Una cosa mi rimase impressa di quel colloquio: Amore e Fede vanno di pari passo.
La risposta di Adriano fu ben più convincente di quella che mi diede, molti anni più tardi un altro carissimo amico e che si sostanziava: “credo perché la Chiesa, con la sua struttura gerarchica, è una realtà dotata di una autorevolezza tale da non potersi sbagliare”.
Ad altri amici o conoscenti di rilievo rivolsi la stessa domanda, ma non ne ricordo le risposte, forse, anzi senza forse, perché non mi convincevano… Ma è giusto che ognuno motivi e coltivi la sua Fede nel modo che ritiene più appropriato.

Terrasanta e Padre Ugo Vanni

Quando, dopo i bei 4 anni milanesi, tornai a Roma, ebbi una forte sensazione di delusione,
Dove era la effervescenza culturale e religiosa che avevo trovato e vissuto a Milano?
Provai a tornare al mio vecchio caro Centro Fides, ma lo trovai per me inagibile, in quanto dominato massicciamente da una religiosità, chiaramente pre-conciliare, fatta di rosari, novene, devozioni spicciole e così via.
Ebbi la fortuna di trovare una persona membro del Movimento dei Focolari che mi aiutò a riprendere i contatti con i focolarini.
Dopo due anni aderii al Movimento e cominciai un lungo viaggio tuttora in corso, fra alti e bassi.

Ero rientrato da pochi mesi a Roma quando la mia più cara amica Carla, mi annunciò che si sarebbe sposata e, sorpresa delle sorprese, mi invitava a partecipare al suo matrimonio…. in Terrasanta!
Accettai e fu il primo dei miei 5 viaggi in quei luoghi.
Quella terra ha per me un fascino e un magnetismo spirituale particolare.
Ognuno di quei 5 viaggi ha segnato un punto della mia riflessione spirituale.
Il primo viaggio mi scosse profondamente, il vedere con i miei occhi quei luoghi, il mettere i miei piedi in posti che avevo letto nella Bibbia, il rendermi conto di distanze, altezze, resti archeologici, mi permetteva di capire più profondamente il messaggio di Gesù.
Ricordo la mia commozione, quando, in ginocchio, davanti al posto dove presumibilmente si era verificata l’Annunciazione, realizzai che lì Dio si era incarnato nell’uomo, lì aveva fatto il più alto grado di fiducia nell’umanità, diventando anche lui realmente e pienamente uomo.
Come potevo io mancare di fiducia nell’umanità se era stato Dio il primo a fidarsi?
Del mio secondo viaggio, fatto con la mia Parrocchia, mi è rimasta impressa la riflessione che feci, da solo sul monte Tabor, sulla parola di Gesù “Dove è il tuo tesoro, ivi è il tuo cuore”. Mi resi conto che non era tanto importante fare molti buoni propositi oppure accettare molti piccoli sacrifici destinati al miglioramento personale (i famosi “fioretti” del bravo bambino), quanto era fondamentale invece fare una scelta di fondo verso quel “tesoro” che era l’adesione piena alla persona di Gesù e porre lì il mio “cuore” fare di questa scelta l’orientamento generale della vita (scoprii più tardi che i moralisti più avveduti chiamavano questa scelta l’ “opzione fondamentale”).
Nel corso del terzo viaggio, fatto con un’altra Parrocchia a me cara, immediatamente mi venne in evidenza quante volte Dio dice agli uomini la parola “non temere”. La dice di continuo!!!
Non dovevo più temere! Anche nelle prove più difficili, nei momenti più bui che sicuramente avrei passato, c’era un Dio amico, Padre amorevole, Fratello unito a me, Consigliere spirituale, che mi sarebbe stato vicino senza abbandonarmi.
Eppure quante volte nella vita l’ho dimenticato! In questo momento, in cui sto scrivendo, caratterizzato dalla pandemia del Covid, devo ricordarmene,
Gli ultimi due miei viaggi, nel 1997 e nel 1999, furono guidati dal gesuita Padre Ugo Vanni.

Ho conosciuto Padre Vanni durante il mio primo viaggio in Terrasanta, quello durante il quale fu celebrato il matrimonio della carissima Carla.
Quel pellegrinaggio si configurava anche come corso itinerante di esercizi spirituali per insegnanti di religione (Carla era tale) e Padre Vanni (docente di esegesi biblica alla Università Gregoriana) era il sacerdote che teneva quagli esercizi.
Ricordo perfettamente il momento nel quale mi incontrai personalmente con lui.
Eravamo a cena a Tiberiade, la mattina ero stato colpito da una sua riflessione sulle “beatitudini” e mi sentii di dire agli altri amici di Carla che mangiavano insieme a quel tavolo: “io vado a chiedere a Padre Vanni quando posso confessarmi da lui”.
Gli altri mi guardarono stupiti, mi sconsigliarono ma io mi trovano in uno di quei rari momenti nei quali, l’ho imparato dopo, lo Spirito soffia con potenza e andai.
“Padre Vanni, quand’è che, per favore, potrebbe confessarmi?” gli chiesi con una faccia tosta tremenda mentre stava mangiando. “Certo, vieni da me alle 21 alla stanza n. ….” Rispose con quegli occhi azzurri brillanti e quel sorriso paterno (o fraterno) che ho imparato a conoscere durante tanti anni.
Alle 21 in punto mi accolse nella sua stanza, mi chiese di togliere il “padre” di chiamarlo solo Ugo e di dargli del tu, e la confessione iniziò.
Questo colloquio diede inizio a quella bella amicizia (con annessa sua direzione spirituale)  tra Ugo e me che è durata dal maggio 1978 al settembre 2019 quando lui partì per quello che, con efficacia e creatività, chiamava l’ “Al di più” invece dell’ “Al di là” (si tratta di raggiungere non un altro posto, bensì la pienezza della vita).
Non potei fare a meno, in quel momento, di andare riconoscente a rendere omaggio di persona alla camera ardente.
Considero Padre Vanni, in aggiunta e forse più di Chiara Lubich, il mio “faro” spirituale.
Nei 41 anni di rapporto ho avuto con lui decine di confessioni e ho presenziato quasi sempre alla “lectio divina” (di 1 giornata intera) che era solito tenere su base mensile per 6-7 mesi all’anno.
Commentava i suoi autori preferiti Giovanni e Paolo e mostrava a noi la fecondità, per una sana vita da cristiani, di un testo come l’Apocalisse normalmente considerato criptico e forieri di annunci catastrofici.
Cosa mi è rimasto della predicazione e della testimonianza di Padre Vanni?
La prima cosa che mi viene in mente è quella di affrontare la vita con approccio positivo.
Siamo spinti dall’amore di Dio verso di noi, siamo sorretti da un fratello come Gesù, siamo capaci di orientarci sostenuti dall’azione del soffio dello Spirito. Gesù Cristo è Re nel senso che guida il mondo verso la pienezza, verso quella discesa della Gerusalemme celeste celebrata nell’Apocalisse.
Il male, per Ugo, era il “non essere”, il bene era l’ “essere”; ogni volta che compiano una azione buona facciamo compiere all’umanità intera un passo verso la pienezza della visione di Dio.
Gli piaceva ripercorrere la visione dei 4 cavalli dei quali parla l’Apocalisse, tre simboli del male (non ricordo nel dettaglio) e uno, quello bianco, simbolo del bene. Tutti e quattro escono e scorrazzano  per la terra, ma solo uno ritorna vittorioso, quello bianco, simbolo del bene.
Quando Bergoglio, anche lui gesuita, fu eletto Papa e cominciò a portare avanti una catechesi fatta di elementi uguali a quelli espressi da lui, gli chiesi, scherzando, se Bergoglio fosse stato suo allievo dato che dicevano le stesse cose. Ugo mi rispose con il suo inimitabile sorriso: “certo che ci conosciamo, siamo amici.”
Fra l’altro, che anche lui era nato in Argentina (seppure da famiglia toscana), come il Papa neo-eletto.

In quel periodo ebbi modo di conoscere anche un altro grande gesuita, Padre Bartolomeo Sorge, che aveva appena lasciato la direzione di Civiltà cattolica forse spinto alle dimissioni dalla non piena sintonia con le posizioni di Papa Giovanni Paolo II.
Volevo affrontare con lui, che si interessava di Scienza politica, alcune mie valutazioni in materia.
Mi aspettavo di incontrare un politologo, con mia sorpresa incontrai un grade sacerdote dalla immensa profondità spirituale.
Di Padre Sorge avevo letto con interesse il suo libro “Ricomposizione dell’area cattolica in Italia” che aveva suscitato in me un grande interesse, specialmente per quello che vi era sostenuto in materia di rapporto tra Fede e politica.
Questo libro partiva dalla affermazione, esplicitata dal Concilio Vaticano II, che la Fede cristiana non è legata a nessuna cultura specifica (come lo era stata fino ad allora a quella europea) ma era in grado di “inculturarsi” ovvero di poter essere espressa, nella sua esaustività, nella cultura di ogni popolo della terra.
La missionarietà, tanto poteva essere efficace, quanto più era capace di annunciare il messaggio di Cristo nelle modalità di vita e di comunicazione delle culture più diverse. Paradigmatico di questo nuovo modo di essere era la figura del gesuita (toh!) Matteo Ricci che, nel XVI secolo, evangelizzò il territorio cinese utilizzando le categorie mentali di tipo orientale.
Il concetto di “inculturazione” può essere impiegato anche per spiegare i rapporti tre Fede, cultura, politica.
Con l’avvento di un società pluralistica, nella quale coesistono e convivono diverse religioni, non è possibile più affermare che la Fede cristiana possa, in maniera diretta e quasi deterministica, ispirare le operazioni concrete in ambito politico.
La Fede ha, abbiamo visto, la capacità di incarnarsi in diverse culture e trasmettere il suo messaggio non sopra di esse, ma attraverso di esse.
Come questo vale per le culture territoriali, così vale anche per le culture che nascono da correnti filosofiche, da ideologie, da teorie economiche.
Ne deriva che dalla stessa Fede possono promanare legittimamente culture diverse e dalla stessa cultura derivano impostazioni politiche diverse.
Un cristiano che voglia trarre dalla sua Fede l’ispirazione per la sua azione politica deve operare, anche con fatica, quella che Padre Sorge chiamava “mediazione culturale” ovvero agire dentro il contesto democratico, dialogando con tutti, con la consapevolezza dei limiti della propria cultura e con la capacità di portare nella società il massimo dei valori portanti della propria Fede, compatibilmente con la Fede e la cultura di altri.
Questa impostazione ha portato, negli anni ’70 dello scorso secolo, al superamento dell’idea del “partito unico dei cattolici” e alla formulazione del principio del “legittimo pluralismo delle opzioni politiche” per i cattolici con il solo limite che l’asse portante della sua opzione politica non fosse in contrasto con un principio portante della propria Fede (ad esempio il primato della dignità personale di ogni uomo).
Corollario di questa impostazione era la affermazione che titolari di questa mediazione culturale fossero, primariamente, i fedeli laici immersi nelle realtà sociali per cercare di conformarle al disegno di Dio su di loro.
La Gerarchia avrebbe dovuto limitarsi a esprimere i principi fondamentali che dovrebbero orientare l’azione politica dei fedeli laici, non entrare nelle azioni o iniziative politiche concrete se non nel caso, eccezionale di dover supplire all’assenza di iniziative del laicato.
Questa linea di pensiero della “mediazione culturale” e del “legittimo pluralismo delle opzioni politiche” ha sempre guidato i miei pensieri e le mia azioni in ambito sociale, ponendomi in seria difficoltà in occasioni di intromissioni politiche vere e propria della Gerarchia sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e ora sotto quello di Francesco.

Parrocchia, Rione, Focolarini

Negli anni ’80 e ’90, dopo la definitiva uscita da un moribondo Centro Fides, la mia spiritualità venne sostenuta dalle attività della Parrocchia e dagli incontri dei Focolarini.
In Parrocchia arrivò un nuovo Parroco, Don Filippo, molto empatico e al quale piaceva di più girare nel quartiere (Castro Pretorio) che stare chiuso dentro le mura della Chiesa; per usare la terminologia attuale di Papa Francesco, un Parroco “in uscita”.
Don Filippo era guidato dall’idea che, prima di evangelizzare un quartiere, era necessario costruire la comunità dei residenti, far conoscere le persone tra loro, farle lavorare insieme.
Fra l’altro, scoprimmo con sorpresa e con piacere che eravamo entrambi membri del Movimento dei Focolari.
Dalla nostra collaborazione e dal contributo di sempre più numerosi residenti nel quartiere nacquero diverse iniziative su spinta del neo-fondato Comitato di Coordinamenti Rionale (CCR).
In primo luogo la Festa del S. Cuore si trasformò anche in vera e propria festa del quartiere con diversi momenti creativi di aggregazione: interventi di bande musicali, spettacoli di varie etnie, cineforum, spaghettate, fuochi artificiali…
Lentamente ma gradualmente la comunità sognata da Don Filippo si creò e ricordo la sua gioia quando mi comunico che era giunto il momento (da me più volte sollecitato, senza esito) di presentare la comunità di quartiere a Giovanni Paolo II.
La visita del Papa ebbe luogo nel maggio 1987 e mi ricordo sempre il succo del messaggio che Giovanni Paolo II affidò ai credenti residenti a Castro Pretorio, “ricostruire il tessuto sociale del quartiere”.
Dopo poco tempo Don Filippo, su iniziativa della sua Congregazione (i Salesiani) fu allontanato.
Il suo ricordo nel quartiere è ancora ben vivo dopo oltre 30 anni e in me è sempre rimasta la voglia di continuare la sua opera.
Ritengo che lavorare per il bene comune del territorio in cui si abita sia uno dei compiti principali di una persona che non intende la propria Fede come una “verniciatura” superficiale.
Una Fede che non spinge ad agire non è una vera Fede ma, forse, solo devozione.

Con i Focolarini, che avevo ritrovato con fatica dopo il mio ritorno a Roma, continuava il dialogo e il percorso di approfondimento.
Nel 1982 entrai a far parte formalmente con la mia adesione alla loro diramazione interna dei laici, chiamata “Volontari di Dio”.
In aggiunta al lavoro nel quartiere con Don Filippo, mi impegnai, con entusiasmo in diverse attività con loro.
Piano piano emersero dei motivi di insoddisfazione spirituale che si sono consolidati con il passare degli anni.
Il primo era quello che chiamavo eccesso di intimismo, una voglia esuberante di voler stare bene insieme, al calduccio della propria comunità fraterna.
C’era troppa “carità breve” (le opere di misericordia) trascurando quell’aspetto di "carità lunga" che la Dottrina Sociale della Chiesa, da Giovanni Paolo II richiedeva incessantemente.
Si trattava di fare il bene operando contro le “strutture di peccato” riformandolo dall’interno o eliminandole sostituendole con “strutture di bene”.
Per strutture di peccato si intendono tutti quegli enti, quelle ideologie, quegli orientamenti di pensiero, quelle procedure che a partire dai singoli peccati individuali non solo li aggregavano ma si ponevano anche come forme concrete di moltiplicazione degli stessi. Per comprendere è da considerare una struttura di peccato una azienda multinazionale che si pone come fine unico la massimizzazione del profitto e prescinde completamente dal rispetto della dignità umana dei propri dipendenti.
Un altro aspetto che sempre più mi destava perplessità sulla spiritualità focolarina era la sempre maggiore accentuazione sul dolore, nella figura di Gesù crocifisso Abbandonato dal Padre e, di conseguenza sull’ invito ad abbracciare, nei momenti di difficoltà, Gesù Abbandonato.
Quello che, in linea di principio poteva essere anche giusto, diventava ridicolo se applicato a momenti sbagliati.
“Sei triste perché non sei stato promosso? abbraccia Gesù Abbandonato” (quando forse sarebbe stato sufficiente un invito a studiare di più).  “Sei abbattuto perché tua moglie non ti capisce e avete litigato? abbraccia Gesù Abbandonato” (quando forse sarebbe stato sufficiente un maggiore sforzo nel dialogare con la moglie).
Senza dimenticare che questa enfasi esagerata sul momento del dolore conduceva inevitabilmente, sotto il profilo spirituale, a trascurare l’aspetto della Resurrezione, ovvero della gioia di vivere.
Gesù Abbandonato, importante riflesso di intuizioni mistiche di Chiara Lubich, rischiava di diventare una formula, un rito, una soluzione psicologica a basso costo.
Così come altre intuizioni mistiche di Chiara, Maria Desolata (modalità focolarina di chiamare Maria Addolorata), Gesù in mezzo (modalità focolarina per chiamare le piccole comunità ecclesiali) rischiavano di diventare formule, soluzioni pret a porter di problemi psicologici.
Perché tutto questo? La mia ipotesi è che nel Movimento si andava diffondendo, in linea con l’avanzamento dell’età di Chiara, una forma di semplicismo culturale che si limitava alle formule e ai riti senza bisogno (e forse neppure la formazione necessaria) di fare approfondimenti.
Quando scrivevo direttamente a Chiara (una pratica in uso nel Movimento) o ne parlavo con i responsabili più avveduti ricevevo conforto su queste mie perplessità e assicurazione che si stava provvedendo…. E tutto restava come prima.
Varie volte ho avuto la tentazione di mollare tutto ma il ricordo della gioia nella Mariapoli dell’ Aquila del ’66 mi induceva a tornare sui miei passi.
Ora, dopo la morte di Chiara il Movimento, anche probabilmente su pressione di Papa Francesco, sta provando ad aggiornarsi, ma è ancora in tempo?
Per quanto mi riguarda, io continuo a frequentarlo, ma non riesco a ritrovare la spinta e l’entusiasmo di 40 anni fa. Che forse debba anche io buttarmi nelle braccia di Gesù abbandonato, accettare e offrire i miei dubbi e le mie perplessità e…. risorgere!!

Missione in azienda

Ho raccontato la mia esperienza di cristiano in azienda in un libro, per cui, in questa considerazioni, mi limiterò analizzare solo un periodo particolare.[4] Mi riferisco al periodo di passaggio dal XX al XXI secolo allorché Papa Giovanni Paolo II lanciò, in occasione del Giubileo 2000, una missione di evangelizzazione da svolgere capillarmente sul territorio.
Anche gli ambienti di lavoro furono compresi in questa azione e sia Parrocchie che Movimenti ecclesiali furono invitati a chiedere ai loro aderenti di partecipare alle iniziative missionarie sui luoghi di lavoro.
Nel corso della mia permanenza in IBM, questa grande (allora!) multinazionale dell’informatica, era maturata in me la convinzione che ella potesse essere considerata uno dei “templi mondiali del relativismo etico”.
Con questa formulazione (evidenziata dal Cardinal Ratzinger, futuro Benedetto XVI) veniva riassunta la posizione etica in base alla quale non esisteva alcun valore esterno alla singola persona umana con significato assoluto e oggettivo ma che il comportamento più o meno etico veniva valutata sulla base delle decisioni prese da una persona in sintonia con il proprio tornaconto. Non esisterebbero il male e il bene oggettivo di per sé da richiamare per la valutazione del comportamento proprio o altrui, ma ognuno è legge per se stesso.
Nelle grandi compagnie multinazionali come l’IBM il bene e il male venivano identificati con l’osservanza delle procedure interne e, comunque, con l’obiettivo finale di massimizzare il profitto aziendale e innalzare il valore delle azioni a beneficio degli azionisti.
I dipendenti, in questa logica, venivano considerate non come persone umane, ma come risorse alla pari di tutti gli altri asset materiali, un costo da ridurre in caso di riduzione del margine di profitto.
Era chiaro che, con questa impostazione, allorché, come equipe missionaria, chiedemmo alla Direzione del Personale di poter distribuire una lettera del Papa a tutti i dipendenti, ci fu risposto che la religione non aveva posto nell’azienda e che, se avessimo voluto, avremmo potuto distribuire la lettera fuori dei cancelli aziendali.
Ovviamente ubbidimmo e così facemmo.
In tale situazione apparve molto chiaro sia a me che ad altri colleghi che sarebbe stato inutile seguire l’esempio di altre equipe missionarie, specialmente del settore pubblico che essenzialmente espletavano la loro attività missionaria con catechesi dottrinali e con gruppi di preghiera.
Noi dovevamo invece puntare sulla divulgazione della dottrina sociale cristiana e sulla diffusione dei suoi princìpi fondamentali:

1.     il primato della dignità della persona umana su ogni altra realtà;

2.     il primato del fattore lavoro sul fattore capitale;

3.     il primato della destinazione universale dei beni sulla proprietà privata.

Certo erano princìpi che davano fastidio all’azienda (che avrebbe preferito che noi parlassimo di divorzio e di aborto…) ma che erano pienamente in linea con la dottrina cristiana.
Fummo aiutati a mettere a tacere alcuni colleghi tradizionalisti con l’aiuto del Vescovo vicegerente di Roma e di Don Gianrico Ruzza, responsabile generale dei gruppi missionari e futuro Vescovo.
Profittando dei miei studi e approfondimenti sulla Dottrina sociale della Chiesa fui in grado di diffonderla non solo nella nostra equipe, ma anche nelle altre allorché la Diocesi mi chiese di assumere la corresponsabilità della missione per quanto riguardava tutti gli ambienti di lavoro privati di Roma.
Ero molto contento, la nostra equipe si era trasformata gradualmente in una comunità di fratelli nella Fede e crebbe anche una amicizia aperta e solida fra di noi.
Ci inventammo diverse iniziative quale il mangiare insieme a mensa una volta alla settimana per dare testimonianza di fraternità, il ritiro annuale di un giorno, l’uso dei mezzi informatici per diffondere sia informazioni che materiale formativo, partecipazioni ad eventi diocesani….
Visto da ora quel periodo lo leggo come la piena maturazione di quella “Fede esigenza” che era venuta sviluppandosi dentro di me, una Fede che si estrinsecava in una visione di vita, in orientamenti profondi, in una (appunto) esigenza interiore che mi spingeva ad offrila con gioia, a condividerla con altri.

Nel 2005 l’azienda mi offrì (offerta rivolta, purtroppo, a tanti…) di negoziare i termini economici e giuridici di mie dimissioni volontarie.
Feci dei rapidi calcoli e mi resi conto che, riscattando gli anni della laurea, sarei andato in pensione dopo 6 mesi dalla data delle missioni e che pertanto non rischiavo molto dal punto di vista finanziario.
Ero fra l’altro molto stanco, l’IBM non era più l’azienda, che puntava sulle capacità delle persone, che avevo conosciuto negli anni ’70 e ’80, si era molto burocratizzata e, al fine di massimizzare i profitti puntava anche sulla riduzione dei dipendenti, considerati “costi”, e sulla contestuale crescita di produttività traferendola dalla professionalità delle persone all’ efficientamento dei processi, versione moderna delle catene di montaggio tayloriane.
Molto volentieri mi sarei dimesso, ma il problema era un altro.
Quale era la volontà di Dio?
Dovevo restare, sopportare la nuova filosofia aziendale, continuare nella “missione”, ormai ben avviata, e che inoltre si configurava anche come linea culturale alternativa a quella aziendale?
O la mia era solo mancanza di umiltà e dovevo dimettermi per poter aprire le possibilità di una nuova opportunità per la mia vita?
Tentazione (di lasciare) o occasione per aprire un nuovo capitolo?
Furono giorni e giorni di angoscioso dubbio finché un giorno, mentre stavo a mensa, il nervosismo crebbe tanto da farmi stare male.
Era il “segnale” di Qualcuno? Negoziai le condizioni, peraltro molto buone e mi dimisi.
Con il senno di oggi, visto che la missione si estinse nel giro di 2 anni, forse sbagliai. Ma ho imparato (sempre da Chiara Lubich) che indietro non si torna, al massimo il passato ci può essere di insegnamento per il presente e il futuro. Bisogna sempre ricominciare!

15 anni di pensione

Sono trascorsi più o meno 15 anni da quando lasciai l’azienda e sono stati anni di grande fervore di stimoli interni e di iniziative esterne.

Cominciai a seguire dei corsi di mediazione civile e familiare. La mediazione può essere definita come un percorso nel quale un terzo (il mediatore, indipendente, neutrale, imparziale), aiuta, con la sua professionalità e delle tecniche specifiche, le parti a trovare una soluzione al conflitto tra di esse insorto, agevolando un dialogo costruttivo e aiutandole a trovare una soluzione concordata in grado di soddisfare i loro interessi.

Era un tipo di attività che mi piaceva molto perché oltre ad attagliarsi al mio carattere e alle capacità acquisite in azienda (dove svolgevo ultimamente il ruolo di “negoziatore”) mi permetteva di diffondere concretamente quella cultura del dialogo e del confronto, nella quale credevo e credo molto.
Ma alla base c’era ancora una volta la mia Fede personale che cercava di trovare nuove vie per esprimersi e per permettermi di dare il mio contributo per una società migliore.
Fra l’altro mi pareva il modo migliore per rispondere, da pensionato, alla mia vocazione di “volontario” focolarino, ovvero di fedele laico impegnato per ricucire le fratture sociali e creare maggiore fraternità.
Fondai, con alcuni cari amici, l’AICoM (Associazione Italiana Conciliatori e Mediatori) con il fine di divulgare la cultura della mediazione come cultura del dialogo a tutti i livelli.
Più cresceva la conoscenza di questa nuova e alternativa prospettiva di risoluzione dei conflitti in campo sociale e familiare, più aumentava l’avversione delle categorie degli avvocati e degli psicologi che vedevano nella mediazione un pericolo per il loro mercato di clienti.
Oggi la mediazione è  monopolizzata dagli avvocati e, da alternativa al processo civile (come era stata pensata), è divenuta un grado aggiuntivo dello stesso processo, aggravando, più che semplificando i problemi della giustizia.

Sempre questa “Fede – esigenza” mi ha portato a fondare con alcuni amici “Persona è futuro”, che abbiamo definito come un Laboratorio culturale e politico (non partitico) per diffondere il pensiero personalistico di Maritain e Mounier.
Questo pensiero si fonda sull’assunzione che ogni persona umana tanto più si realizza quanto più si apre:

1.     agli altri, intesi sia come singoli individui che come comunità prossima o lontana;

2.     ad una dimensione trascendentale che può essere intesa sia come Dio che come un Mistero, infinito ma non inesplorabile, che ci sovrasta;

3.     all’ambiente, alla natura, della quale anche noi facciamo inscindibilmente parte.

Questa impostazione mi ha sempre appassionato e ho cercato sempre di viverla e diffonderla, superando, di volta in volta, le difficoltà dovute alla incomprensione o alla constatazione che le cose marciavano in senso opposto.
Il tentativo di Persona è futuro si è esaurito allorché la mia spinta propulsiva è venuta meno. Mi resi conto che i convegni che organizzavo, gli articoli che scrivevo o che facevo scrivere sul sito del Laboratorio, gli incontri, anche ristretti (per potersi meglio confrontare costruttivamente), che organizzavo, facevano parte di una epoca culturale ormai superata.
Si trattava di strumenti inadeguati in un contesto dominato da caratteristiche completamente diverse: modalità nuove di comunicare attraverso l’impiego non di ragionamenti ma di slogan a parole d’ordine di carattere negativo e a forte valenza emotiva, impiego massiccio di fake news,  informazioni strumentali fornite da compagnie multinazionali detentrici dell’oligopolio sui grandi media…..
Persona è futuro si sarebbe dovuto opporre a tutto ciò e diffondere l’alternativa del personalismo con modalità diverse da quelle finora impiegate dietro mio stimolo, ma io non riuscivo a trovarle.
Passai così la mano ad alcuni giovani ma senza risultati concretamente positivi.

Intanto le difficoltà con il Movimento dei Focolari persistevano e, allorché divennero quasi insostenibili, mi ricordai della “sponda” spirituale dei gesuiti, che ormai non praticavo più dopo che, nel 2015, avevo perso i contatti con Padre Vanni, che si era ammalato e che partì per l’Al di più a fine 2018.
Mi avvicinai così, nello stesso anno, alle Comunità di Vita Cristiana (CVX) dei gesuiti, alle quali successivamente ho aderito, anche formalmente, nel 2020.
Grande fu la mia sorpresa nello scoprire che assistente cittadino delle CVX era Padre Armando Ceccarelli, sacerdote gesuita che era anche membro della branca religiosa del Movimento dei Focolari. Se lui, da sacerdote viveva completamente, integrandole, il carisma di S. Ignazio e quello di Chiara Lubich, perché non potevo farlo anche io da laico?
In effetti da volontario focolarino avevo approfondito la mia spiritualità in senso comunitario, come laico delle CVX imparavo a sviluppare la mia capacità di discernimento personale nonché ad approfondire alcuni aspetti spirituali (esame di coscienza, esercizi spirituali specifici, silenzio formativo, confessione generale…) mai affrontati prima.
La spirituale ignaziana, prevalentemente individuale si sposava e si integrava benissimo con quella focolarina, prevalentemente collettiva.
Ricordo benissimo la confessione generale che feci allorché aderii formalmente alle CVX, che consisteva in un esame di coscienza scrupoloso di tutta la propria vita, nel pentimento di non aver corrisposto adeguatamente all’amore di Dio, in un programma di crescita per il futuro.
Individuai i 4 punti deboli della mia vita spirituale:

1.     un forte pessimismo che si stava impossessando di me;

2.     un certo senso di superiorità morale e culturale;

3.     una sempre maggiore inclinazione a indispettirmi e…

4.     a giudicare severamente gli altri.

Reagii inventatomi l’acronimo SpUmMiMi che sono le iniziali di 4 parole programmatiche:

1.     Speranza.

2.     Umiltà.

3.     Mitezza.

4.     Misericordia

E’ un acronimo che ripeto spesso e che mi sta aiutando….

Questa nuova opzione spirituale gesuita-focolarina mi ha ridato la serenità interiore che cercavo e mi sta permettendo di affrontare con equilibrio una grande prova.
Avevo lasciato il mio quartiere Castro Pretorio nel 2002 da sposato e, dopo la partenza per l’Al di più di mio suocero e dei miei genitori, vi sono tornato a gennaio 2020 e l’ho trovato nel più pieno degrado, in quanto a pulizia, manutenzione delle strade e marciapiedi, esercizi commerciali esistenti, livello culturale medio, carente integrazione etnica, ma soprattutto per la presenza di tanti disadattati mentali e persone senza fissa dimora (SFD) che vagano per le strade giorno e notte perlopiù ubriachi, persone che vivono sui marciapiedi e che ivi fanno i loro bisogni.
Specialmente su spinta di mia moglie Patrizia ho capito che avrei tradito la mia Fede se non mi fossi dato da fare per restituire un po’ di decoro al quartiere e impegnarmi per restituire dignità umana a questi SFD.
Di qui la fondazione di un gruppo facebook di residenti che, in 6 mesi, ha raggiunto ben 215 persone desiderose di un maggior decoro, i rapporti stretti con il Presidente del Municipio e vari Consiglieri municipali (di diversi partiti), con l’AMA (azienda comunale per la pulizia), con la locale stazione dei Carabinieri, con alcuni Enti con sede nel quartiere.
Mi devo fermare perché sono arrivato al work in progress.
Mi sono trovato a scrivere molte (forse troppe…) pagine sulla storia della mia Fede, è ora di tornare alla domanda iniziale: perché credo?

Perché credo? – I punti di luce

Perché credo? E’ una domanda insidiosa ma inevitabile, penso che solo rare persone al mondo non si siano poste la domanda sull’esistenza di Dio (anche un Dio diverso da quello cristiano).
Non mi hanno convinto mai completamente le 5 vie di S. Tommaso, tranne forse quella del movimento.
Se la natura è in continua evoluzione, in movimento, non si può essere messa in moto da sola, ci deve essere stato un “primo motore immobile” che ha dato (diciamo così) il calcio di inizio.
Gli astrofisici dicono che l’universo, all’inizio più piccolo di un granello di polvere si è espanso a seguito di una esplosione iniziale,  chiamata “Big bang”, e che è tuttora in fase di espansione finché
la forza iniziale non si esaurirà e finché, arrivato ad un punto di stallo, l’ universo stesso non comincerà a restringersi.
Ma chi ha innescato la miccia che ha originato il Big bang? Chi è, torniamo alla domanda di prima, il Primo motore immobile che ha dato la prima spinta?
Pare una risposta esauriente tesa a dimostrare l’esistenza di un Dio ma, mi chiedo, come posso essere sicuro che in un futuro, più o meno vicino, gli scienziati non vengano a scoprire che l’inizio dell’universo trae la sua origine da una causa che prescinde dall’esistenza di Dio, o meglio da una non-causa, perché se ci fosse una causa dovremmo risalire ad un causante la causa con un avviluppamento assurdo e paradossale?
Comunque il paradigma del moto e del primo motore immobile anche se, a mio parere, non può costituire una prova dell’esistenza di Dio, può ben rappresentare un indizio.

Ma neppure la pretesa prova che mi aveva affascinato quella mattina sulla via Casilina mentre aspettavo mamma, la prova che si basava sull’affidabilità degli Apostoli, persone semplici ma concrete che avevano rischiato (e qualcuno perso) la vita… nel difendere e divulgare la fede in Cristo Risorto, mi pare risolutiva.
Va bene, non si trattava di un fantasma (un fantasma non mangia…) ma se si fosse trattato di un’altra persona fortemente rassomigliante a Gesù?
Se fosse stato un fratello gemello di Gesù? I vangeli parlano di Gesù come di un primogenito (anche se i biblisti spiegano che, in questo caso, primogenito equivale a unigenito), gli stessi vangeli parlano di fratelli (e sempre i biblisti spiegano che si tratta di parenti, non di fratelli veri e propri), ma da nessuna parte è scritto che Gesù non avesse un fratello, magari un gemello (stranamente un Vangelo parla dell’apostolo Tommaso detto Didimo “cioè gemello”).
No, neppure il criterio dell’affidabilità degli Apostoli poteva rappresentare una prova risolutiva dell’esistenza di Dio, un indizio, anche pesante, a mio parere sì.

Che dire del colloquio con Adriano che poneva il discorso sulla Fede alla pari di un discorso sulla fiducia reciproca tra amici?
Si passava dalle prove filosofiche di carattere deduttivo ad una prova di carattere, diciamo così, esperienziale.
Proviamo a credere a Gesù Risorto come ad un nostro fratello fidato, al nostro amico più caro, diamogli fiducia, chiediamogli fiducia, “crediamo” a lui,  ci accorgeremo che cominceremo a vedere i primi barlumi di una Fede matura che non si basa sul ragionamento ma su una esperienza di piena gioia interna proveniente da una relazione di amore che ci soddisfa completamente.
S. Agostino diceva “Ama e fa’ quello che vuoi”; se fosse ugualmmente vero anche “Ama e crederai”?
Anche qui non una prova risolutiva, ma un indizio veramente pesante e convincente.

Sulla stessa linea della Fede esperienziale si pone il tema dei “punti”, o momenti di luce.
Sia Padre Vanni che Chiara Lubich dicevano che, nella vita di ognuno ci sono dei “punti di luce” ovvero dei momenti in cui abbiamo fatto l’esperienza di trovarci di fronte alla presenza di Dio.
Alcuni di questi momenti ce l’ho ben metti nella memoria.

Il primo mi capitò all’Aquila in occasione della mia prima Mariapoli dei Focolarini.
Avevamo appena chiuso il primo giorno di incontro avevamo tutti e scoperto che Dio è Amore e che se ci fossimo messi tutti ad amarci reciprocamente Gesù sarebbe stato in mezzo a noi (“Dove due o più sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” dal Vangelo di Giovanni).
Durante la cena eravamo tutti impegnati a manifestare l’un l’altro questo amore reciproco, questo servirci reciprocamente in piena libertà, volentieri e spontaneamente.
Ero pieno di gioia, vuoto di me stesso e proteso verso gli altri, sia gli amici che erano venuti con me da Roma, sia gli altri che non conoscevo.
Ad un certo punto effettuai come un “fermo immagine”, guardai la scena, guardai me e gli altri tutti ebbri di amore e di felicità, ebbi un lampo e mi dissi: “Sì, in questo momento Gesù Risorto è in mezzo a noi”.

L’altro punto di luce riguarda un fatto che vi voglio raccontare, cercando di attenermi a criteri di riservatezza e di tutelare la privacy di alcune persone coinvolte.
Insieme ad una carissima amica dovevamo incontrare un autorevole Cardinale al quale chiedere un intervento per provare a salvare più di un centinaio di un posto di lavoro di una fabbrica in procinto di essere chiusa da una multinazionale.
Con l’amica pregammo insieme prima dell’incontro.
In effetti il Cardinale non brillava per empatia e, fin dall’inizio, si mostrava molto chiuso nel recepire la nostra richiesta.
Nonostante i nostri sforzi, l’incontro non procedeva e alla fine si stava chiudendo con un nulla di fatto e il Cardinale ci stava accompagnando alla porta. All’ultimo momento si fermò e, ripetendo il cognome dell’amica, le chiese se era parente di un noto medico che aveva conosciuto molti anni prima a casa di un comune amico (questo medico fra l’altro era accompagnato da una bambina…).
In men che non si dica emerse che la bambina era proprio la mia amica che, anche lei, si ricordò di quell’incontro e del giovane monsignore presente.
Il colloquio, che si stava chiudendo, immediatamente si riaprì e fu possibile trovare un percorso per arrivare ad una soluzione.
Quando uscimmo dal palazzo, la mia amica ed io ci fermammo e, entrambi in preda ad una forte commozione, realizzammo, pieni di gioia e con sicurezza, che avevamo assistito ad una poderosa azione del vento dello Spirito.

Ancora….
Era il mio quinto viaggio in Terrasanta e, come al solito, ero rimasto colpito, a Nazareth, dal luogo probabile dell’Annunciazione. Mi destava sempre meraviglia e sentimento di riconoscenza stare in quel luogo nel quale Dio aveva manifestato tanta fiducia nell’uomo da incarnarsi in esso.
Dopo due-tre giorni eravamo a Gerusalemme e, come al solito, andammo al Santo Sepolcro.
Devo essere sincero, andare nel luogo dove Gesù era stato, là vicino, crocifisso e, proprio là, sepolto, non mi aveva mai dato particolari sensazioni.
Ho sempre pensato che la Chiesa cattolica sia un po’ malata di “dolorismo”, insista troppo, specialmente nella spiritualità individuale, sull’aspetto del servo sofferente e abbandonato morto in croce e troppo poco sull’aspetto della resurrezione.
Entrai, come al solito, nella stanzetta angusta del Santo Sepolcro, mi inginocchiai senza provare granché, biascicai (a bassissima voce) qualche preghiera e…
All’improvviso un pensiero mi folgorò la mente: “Giuseppe, non sbagliare prospettiva, qui Gesù è risorto”.
Realizzai, così, all’improvviso, con un pensiero entrato non so come, né da dove, nella mia mente che proprio in quel posto dove io mi trovavo Gesù era risorto, la vita aveva vinto sulla morte, il bene sul male, la luce sul buio.
Fu una esperienza inesprimibile, di grande gioia, di ineffabile sensazione di pienezza, di assaporare la presenza di Gesù risorto con me.

Potrei continuare con questi “punti di luce”, quella volta a Pomaio durante una veglia pasquale notturna in silenzio, quella volta che feci la confessione generale prima di aderire alle CVX, quella volta che, da giovane, piansi a Lourdes di fronte alla processione dei malati….
Ho sempre pensato che questi punti di luce siano doni di Dio per confermarci nella Fede, ulteriori indizi che lui esista e ci ami.

Un’altra esperienza illuminante è quella di avvertire con chiarezza che quando, in ossequio al messaggio evangelico, mi metto, senza paura e in piena libertà, a vivere la Parola di Gesù, ad amare gli altri, a donarmi a loro, a servirli, mi sento felice, di una felicità piena, realizzato, in sintonia con me, con gli altri, con la natura.
In quei momenti tutto sembra facile e chiaro….
Altro indizio della esistenza di Dio?

Conclusione

Al termine di questa considerazioni mi rendo conto come non ci sia una prova certa, direi quasi matematica, dell’esistenza di Dio.
Esistono però tanti indizi, precisi, gravi concordanti proprio quelli che il codice penale richiede affinché possa essere emessa una sentenza giuridicamente fondata.
E’ inutile però negare che pur sempre di indizi si tratta, e che il dubbio rimane.
La Fede comunque richiede sempre un salto nel buio.

Mi vengono in mente le parole che Padre Vanni citava spesso attribuendole a Romano Guardini: “La Fede è un osare verso l’infinito”.
E allora ricomincio, osando….

Appendice

Tre giorni fa, tornando a casa da un incontro del mio gruppo di CVX (Comunità di Vita Cristiana) ripensavo alla mia vita concreta, al mio modo di comportarmi in occasione dei tanti episodi nei quali occorre fare una scelta di azione, mi chiedevo se in questi momenti le mia decisioni erano prese sulla base della mia Fede cristiana o se giocavano altre motivazioni più o meno positive e giustificabili (la voglia di emergere, l’attirare simpatie o attenzione benevola, il desiderio di conservare o acquisire amicizie, l’usare  misericordia verso un bisognoso, il provare stima verso qualcuno…).
Mi chiedevo, in altre parole, “ma io credo veramente in Dio?” o faccio finta di crederci e, in fondo, recito solo il ruolo, la parte, di credente nel grande gioco della vita? Credo realmente in un Dio-Persona che è morto sulla Croce per dare a tutti gli uomini la possibilità di vivere la loro esistenza in pienezza e in libertà? o mi limito a credere in una dottrina ideologica, un sistema di dogmi, di riti, di formule con una solida coerenza interna, e di conseguenti indicazioni pratiche da seguire?

Così, in un turbinio di pensieri sfarfallanti nella testa mi è vrnuta in mente la riflessione svolta da P. Silvano Fausti, gesuita, nel suo commento al Vangelo di Marco.
Per Padre Fausti dire “Dio è Gesù” appare più corretto che dire “Gesù è Dio”[5].
In fondo, ragiona Padre Fausti, non è Gesù stesso che alla domanda dell’apostolo Filippo “Signore, mostraci il Padre e ci basta” risponde con chiarezza e nettezza “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre”[6] (ovvero Dio)?
Sì, è corretto dire “Gesù è Dio” perché l’unico modo certo per un cristiano di riferirsi a Dio è quello di riferirsi direttamente a Gesù.

Dunque, se “Dio è Gesù”, continuavo a chiedermi tre giorni fa tornando a casa in quel turbinio di pensieri, quale è il senso corretto della domanda “ma credo veramente in Dio?”.
Ed è allora che mi è venuta una specie di illuminazione.
Se Dio è Gesù, la domanda corretta da pormi non è se credo veramente “in” Dio, o credo veramente “in” Gesù, bensì, essendo Gesù una persona ben precisa con una storia e un messaggio ben narrati e  circostanziati, credo veramente “a” Gesù?
Credo veramente “a” quello che mi dice con la sua parola, con i suoi gesti, con la sua vita? credo veramente che vivendo come lui mi chiede ottengo di vivere in comunione con i fratelli e in armonia con il resto del creato in una pienezza non altrimenti sperimentabile? mi fido di lui come mi fiderei di un amico che so che mi vuole bene e che mi dà consigli in grado di farmi crescere spiritualmente ed umanamente?
Sì, la vera fede cristiana forse non è credere in Dio quanto piuttosto fidarsi di Gesù Cristo, Dio, fratello, amico, ascoltarlo e seguirlo.

Roma 14/11/2021                                                      Giuseppe Sbardella



[1] Ex motu, ex causa, ex possibili et necesario, ex gradu, , ex fine.

[2] Gv 21, 9-15

[3] Lc 21, 41-42

[4]  Giuseppe Sbardella “Controcorrente – la mia esperienza di cristiano e di manager” Città Nuova 2007

[5] Ovviamente qui non si contesta il dogma della Incarnazione e della doppia natura di Gesù, divina e umana, si vuole solo approfondire, se possibile, un aspetto.

[6] Giovanni 14,8