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sabato 25 novembre 2023

Aggressioni alle donne, solo una soluzione penale?

                                                     



Per piacere, piantantela di colpevolizzare tutti i maschi!! Rischiate l'effetto contrario!!

Noto con preoccupazione che il legittimo sdegno civile per l'ennesimo femminicidio sta trasformandosi in una indegna espressione di protesta radical-femminista, dai contorni politici (che c'entra l'antipatia verso Israele con i femminicidi?) nei confronti di tutto il genere maschile, gestita dalla solita minoranza chiassosa di uomini e donne sempre pronti/e a scendere in piazza.

Attenzione ci sono femmine e femmine, ci sono maschi e maschi!

Bisogna saper distinguere (e qui parafraso una famosa frase di Norberto Bobbio) fra maschi e femmine pensanti e maschi e femmine non pensanti.

Per maschi non pensanti inserisco quelli i cui ideali si riducono al far soldi (magari con il minimo sacrificio possibile), ad avere un bel fisico, a far colpo sull'altro genere per farlo proprio...

Per femmine non pensanti inserisco quelle i cui ideali si riducono al far soldi (magari con il minimo sacrificio possibile), ad avere un bel corpo, a far colpo sull'altro genere per essere oggetto di ammirazione.

Fate attenzione, i colpevoli di femminicidio sono, nella massima parte dei casi quelli che ho definito maschi non pensanti, le vittime di femminicidio o di aggressione sono, nella maggiore parte (non nella totalità...) dei casi, quelle che ho definito femmine non pensanti. 

Certo il comportamento dei maschi è da considerare più grave di quello delle femmine ma l'attaccare indiscriminatamente, come si sta facendo, tutto gli uomini, comporta il rischio grave che gli uomini pensanti (ovvero quelli che hanno valori diversi e più profondi del solo far soldi, o avere un buon fisico, o possedere più donne possibile) si ribellino a questo attacco insensato.

Ormai è acclarato, la soluzione del reato autonomo di femminicidio o l’aggravamento delle pene non funziona.
Di fronte ad un problema che ha la sua origine in un contesto valoriale errato non è sufficiente ricorrere al diritto penale e nemmeno ad una educazione sessuale nelle scuole.
 
Qui si tratta di rieducare tutti gli italiani (uomini e donne) ai valori fondamentali della nostra Costituzione quelli che mettono al centro la tutela della persona umana, di ogni persona umana, al di là delle differenze di sesso, di lingua, di razza, di religione, di opinione politica, di condizioni sociali.  

E questa opera di rieducazione deve essere portata avanti con determinazione dalle poche e fatiscenti agenzie di socializzazione rimaste (famiglia, scuola, comunità ecclesiali) in un contesto di collaborazione reciproca e sulla base di valori condivisi ricavabili dalla Costituzione.
Per piacere, lo ripeto, no ad attacchi indiscriminati, no a lasciare questo argomento in mano a maschi e a femmine non pensanti.

Roma 25/11/2023

mercoledì 16 agosto 2023

Serve una campagna mediatica popolare di messaggi positivi

 



Mi ricordo quando, durante un corso di mediazione civile, uno psicologo ci spiegò che una emozione negativa vale TRE VOLTE di più di una emozione positiva.

Vi spiegate allora perché i politici, per ottenere i voti, puntano ad aumentare le paure delle persone piuttosto che a stimolare un loro atteggiamento costruttivo.
O perché molti agenzie di marketing, per vendere i prodotti da esse sponsorizzate, puntano soprattutto a mettere in evidenza il timore delle cose che vi potrebbero accadere se non comprate i loro prodotti.
O perché i siti di meteorologia privati cercano di catturare click (e di aumentare il loro guadagno vendendo spazio inserzionistico sul loro sito) enfatizzando in tutti i modi (anche attribuendo nomi fantasiosi mitici) le tempeste fredde o le bolle di caldo in arrivo.
D fronte a questa calcolo non basta reagire con 1 messaggio positivo a 1 messaggio negativo che vale per 3. Occorre implementare una campagna di MESSAGGI POSITIVI.
Qui sotto un esempio. I siti di meteo enfatizzano l'impatto della bolla di calore nell'Italia del Centro Sud ma sottacciono completamente che, con un tasso di umidità relativamente basso, il caldo sarà più sopportabile.
E allora la parola d'ordine è: SEMINARE POSITIVO!🙂👍

domenica 28 maggio 2023

Due meditazioni (su Pentecoste e su Maria) che spiazzano.



Vana credulità
 
di

Alberto Maggi 

Il cammino e la crescita del credente verso una sempre maggiore consapevolezza della realtà divina che lo circonda e lo abita non consistono certamente nel “demolire, ma nel portare a compimento” la sua adesione a Gesù e al suo messaggio (Mt 5,17). Perché questo diventi realtà occorre continuamente mettere il vino nuovo della buona notizia dentro otri nuovi, “altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti” (Mt 5,17). “Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente” (Ef 4,23) invita Paolo, e questo rinnovarsi non significa essere fuori dalla Chiesa ma, al contrario, esserle fedeli e seguirla nei suoi insegnamenti. Ma c’è un mese all’anno in cui questo rinnovarsi sembra come svanire. Per tutto maggio, il tempo tradizionalmente dedicato alla Madonna, si riesumano tradizioni, devozioni, culti, processioni, preghiere che si sperava ormai poste sotto naftalina, collocate con il dovuto riverente rispetto nel museo delle religiosità appartenenti al passato e incompatibili con la spiritualità della Chiesa odierna. Queste devozioni, ormai obsolete, hanno avuto origine in una cultura patriarcale, ormai definitivamente tramontata, quando tra genitori e figli non vi erano i rapporti attuali improntati sull’affetto. Il padre rappresentava l’autorità, la severità e il castigo e la sua era una presenza che incuteva timore; la madre era l’amore e la tenerezza, colei che si frapponeva tra il marito e il figlio sia per rivolgere richieste che questi non avrebbe mai osato fare direttamente al padre, sia per parare le punizioni del genitore. Questa cultura patriarcale fu proiettata nella sfera divina, dove Dio è il Padre di cui si ha timore e che non si osa affrontare direttamente. Soprattutto è colui che castiga (“Ho meritato i vostri castighi”). In questa prospettiva Maria svolgeva la funzione della madre sia per accogliere le richieste e i bisogni degli uomini, sia per proteggerli dal castigo divino. Così, in breve, da creatura fu trasformata in un sostituto della divinità, persino più sicura e affidabile di Dio. Ora fortunatamente la società è profondamente cambiata: i figli si rivolgono direttamente al papà senza alcun timore e la mamma non deve più esercitare la sua funzione di mediatrice e protettrice. Per questo non è possibile seguitare a rivolgersi alla Vergine usando queste formule che risentono pesantemente di una teologia e di un linguaggio ormai superati, che non possono più esprimere il sentimento di una Chiesa sempre in cammino e mai immobile. Nei vangeli l’unico soccorritore è il paraclito (Gv 14,16), lo Spirito di verità che non ha bisogno di essere invocato e tantomeno supplicato in quanto la sua presenza è garantita sempre, non solo nel momento del bisogno, come segno della protezione divina. 2 Quale Maria? Purtroppo, per un malinteso teologico, in passato Maria è stata presentata partendo dal compimento in lei del disegno di Dio. Da questa pienezza si è poi considerato in maniera retrospettiva ogni momento della sua esistenza, trasformandola così in una creatura privilegiata che già all’inizio della sua esistenza era più che perfetta, pienamente cosciente di tutto quel che l’aspettava nella vita. I vangeli non partono dalla compiutezza di Maria ma dai suoi inizi, difficili, drammatici, travagliati. Gli evangelisti non esitano a presentare una madre che non solo non comprende il figlio (Lc 2,18-19. 33), ma che addirittura si merita da lui un aspro rimprovero (Lc 2,49). Marco, l’evangelista più antico, la descrive addirittura unita al clan familiare deciso a catturare Gesù ritenuto ormai in preda alla sua follia (“Allora i suoi, sentito questo, uscirono per impadronirsi di lui; poiché dicevano: È fuori di sé”, Mc 3,21). Ma lei, a differenza degli altri, anche se non comprende l’agire di Gesù non lo rifiuta e riflette (Lc 2,50-51). Cresciuta nella pratica della Legge, ritenuta unica espressione della volontà di Dio, Maria si apre gradualmente alla parola del Figlio, che come una spada le attraverserà la vita, costringendola a scelte tanto drammatiche quanto coraggiose (Lc 2,35). Come all’annuncio dell’angelo la giovanetta di Nazaret si era detta disposta a compiere la volontà del Signore e a diventare madre del “Figlio dell’Altissimo” (Lc 1,32), ora Maria accoglie la parola del Figlio che la condurrà a divenire sua discepola: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,35). La fedeltà al cammino della Chiesa nella conoscenza sempre più grande della figura di Maria come gli evangelisti l’hanno voluta presentare, impone pertanto di rivedere modi e formule delle devozioni. Per questo la Chiesa invita “i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione, come pure dalla grettezza di mente nel considerare la singolare dignità della Madre di Dio” (Lumen Gentium, 67), e Paolo VI mise in guardia dalla “vana credulità, che al serio impegno sostituisce il facile affidamento a pratiche solo esteriori” (Marialis cultus, 38). È pertanto più che mai attuale il dovere di rivedere quelle forme che, “soggette all’usura del tempo, appaiono bisognose di un rinnovamento che permetta di sostituire in esse gli elementi caduchi, di dar valore a quelli perenni…” (MC 24). Maria, la temeraria audace galilea antimonarchica che osa affermare che il suo Signore è quello che “ha rovesciato i potenti dai troni” (Lc 1,52) in casa dei suoi parenti della Giudea, regione notoriamente filomonarchica, per un paradosso della storia è stata poi raffigurata su troni sempre più maestosi. I devoti, pur chiamandola “la mamma celeste”, non le si rivolgono come a una madre, ma la supplicano prostrati, come fanno i sudditi per essere ascoltati dai potenti e richiedere la loro protezione. Di fronte ai rischi che la vita comporta, un credente maturo non cerca di mettersi sotto la protezione della Madonna, ma nelle avversità si rafforza e diventa sempre più capace di camminare con le sue gambe. È questo che lo rende una persona adulta, proprio come Maria di Nazaret, l’intrepida donna dei vangeli che invita a mettere in pratica il messaggio di Gesù (“Tutto quello che vi dice, fatelo”, Gv 2,5), perché lei per prima ha creduto che “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37). Pertanto Maria non è la mamma-chioccia sotto il cui manto cercare protezione, ma, come intuirono molti Padri della Chiesa, da Atanasio a Efrem e ad Agostino, è una sorella nella fede, la “vera nostra sorella”, come scrisse Paolo VI (MC 56), la donna coraggiosa che fieramente e a testa alta è andata avanti nella sequela del Cristo, facendosi compagna di viaggio di ogni credente che cammina verso il raggiungimento della pienezza della vita. Per questo la vera devozione a Maria non consiste “in una vana credulità, ma procede dalla fede vera, dalla quale siamo spinti all’imitazione delle sue virtù” (LG 67). E la virtù per eccellenza, quella che ha reso grande la Madonna, è la fede con la quale ha accolto e vissuto il 3 progetto che il Padre ha su ogni creatura, cioè quello di “essere santi e immacolati” (Ef 1,4). In lei il Creatore non ha trovato ostacoli e ha realizzato così il suo disegno d’amore. Questo cammino di Maria verso la pienezza della volontà di Dio, se è stato indubbiamente immediato nell’accoglienza (“Eccomi! Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”, Lc 1,38), ha poi richiesto tempo per la sua realizzazione. Un itinerario, il suo, difficile, irto di ostacoli e sofferenze, che però ha saputo percorrere crescendo e maturando nel suo divenire discepola perfetta del Cristo, disposta a condividerne la sorte (“Stavano presso la croce di Gesù sua madre…”, Gv 19,25). E Maria si è posta coraggiosamente a fianco del giustiziato contro chi lo ha crocifisso, schierandosi così per sempre a favore degli oppressi, dei poveri, dei disprezzati e mai dei potenti che opprimono

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Pentecoste, festa difficile 
di
Don Tonino Bello
 

…… la Pentecoste è una festa difficile. Ma non perché lo Spirito Santo anche per molti battezzati e cresimati è un illustre sconosciuto. È difficile, perché provoca l'uomo a liberarsi dai suoi complessi. Tre soprattutto, che a me sembra di poter individuare così: Il complesso dell'ostrica. Siamo troppo attaccati allo scoglio. Alle nostre sicurezze. Alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l'intimità del nido. Ci terrorizza l'idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci sul mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno. Di qui, la predilezione per la ripetitività, l'atrofia per l'avventura, il calo della fantasia. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama alla novità, ci invita al cambio, ci stimola a ricrearci. C'è poi il complesso dell'una tantum. È difficile per noi rimanere sulla corda, camminare sui cornicioni, sottoporci alla conversione permanente. Amiamo pagare una volta per tutte. Preferiamo correre soltanto per un tratto di strada. Ma poi, appena trovata una piazzola libera, ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini, dei nostri comodi. E diventiamo borghesi. Il cammino come costume ci terrorizza. Il sottoporci alla costanza di una revisione critica ci sgomenta. Affrontare il rischio di una itineranza faticosa e imprevedibile ci rattrista. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama a lasciare il sedentarismo comodo dei nostri parcheggi, per metterci sulla strada subendone i pericoli. Ci obbliga a pagare, senza comodità forfettarie, il prezzo delle piccole numerosissime rate di un impegno duro, scomodo, ma rinnovatore. E c'è, infine, il complesso della serialità. Benché si dica il contrario, noi oggi amiamo le cose costruite in serie. Gli uomini fatti in serie. I gesti promossi in serie. Viviamo la tragedia dello standard, l'esasperazione dello schema, l'asfissia dell'etichetta. C'è un livellamento che fa paura. L 'originalità insospettisce. L 'estro provoca scetticismo. I colpi di genio intimoriscono. Chi non è inquadrato viene visto con diffidenza. Chi non si omogeneizza col sistema non merita credibilità. Di qui la crisi della protesta nei giovani e l'estinguersi della ribellione. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama all'accettazione del pluralismo, al rispetto della molteplicità, al rifiuto degli integralismi, alla gioia di intravedere che lui unifica e compone le ricchezze della diversità. La Pentecoste vi metta nel cuore una grande nostalgia del futuro


lunedì 20 marzo 2023

Merito... non solo. Appunti sulla meritocrazia

 



Parte 1

Come valutare il merito?

Tutto parte dalla seguente domanda birichina che mi sono posto da solo: “Meritocrazia. E' più degno di apprezzamento (e meritevole…) un manager che alza del 2% il profitto della propria azienda farmaceutica o il medico, della medesima azienda, che scopre un farmaco per una malattia rara (dal quale non si prevede pertanto un grosso ritorno in termini di profitto per l'industria farmaceutica)?”
La risposta non è facile, e forse neppure è possibile darne una definitiva. Conviene procedere con ordine.

Il termine meritocrazia viene dal greco, significa letteralmente “potere al merito” e identificando quel tipo di modalità di riconoscimento caratterizzato dal premiare le persone più meritevoli nei campi più vari (aziende, scuole, mondo della finanza, sanità, sport ecc.).
Meritevole è la persona che contribuisce al successo di un ente, dal più piccolo come una famiglia, ai più grandi, come un’azienda o addirittura una nazione.

E qui cominciano i problemi.

Quali sono i criteri per misurare il successo di un ente e come paragonare le storie di successo nell’ambito dei vari enti per premiare le migliori?

E’ più meritevole il manager che alza del 5% l’utile della propria azienda in Borsa, premiando così gli azionisti ma mandando a casa 10.000 dipendenti, o il manager che l’alza solo del 2% ma evita ogni tipo di licenziamento?
E ancora (e qui la risposta sembra a prima vista più facile) è più meritevole lo scienziato che mette a punto il vaccino per una influenza pandemica (che salva milioni di persone e che fornisce un grosso ritorno in termine di profitto) o lo scienziato che scopre un farmaco per le malattie rare (che salva migliaia di persone con un ritorno di profitto ovviamente molto inferiore al precedente)? La vita di più persone vale più della vita di meno persone? ponetevi, prima di rispondere, nei panni di una di queste ultime...

Sembra chiaro che la risposta a queste domande non possa prescindere dall’individuazione di criteri oggettivi atti a misurare il contributo dei singoli al successo e, pertanto, dal tipo di società che si vuole costruire.

Se si vuole costruire una società fondata su valori quali la massimizzazione della ricchezza individuale, del profitto aziendale, del PIL nazionale, saranno considerati meritevoli i cittadini che, con la loro attività, avranno meglio contribuito all’accrescimento quantitativo di questi valori.
Se invece la meta è quella di una società in cui si possa vivere meglio, in cui sia distribuita comunque una base di ricchezza sufficiente per una vita dignitosa, e si punti ad uno sviluppo rispettoso delle esigenze ambientali e della necessità di un solido contesto relazionale interpersonale, allora saranno considerati meritevoli i cittadini che maggiormente si saranno impegnati sul fronte della salute, dell’ambiente e di tutto quant’altro consente alle persone di avere solide e realizzanti relazioni umane.

Pertanto solo se si ha chiaro il modello di sviluppo da implementare e il tipo di società da costruire si potrà meglio capire cosa si intenda effettivamente per merito. Di qui la prima conclusione che non può esistere una concezione di merito condivisa da tutti ma che tale concezione dipenda in maniera molto rilevante dai valori sociali che i singoli cittadini professano.

E non è l’unica questione che si presenta.

E’ comune esperienza (sia pratica che scientifica) che le prestazioni individuali (professionali, sportive, relazionali) dipendono in gran parte da fattori che prescindono dall’impegno individuale. A titolo di esempio possiamo individuare alcuni di questi:

·       il quoziente di intelligenza (Q.I.);

·       l’ambiente familiare e sociale da cui si proviene;

·       il percorso di studi (spesso obbligato) portato (o non) a termine;

·       le doti fisiche e psichiche (talento) naturali.

Come valutare i meriti di due lavoratori di cui uno, con Q.I. superiore alla media, completa un incarico in pochi minuti e senza eccessiva fatica, e l’altro, con Q.I. inferiore alla media, in un’ora ma con grande impegno? Certo il primo avrà del tempo disponibile per portare a termine altri lavori e il secondo forse no, ma chi dei due è stato più meritevole?

Certo, se ci si basa solo sul criterio del profitto, il primo risulterà necessariamente vincente, ma abbiamo visto che il successo materiale non può essere il solo criterio. Magari il secondo lavoratore, più lento ma maggiormente impegnato, potrebbe essere più capace di integrarsi in un efficace lavoro di team.
E ancora, per tornare ad una domanda iniziale, come valutare, in termini di merito, lo scienziato che predispone il vaccino per milioni persone e quello invece che, magari con maggior impegno, scopre una medicina per una malattia rara? Valuteremo il merito in termini di ritorno di profitto, di numero di potenziali persone (pesandone l’importanza individuale in funzione del numero), o invece misureremo la quantità di impegno profuso da ciascuno dei due nel loro lavoro?
Come valutare l’insegnante, dotata di carisma personale, in grado di tenere la classe in termini di disciplina ma con scarsa capacità di trasmettere conoscenze e valori, con un’altra, magari meno esuberante, talvolta schiacciata dagli studenti, ma intenta, con grande impegno, a veicolare in loro sia le conoscenze tecniche che i principali valori sociali? Certo la prima arrecherà meno fastidio al Dirigente scolastico (che potrà limitare i suoi interventi di tipo disciplinare) ma dovrà essere considerata più meritevole dell’altra?

E non sono finiti gli interrogativi da porre sulla questione della meritocrazia.

Come comportarsi sui periodi di valutazione? Dovremo considerare più meritevole il ricercatore che, annualmente, produce singoli risultati di rilevanza normale, o un altro ricercatore, impegnato in un lavoro più complesso e con necessità di maggior tempo di analisi, che raggiungerà un risultato molto più importante ma dopo più anni? Generalmente si è portati a considerare il breve periodo, ma è giusto, non ci limiteremo così a premiare gli sforzi brevi e a disincentivare gli studi lunghi e complessi?

Riepilogando,

·       scopo ultimo del lavoro,

·       importanza dei fattori individuali predeterminati,

·       rapporto fra risultato e impegno,

·       lunghezza del periodo di valutazione

sono (e forse ce ne saranno anche altri) quattro elementi che mettono a dura prova la fondatezza e la ragionevolezza del motto “potere al merito”.

L’impressione netta è, che in questa come in altre questioni sociali, occorra evitare ogni fondamentalismo, ogni presunzione che problemi complessi siano risolvibili con soluzioni semplici, che ci possano essere, in ogni caso, scorciatoie in grado di evitare la indispensabile fatica del discernere, comprendere e solo alla fine decidere.

Il reale merito dovrà essere valutato tenendo conto non solo del contributo al profitto, al guadagno finanziario o al PIL, ma anche di fattori diversi quali l’impegno individuale, il contributo al bene comune e l’importanza del lavoro in rapporto al tempo impiegato. Solo in una ottica così allargata diventerebbe possibile avviare una concreta e giusta politica di riconoscimento del merito.

 

Parte 2

Ma è vero merito?

Ma, nel sostenere il principio meritocratico, siamo certi che veramente stiamo riconoscendo il merito delle persone che premiamo?
Non sarà necessario, prima di ogni cosa, mettere tutte le persone in condizione di godere delle medesimo opportunità? Ovvero garantire quella che viene definita come l’uguaglianza delle condizioni di partenza, di uguaglianza garantita come pari opportunità per arrivare al successo nel proprio campo?
Una volta che fossero definite ed implementate delle sane e positive politiche in campo scolastico, sociale, sanitario, culturale per potenziare i soggetti più deboli e consentire loro di dedicarsi alla attività desiderata perché non innescare, a questo punto, il principio meritocratico e riconoscere il valore dei più meritevoli?

Forse perché il talento del quale siamo dotati e che ci permette di raggiungere o meno determinati risultati di successo non può essere considerato solo “nostro” ma è frutto di un dono o della sorte.
Ogni essere umano nasce infatti con un determinato patrimonio genetico, con determinate doti caratteriali che vengono affinate e potenziate dall’ambiente familiare e sociale nel quale viviamo e che ci offre (ci dona) precise possibilità di crescita.
il DNA genitoriale, il contesto culturale e professionale delle nostre amicizie, la possibilità di accedere a strutture formative adeguate, le risorse finanziare necessarie per viaggiare e conoscere ambienti diversi, sono tutti elementi che giocano a favore (o a sfavore…) di ciascuno di noi nella via verso il successo.
Chi ha avuto la sorte di vivere in un contesto favorevole,  di aver goduto di una istruzione adeguata, di aver frequentato stimolanti ambienti nazionali e internazionali, ha davvero pochi meriti personali in più rispetto a chi ha avuto una sorte sfavorevole per poter pretendere e rivendicare un riconoscimento maggiore nel raggiungimento di determinati risultati.
Se si preferisce, invece di sorte, si può parlare (per chi è credente) di dono di Dio, ovvero di benevolenza divina gratuita, ma in questo caso chi ne è beneficiario non se ne può assolutamente gloriare.

Sane positive sociali in campo scolastico, sociale, sanitario, scolastico potrebbero parzialmente livellare le condizioni di partenza ma non potrebbero mai annullarle e alcune condizioni favorevoli (come il DNA, le amicizie del proprio ambiente sociale, l’influsso culturale familiare) contribuirebbero sempre ad agevolare il cammino dei più rispetto ai meno fortunati.
Si potrebbe forse affermare che, anche se non è certo che ci sia del merito a raggiungere determinati risultati in condizioni di privilegio, si potrebbe però pur sempre riconoscere e premiare l’impegno di chi ha saputo mettere a frutto il talento consegnatogli gratuitamente dalla sorte o dalla grazia divina. Si potrebbe arrivare a teorizzare una meritocrazia dell’impegno.

Siamo certi che almeno l’impegno (visto come capacità di concentrare, anche con sacrificio, i propri sforzi per raggiungere un risultato degno di riconoscimento) sia il frutto autonomo di una nostra scelta?
Non sarà anche l’impegno frutto del nostro peculiare DNA, dell’educazione che abbiamo ricevuto nel nostro contesto familiare e sociale?
La maggior parte di noi conosce ragazzi capaci tranquillamente di impegnarsi in una attività e altri molto meno capaci. Se poi andiamo ad approfondire il loro contesto familiare e sociale di questi ultimi, ci rendiamo conto che è difficile per loro acquisire capacità di impegno e di sacrificio se, intorno a loro, nessuno li sprona in questa direzione o ha dato loro un esempio di vita significativo in tal senso.

Ma allora, se il merito è frutto in maggior parte della sorte o di un dono di Dio, che senso ha parlare di meritocrazia e della necessità di riconoscere i più meritevoli? Non è meglio, se si vuol essere realisti e, allo stesso tempo, equi, rinunciare ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base del merito?


Parte 3

Che succede se rinunciamo al merito?

Rinunciare ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base di un merito che si riconosce esistente altro non vuol dire che passare da una forma di giustizia distributiva che attribuisca a ciascuno secondo i suoi meriti (tenendo conto di alcuni trattamenti minimi non comprimibili) ad un'altra che attribuisca a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Nessuno, in migliaia di anni di storia del genere umano, è riuscito nell’applicare integralmente, in un contesto di rispetto della libertà personale, il secondo criterio se non all’interno di singole piccole comunità o sette ad alta e condivisa tensione ideale.
Il criterio si è rivelato inapplicabile e dissolto nella misura in cui la dimensione di queste comunità è cresciuta, o che la tensione ideale sia fortemente diminuita.
Vuol forse dire che qualche problema di realismo e di compatibilità esiste ed è insuperabile?

Ma la rinuncia ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base di un merito porrebbe problemi anche di normale carattere pratico.
Come eserciteremmo, in una democrazia parlamentare, in una libera associazione, in un condominio, il nostro diritto di voto per scegliere una persona per un incarico? Dovremmo pur sempre valutare i comportamenti e le capacità dei singoli candidati e scegliere quella persona che, a nostro parere,… meriterebbe il nostro voto! Magari le daremmo il nostro voto sulla base dei criteri più disparati (l’età, il livello di istruzione, il genere, il colore dei capelli, il ceto, la residenza…) ma, in ogni caso, dovremmo darle una preferenza e decidere sul perché merita la mia preferenza rispetto ad un’altra persona!

Non vorrei essere semplicistico ma mi sembra che la soppressione tout court del “merito” come criterio di valutazione non sia realisticamente possibile.
Diversa è la soluzione sul come valutare il merito, su quali criteri utilizzare. Come già accennato in precedenza, il reale merito dovrebbe essere valutato tenendo conto di vari fattori quali la competenza personale, l’impegno individuale, il contributo al bene comune, l’importanza del lavoro in rapporto al tempo impiegato, non solo pertanto di fattori solo finanziari quali il contributo al profitto o alla crescita economica.
Solo in una ottica così allargata diventerebbe possibile avviare una concreta e giusta politica di riconoscimento del merito.
Questa ottica postula necessariamente un discernimento serio e il più possibile oggettivo e condiviso.
Se la valutazione personale non appare basata su dati oggettivi e misurabili nonché effettuata senza una sufficiente condivisione, diventa inevitabile che possa venire contestata da chi non si ritenga (magari a torto) inferiore a colui il quale è stato riconosciuto un merito maggiore.
A livello socio-politico certi fenomeni populistici vanno proprio ascritti a questa motivazione, la sensazione di essere stati trattati ingiustamente per una non corretta valutazione del merito personale.
Più sono trasparenti e pubblici sia i criteri per la valutazione del merito sia gli strumenti di misurazione dello stesso, più diventa difficile contestare le valutazione e i conseguenti riconoscimenti (fermo restando che l’unanimità non si potrà mai verificare).

Per chi vorrà approfondire l’argomento appena accettato in queste considerazioni, potrà leggere con profitto:

1.     Carlo Cottarelli – All’inferno e ritorno – Feltrinelli 2021

2.     Michael J. Sandel – La tirannia del merito – Feltrinelli 2021

Luca Ricolfi - La rivoluzione del merito - Rizzoli 2023

 

Roma 20 marzo 2023

lunedì 23 gennaio 2023

Pillole sulla vecchiaia

 


Invecchiare è naturale, ma non è facile, anche perché chi è diventato vecchio prima di te non ti dice tutto quello che succede con l’avanzare dell’età, oppure ti dice cose scontate, risapute, senza avvertirti di cose importanti, ma che vengono ripetutamente sottovalutate.

Aspetti noti


Si sa che la mente non riesce a trattenere tutto nella memoria sicché accade che si ricordino facilmente gli eventi e le persone più lontane nel tempo e che lentamente (ma progressivamente) si attenuino i ricordi di eventi e persone più recenti.
Anzi, per essere più precisi, la emozione che hai provato in quegli eventi (vicini o lontani che siano) gioca spesso un ruolo più rilevante del tempo trascorso. Eventi legati a nascite e a morti importanti, a forti innamoramenti, al matrimonio, a trasferimenti da un luogo all’altro, a promozioni (o rimozioni) rilevanti nella carriera professionale sono realtà che rimangono sempre presenti e impresse nella mente proprio in virtù del grosso impegno emotivo che abbiamo investito in esse.

Si sa anche che la forza fisica diminuisce come anche l’energia psicologica necessaria per affrontare le difficoltà.
In effetti la regolarità nel fare esercizi fisici e nel continuare a cimentarsi in impegni personali di carattere professionale e sociale permette di rallentare il degrado fisico e psicologico, purtroppo non di fermarlo del tutto.
E’ triste accettare che diventa sempre più difficile svolgere ruoli o fare attività che prima svolgevamo e facevamo (bene…) senza fatica, mentre ora ci richiedono sempre più impegno psicofisico e non sempre riusciamo a portare a termine nel modo che vorremmo.
Spesso neppure ci accorgeremmo di tale degrado fisico o psicologico se non avvenissero fatti che ci mettessero di fronte alla cruda realtà.
Come quando mi accadde di scendere velocemente le scale di un ospesdale insieme a mio nipote di 30 anni più giovane; io pensavo di scendere velocemente (e non sarei sicuramente riuscito ad accelerare la mia velocità…) ma vedevo mio nipote allontanarsi sempre più.
Oppure quando io, qualche tempo fa, da vecchio bravo giocatore di ping pong scattavo (o meglio pensavo di scattare) come mio solito per controbattere la pallina e, quando vi arrivavo, regolarmente la stessa era già passata.
O quando, da anziani, camminando velocemente (…), si inciampa e ci si trova a terra malconci senza avere avuto il tempo di mettere le mani avanti e ci chiediamo come sia potuto accadere.
E sì, non solo i muscoli diventano meno robusti e scattanti, ma anche i riflessi! e a questo non si pensa mai… Il degrado muscolare si può rallentare con l’esercizio fisico, quello psicologico con gli esercizi mentali meneonici ma, a quel che so, contro il degrado nei riflessi c’è ben poco da fare.

Si sa pure che anche i sensi lentamente degradano, la vista (con la necessità di usare occhiali con lenti correttive), l’udito (con l’opportunità, in alcuni casi, di apparecchi di rinforzo), il tatto (avete fatto caso che le punte delle dita diventano più sensibili al freddo e meno sensibili nel toccare ed afferrare i fogli di carta e girare le pagine di un libro?), il gusto (la salivazione diminuisce…), l’olfatto (la sensibilità verso gli odori diminuisce).
Sono degradi che si avvertono poco perché avvengono con molta lentezza ma avvengono inesorabilmente e, prima i poi, arriva un momento nel quale ce se ne accorge con chiarezza.

Si sa ancora che una delle caratteristiche della vecchiaia è il ricordare con piacere i tempi passati e confermarsi sempre più nella convinzione che fossero migliori di quelli correnti (dimostrativa è la frase “ai miei tempi…”).
E questo sentimento della nostalgia e del rimpianto per “quando le cose andavano bene” (e il più delle volte non è vero) porta gli anziani ad un atteggiamento di costante incomprensione e di rimprovero verso le giovani generazioni.
Quale la causa vera di questo fenomeno, non confortato da prove reali? A mio parere la presenza di paradigmi mentali superati e obsoleti. Ma ne parleremo più avanti.

Oltre alla labilità mnemonica e mentale, al degrado fisico, psicologico e sensoriale, il vivere in una frequente nostalgia del passato, si potrebbero aggiungere altri aspetti già noti dell’invecchiamento (e ciascuno potrebbe aggiungerne altri), ma è forse giunto il momento per concentrarsi su quelli meno noti.


Aspetti meno noti

Uno di questi contraddice in pieno e sorprendentemente una delle convinzioni più frequenti e diffuse, ovvero quella che i vecchi abbiano più pazienza dei giovani.
Non è vero! La mia esperienza personale, confortata da quella di molti miei coetanei, è che la pazienza non aumenta, bensì diminuisce con l’età.
Ciò che prima veniva sopportato se non con facilità almeno con serenità (un comportamento altrui non adeguato, un ritardo burocratico o personale, un parlare sgrammaticato, un degrado sociale intorno a noi..) ora viene sopportato con molta maggiore difficoltà se non addirittura non sopportato e può  innescare imprevedibili sentimenti di rabbia e di rivalsa.
Mi sono chiesto da che cosa potesse dipendere questa insufficienza di pazienza.
Ho ipotizzato che tale insufficienza potesse dipendere dal minor tempo che una persona anziana inconsciamente (ma realmente) sente di avere davanti a sé, rispetto a quello che sente di avere un giovane.
Il giovane può permettersi di perdere tempo, l’anziano vorrebbe perderne meno possibile perché percepisce di averne sempre meno a disposizione…
Successivamente ho riflettuto che non era il passare inutile del tempo che inquieta l’anziano, ciò che maggiormente lo inquieta è che le cose accadano e che i comportamenti altrui si tengano in maniera molto diversa dalle sue previsioni.


Paradigmi mentali

E qui entrano in gioco i nostri paradigmi mentali.
Tutti noi nella nostra infanzia e adolescenza abbiamo affrontato e superato difficoltà, risolto problemi di vita corrente, deciso le nostre scelte operative, modellando i nostri comportamenti sulla base di valori di orientamento, di criteri di valutazione, di schemi di giudizio (e talvolta di pregiudizio!) appresi nel nostro ambiente familiare, scolastico, sociale e introiettati dentro di noi una volta verificata la loro efficacia.
L’insieme di questi valori, criteri, schemi di giustizia organicamente collegati è ciò che intendo quanto parlo di “paradigmi mentali”.
Tutti i comportamenti della nostra vita, dai più semplici (sedersi, camminare, scendere le scale) ai più complessi (lavorare con professionalità, studiare, giudicare) diventano più semplici da porre in essere nella misura in cui non dobbiamo ogni volta reimparare ma possiamo ricorrere, parzialmente o totalmente ai nostri paradigmi mentali.
Si tratta in pratica di seguire comode scorciatoie ben note piuttosto che dovere costantemente rivedere la mappa stradale e trovare la via migliore.
Senza l’aiuto dei nostri paradigmi mentali la nostra esistenza sarebbe molto più faticosa!
Peraltro essi, man mano che la vita avanza e che la società cambia, rischiano di trasformarsi da comode scorciatoie in difficili percorsi ad ostacoli. E questa trasformazione da scorciatoie che velocizzano il percorso a percorsi ad ostacoli che lo rallentano (o lo bloccano…) acquista sempre maggiore spessore quanto più avanza il cambiamento nella società e, di conseguenza, nella nostra vita.
Molti sociologi di rilievo si sono cimentati nel cercare le spiegazioni dei mutamenti sociali, ne sono state offerte molteplici, alcune convincenti, altre meno, ma una cosa è indiscutibile: la società cambia e cambia in maniera sempre più veloce!
La “società liquida”[1], descritta da Z. Bauman come quella società nella quale l’uomo non fa a tempo a capire alcune realtà sociali che le stesse sono già cambiate, sicuramente non è l’ultimo stadio di questo incessante mutamento.
Non c’è niente da fare. I nostri “paradigmi mentali” molto efficienti ed efficaci nella nostra ,giovinezza per orientare i nostri pensieri e comportamenti, restano strettamente legati alla società per la quale erano stati costruiti.
Ora è necessario e, aggiungerei, vitale, adeguarli e, soprattutto,  adeguarli sempre più in fretta.
D’altra parte però dobbiamo ammettere che siamo sempre portati a porre la nostra fiducia e la nostra sicurezza negli schemi mentali acquisiti e collaudati nella nostra giovinezza e successivamente consolidati durante il susseguirsi degli anni.
Dovremmo cambiare questi schemi di rifermento, questi “paradigmi” e adeguarli alla realtà sociale che cambia, ma non riusciamo a farlo perché sentiamo di stare per avventurarci per strade ignote che rischiamo di mettere a repentaglio o addirittura farci perdere la nostra serena (ma insufficiente) sicurezza.
Forse ora è più facile capire quale sia la motivazione di fondo della costante incomprensione degli anziani verso i più giovani, oppure quella continua carenza di pazienza che avvertiamo ci caratterizza.
Si tratta in fondo, di un conflitto fra, da una parte i nostri paradigmi superati e dall’altra una realtà profondamente mutata e l’esistenza di paradigmi profondamente diversi dai nostri ma stretta conseguenza dei mutamenti sociali.
Se non vogliamo passare il resto dei nostri anni a borbottare e a lamentarci (in pratica a non vivere) non resta altra soluzione praticabile che acquisire nuovi paradigmi mentali.
Ma come abbandonare totalmente o parzialmente i precedenti?
Di seguito la mia esperienza in proposito.

Quando ero poco più che ventenne e avevo in animo di fare la mia tesi di laurea sui valori della democrazia, mi capitò di leggere “I fondamenti della democrazia” di Hans Kelsen[2] .
Kelsen, giurista e sociologo di rilievo mondiale, appartenente alla Scuola di Vienna, sostiene, in questo libro, che il fondamento della democrazia (o, per meglio chiamarla, della liberaldemocrazia) è la cultura del “dubbio”.
Se non ho dubbi, argomentava Kelsen, se penso di avere ragione, di possedere pertanto la “verità” su un determinato argomento, se penso, di conseguenza, che la mia verità non possa che essere sinonimo di bene sia per me che per gli altri (altrimenti non sarebbe “verità”…), quali remore dovrei avere non solo a proporla, ma addirittura ad imporla agli altri... per il loro bene?
Secondo Kelsen solo se mi pongo in un atteggiamento di dubbio, sono capace di presentare la mia opinione all’altro, di ascoltare serenamente la sua e, in uno spirito di ascolto reciproco ( di “dialogo”…), di camminare insieme verso la ricerca della verità.
Nel corso della mia vita talvolta ho avuto la forza (perché non è facile…) di assumere questa cultura del dubbio e mi sono chiesto, in certe situazioni in cui avevo espresso una opinione o adottato un comportamento che altre volte era stato giusto: “se invece avessi torto?”, “se quello che dice il mio interlocutore fosse vero?”, “non è che sto insistendo a seguire la mia idea per ostinazione o, peggio, per pigrizia mentale?”.
Ebbene, quando ho avuto questa forza sovente mi è capitato di cambiare la mia opinione, di accettare in tutto o, più spesso, parzialmente, quella del mio interlocutore.
Avere questa cultura del dubbio può essere il primo passo per l’acquisizione di una maggiore libertà di giudizio rispetto alle informazioni che, da una parte, cerchiamo e troviamo autonomamente dall’altra che ci piovono addosso dall’esterno.
Questo è il primo passo, ma ne occorrono altri.

Una volta acquisita una sana cultura del dubbio, il passo successivo per combattere i paradigmi mentali esistenti consiste nel saper ragionare correttamente e soprattutto nel confrontarsi costantemente con altri.
Leggere molto, leggere, con mente aperta, sia testi concordi con le nostre opinioni che testi discordanti e riportanti opinioni diverse, leggere attentamente notando come le persone articolino e motivino i loro ragionamenti, leggere acquisendo un ampio bagaglio informativo, permette di ampliare non solo le nostre informazioni ma soprattutto la nostra capacità di ragionare ed esprimere giudizi corretti.
Ma non è ancora sufficiente.

Un altro e ultimo passo deve essere quello di confrontare le nostre opinioni, i nostri giudizi con quelli di persone che stimiamo (e che magari hanno opinioni e giudizi diversi) in un dialogo in cui la serenità, la sincerità, la assertività e, soprattutto, la voglia di ascoltarsi reciprocamente rappresentino caratteristiche comuni.

Coltivare sempre il dubbio, leggere (o vedere…) acquisendo il maggior numero possibile di informazioni, classificare, collegare e articolare queste ultime sulla base di ragionamenti corretti, mettere alla prova le nostre conclusioni in confronto e dialogo con amici che partono da conclusioni diverse, tutto ciò dovrebbe permettere di raggiungere un certo livello di capacità mentale e intellettiva sufficiente per riconoscere una gran parte delle informazioni false e fuorvianti e per limitare o superare del tutto l’influenza dei nostri paradigmi mentali e della conseguenti nostre distorsioni cognitive.

Ultima virtù da coltivare è l’umiltà, ovvero la capacità di essere consapevole che, nonostante tutti i tentativi che possiamo mettere in atto, la nostra imperfezione innata di essere umani non ci consentirà mai di essere sicuri di essere completamente liberi da potenziali manipolazioni (di qualsiasi tipo esse siano).

Ma bastano la cultura del dubbio, la lettura intensa e ragionata, il confronto con gli altri, la ricerca dell’umiltà, a superare i nostri paradigmi mentali e a vivere con libertà mentale il presente e il futuro davanti a noi?
No, se, nel contempo non affrontiamo la nostra vita con fiducia, con positività, credendo fermamente che, nonostante tutto quello che ci appare intorno di negativo, il positivo è sempre più grande, anche se così non ci sembra a prima vista.
Ed è su questo aspetto che la Fede (fiducia in un Essere-Amore) può aiutare.



[1] Z. Bauman – Vita liquida – 2008, Laterza editore

[2] H. Kelsen – I fondamenti della democrazia – Il Mulino 1966