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mercoledì 23 ottobre 2024

Dalla pari dignità umana al pari diritto allo sviluppo delle singole persone e dei popoli (tratto dalla "Fratelli tutti" di Francesco)

 

In tema di Dottrina Sociale della Chiesa (par. 118-127 della “Fratelli tutti”)


Rileggendo con calma l'enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco,e questi (pochi) paragrafi mi sono parsi stimolanti, se non addirittura provocatori, verso quella che Francesco definisce una "altra logica". N.B.: le sottolineature e i grassetti sono frutto di una mia scelta. *****************************************************************************

Riproporre la funzione sociale della proprietà

118. Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti. Di conseguenza, come comunità siamo tenuti a garantire che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità adeguate al suo sviluppo integrale.

119. Nei primi secoli della fede cristiana, diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro riflessione sulla destinazione comune dei beni creati. Ciò conduceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che «non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro». Come pure queste parole di San Gregorio Magno: «Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene».

120. Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». In questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata».
Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale», è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI.
Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica.

Diritti senza frontiere

121. Nessuno dunque può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi. Così come è inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto di essere donna, è altrettanto inaccettabile che il luogo di nascita o di residenza già di per sé determini minori opportunità di vita degna e di sviluppo.

122. Lo sviluppo non dev’essere orientato all’accumulazione crescente di pochi, bensì deve assicurare «i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli». Il diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di sopra del rispetto dell’ambiente, poiché «chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti».

123. L’attività degli imprenditori effettivamente «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti». Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo, e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso.

Diritti dei popoli

124. La certezza della destinazione comune dei beni della terra richiede oggi che essa sia applicata anche ai Paesi, ai loro territori e alle loro risorse. Se lo guardiamo non solo a partire dalla legittimità della proprietà privata e dei diritti dei cittadini di una determinata nazione, ma anche a partire dal primo principio della destinazione comune dei beni, allora possiamo dire che ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un altro luogo. Infatti, come hanno insegnato i Vescovi degli Stati Uniti, vi sono diritti fondamentali che «precedono qualunque società perché derivano dalla dignità conferita ad ogni persona in quanto creata da Dio».

125. Ciò inoltre presuppone un altro modo di intendere le relazioni e l’interscambio tra i Paesi.
Se ogni persona ha una dignità inalienabile, se ogni essere umano è mio fratello o mia sorella, e se veramente il mondo è di tutti, non importa se qualcuno è nato qui o se vive fuori dai confini del proprio Paese.
Anche la mia Nazione è corresponsabile del suo sviluppo, benché possa adempiere questa responsabilità in diversi modi: accogliendolo generosamente quando ne abbia un bisogno inderogabile, promuovendolo nella sua stessa terra, non usufruendo né svuotando di risorse naturali Paesi interi favorendo sistemi corrotti che impediscono lo sviluppo degno dei popoli. Questo, che vale per le nazioni, si applica alle diverse regioni di ogni Paese, tra le quali si verificano spesso gravi sperequazioni.
Ma l’incapacità di riconoscere l’uguale dignità umana a volte fa sì che le regioni più sviluppate di certi Paesi aspirino a liberarsi della “zavorra” delle regioni più povere per aumentare ancora di più il loro livello di consumo.

126. Parliamo di una nuova rete nelle relazioni internazionali, perché non c’è modo di risolvere i gravi problemi del mondo ragionando solo in termini di aiuto reciproco tra individui o piccoli gruppi. Ricordiamo che «l’inequità non colpisce solo gli individui, ma Paesi interi, e obbliga a pensare ad un’etica delle relazioni internazionali». E la giustizia esige di riconoscere e rispettare non solo i diritti individuali, ma anche i diritti sociali e i diritti dei popoli. Quanto stiamo affermando implica che si assicuri il «fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza ed al progresso», che a volte risulta fortemente ostacolato dalla pressione derivante dal debito estero. Il pagamento del debito in molti casi non solo non favorisce lo sviluppo bensì lo limita e lo condiziona fortemente. Benché si mantenga il principio che ogni debito legittimamente contratto dev’essere saldato, il modo di adempiere questo dovere, che molti Paesi poveri hanno nei confronti dei Paesi ricchi, non deve portare a compromettere la loro sussistenza e la loro crescita.

127. Senza dubbio, si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità. È possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne. Perché la pace reale e duratura è possibile solo «a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana».

domenica 28 maggio 2023

Due meditazioni (su Pentecoste e su Maria) che spiazzano.



Vana credulità
 
di

Alberto Maggi 

Il cammino e la crescita del credente verso una sempre maggiore consapevolezza della realtà divina che lo circonda e lo abita non consistono certamente nel “demolire, ma nel portare a compimento” la sua adesione a Gesù e al suo messaggio (Mt 5,17). Perché questo diventi realtà occorre continuamente mettere il vino nuovo della buona notizia dentro otri nuovi, “altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti” (Mt 5,17). “Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente” (Ef 4,23) invita Paolo, e questo rinnovarsi non significa essere fuori dalla Chiesa ma, al contrario, esserle fedeli e seguirla nei suoi insegnamenti. Ma c’è un mese all’anno in cui questo rinnovarsi sembra come svanire. Per tutto maggio, il tempo tradizionalmente dedicato alla Madonna, si riesumano tradizioni, devozioni, culti, processioni, preghiere che si sperava ormai poste sotto naftalina, collocate con il dovuto riverente rispetto nel museo delle religiosità appartenenti al passato e incompatibili con la spiritualità della Chiesa odierna. Queste devozioni, ormai obsolete, hanno avuto origine in una cultura patriarcale, ormai definitivamente tramontata, quando tra genitori e figli non vi erano i rapporti attuali improntati sull’affetto. Il padre rappresentava l’autorità, la severità e il castigo e la sua era una presenza che incuteva timore; la madre era l’amore e la tenerezza, colei che si frapponeva tra il marito e il figlio sia per rivolgere richieste che questi non avrebbe mai osato fare direttamente al padre, sia per parare le punizioni del genitore. Questa cultura patriarcale fu proiettata nella sfera divina, dove Dio è il Padre di cui si ha timore e che non si osa affrontare direttamente. Soprattutto è colui che castiga (“Ho meritato i vostri castighi”). In questa prospettiva Maria svolgeva la funzione della madre sia per accogliere le richieste e i bisogni degli uomini, sia per proteggerli dal castigo divino. Così, in breve, da creatura fu trasformata in un sostituto della divinità, persino più sicura e affidabile di Dio. Ora fortunatamente la società è profondamente cambiata: i figli si rivolgono direttamente al papà senza alcun timore e la mamma non deve più esercitare la sua funzione di mediatrice e protettrice. Per questo non è possibile seguitare a rivolgersi alla Vergine usando queste formule che risentono pesantemente di una teologia e di un linguaggio ormai superati, che non possono più esprimere il sentimento di una Chiesa sempre in cammino e mai immobile. Nei vangeli l’unico soccorritore è il paraclito (Gv 14,16), lo Spirito di verità che non ha bisogno di essere invocato e tantomeno supplicato in quanto la sua presenza è garantita sempre, non solo nel momento del bisogno, come segno della protezione divina. 2 Quale Maria? Purtroppo, per un malinteso teologico, in passato Maria è stata presentata partendo dal compimento in lei del disegno di Dio. Da questa pienezza si è poi considerato in maniera retrospettiva ogni momento della sua esistenza, trasformandola così in una creatura privilegiata che già all’inizio della sua esistenza era più che perfetta, pienamente cosciente di tutto quel che l’aspettava nella vita. I vangeli non partono dalla compiutezza di Maria ma dai suoi inizi, difficili, drammatici, travagliati. Gli evangelisti non esitano a presentare una madre che non solo non comprende il figlio (Lc 2,18-19. 33), ma che addirittura si merita da lui un aspro rimprovero (Lc 2,49). Marco, l’evangelista più antico, la descrive addirittura unita al clan familiare deciso a catturare Gesù ritenuto ormai in preda alla sua follia (“Allora i suoi, sentito questo, uscirono per impadronirsi di lui; poiché dicevano: È fuori di sé”, Mc 3,21). Ma lei, a differenza degli altri, anche se non comprende l’agire di Gesù non lo rifiuta e riflette (Lc 2,50-51). Cresciuta nella pratica della Legge, ritenuta unica espressione della volontà di Dio, Maria si apre gradualmente alla parola del Figlio, che come una spada le attraverserà la vita, costringendola a scelte tanto drammatiche quanto coraggiose (Lc 2,35). Come all’annuncio dell’angelo la giovanetta di Nazaret si era detta disposta a compiere la volontà del Signore e a diventare madre del “Figlio dell’Altissimo” (Lc 1,32), ora Maria accoglie la parola del Figlio che la condurrà a divenire sua discepola: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,35). La fedeltà al cammino della Chiesa nella conoscenza sempre più grande della figura di Maria come gli evangelisti l’hanno voluta presentare, impone pertanto di rivedere modi e formule delle devozioni. Per questo la Chiesa invita “i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione, come pure dalla grettezza di mente nel considerare la singolare dignità della Madre di Dio” (Lumen Gentium, 67), e Paolo VI mise in guardia dalla “vana credulità, che al serio impegno sostituisce il facile affidamento a pratiche solo esteriori” (Marialis cultus, 38). È pertanto più che mai attuale il dovere di rivedere quelle forme che, “soggette all’usura del tempo, appaiono bisognose di un rinnovamento che permetta di sostituire in esse gli elementi caduchi, di dar valore a quelli perenni…” (MC 24). Maria, la temeraria audace galilea antimonarchica che osa affermare che il suo Signore è quello che “ha rovesciato i potenti dai troni” (Lc 1,52) in casa dei suoi parenti della Giudea, regione notoriamente filomonarchica, per un paradosso della storia è stata poi raffigurata su troni sempre più maestosi. I devoti, pur chiamandola “la mamma celeste”, non le si rivolgono come a una madre, ma la supplicano prostrati, come fanno i sudditi per essere ascoltati dai potenti e richiedere la loro protezione. Di fronte ai rischi che la vita comporta, un credente maturo non cerca di mettersi sotto la protezione della Madonna, ma nelle avversità si rafforza e diventa sempre più capace di camminare con le sue gambe. È questo che lo rende una persona adulta, proprio come Maria di Nazaret, l’intrepida donna dei vangeli che invita a mettere in pratica il messaggio di Gesù (“Tutto quello che vi dice, fatelo”, Gv 2,5), perché lei per prima ha creduto che “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37). Pertanto Maria non è la mamma-chioccia sotto il cui manto cercare protezione, ma, come intuirono molti Padri della Chiesa, da Atanasio a Efrem e ad Agostino, è una sorella nella fede, la “vera nostra sorella”, come scrisse Paolo VI (MC 56), la donna coraggiosa che fieramente e a testa alta è andata avanti nella sequela del Cristo, facendosi compagna di viaggio di ogni credente che cammina verso il raggiungimento della pienezza della vita. Per questo la vera devozione a Maria non consiste “in una vana credulità, ma procede dalla fede vera, dalla quale siamo spinti all’imitazione delle sue virtù” (LG 67). E la virtù per eccellenza, quella che ha reso grande la Madonna, è la fede con la quale ha accolto e vissuto il 3 progetto che il Padre ha su ogni creatura, cioè quello di “essere santi e immacolati” (Ef 1,4). In lei il Creatore non ha trovato ostacoli e ha realizzato così il suo disegno d’amore. Questo cammino di Maria verso la pienezza della volontà di Dio, se è stato indubbiamente immediato nell’accoglienza (“Eccomi! Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”, Lc 1,38), ha poi richiesto tempo per la sua realizzazione. Un itinerario, il suo, difficile, irto di ostacoli e sofferenze, che però ha saputo percorrere crescendo e maturando nel suo divenire discepola perfetta del Cristo, disposta a condividerne la sorte (“Stavano presso la croce di Gesù sua madre…”, Gv 19,25). E Maria si è posta coraggiosamente a fianco del giustiziato contro chi lo ha crocifisso, schierandosi così per sempre a favore degli oppressi, dei poveri, dei disprezzati e mai dei potenti che opprimono

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Pentecoste, festa difficile 
di
Don Tonino Bello
 

…… la Pentecoste è una festa difficile. Ma non perché lo Spirito Santo anche per molti battezzati e cresimati è un illustre sconosciuto. È difficile, perché provoca l'uomo a liberarsi dai suoi complessi. Tre soprattutto, che a me sembra di poter individuare così: Il complesso dell'ostrica. Siamo troppo attaccati allo scoglio. Alle nostre sicurezze. Alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l'intimità del nido. Ci terrorizza l'idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci sul mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno. Di qui, la predilezione per la ripetitività, l'atrofia per l'avventura, il calo della fantasia. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama alla novità, ci invita al cambio, ci stimola a ricrearci. C'è poi il complesso dell'una tantum. È difficile per noi rimanere sulla corda, camminare sui cornicioni, sottoporci alla conversione permanente. Amiamo pagare una volta per tutte. Preferiamo correre soltanto per un tratto di strada. Ma poi, appena trovata una piazzola libera, ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini, dei nostri comodi. E diventiamo borghesi. Il cammino come costume ci terrorizza. Il sottoporci alla costanza di una revisione critica ci sgomenta. Affrontare il rischio di una itineranza faticosa e imprevedibile ci rattrista. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama a lasciare il sedentarismo comodo dei nostri parcheggi, per metterci sulla strada subendone i pericoli. Ci obbliga a pagare, senza comodità forfettarie, il prezzo delle piccole numerosissime rate di un impegno duro, scomodo, ma rinnovatore. E c'è, infine, il complesso della serialità. Benché si dica il contrario, noi oggi amiamo le cose costruite in serie. Gli uomini fatti in serie. I gesti promossi in serie. Viviamo la tragedia dello standard, l'esasperazione dello schema, l'asfissia dell'etichetta. C'è un livellamento che fa paura. L 'originalità insospettisce. L 'estro provoca scetticismo. I colpi di genio intimoriscono. Chi non è inquadrato viene visto con diffidenza. Chi non si omogeneizza col sistema non merita credibilità. Di qui la crisi della protesta nei giovani e l'estinguersi della ribellione. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama all'accettazione del pluralismo, al rispetto della molteplicità, al rifiuto degli integralismi, alla gioia di intravedere che lui unifica e compone le ricchezze della diversità. La Pentecoste vi metta nel cuore una grande nostalgia del futuro


domenica 17 ottobre 2021

La Chiesa e il "sonno dogmatico"


 La Chiesa e il sonno dogmatico

Chi ha studiato un po’ di filosofia certo si ricorda il fatto che Immanuel Kant avesse dichiarato di dover ringraziare David Hume per averlo svegliato dal “sonno dogmatico”.
Con tale espressione intendeva riaffermare la sua capacità critica rispetto ai “dogmi” espressi dalla precedente dottrina filosofica, superando il particolare il dogma della legge di causalità.

Svegliarsi dal sonno dogmatico significa infatti superare un paradigma, largamente diffuso, di comprensione dei fatti e di giudizio degli stessi per sostituirlo con un altro, ampiamente diverso ma con una capacità di analisi e di azione ben più efficace.

Mi è venuto da pensare a questo mentre riflettevo sull’azione di rinnovamento ecclesiale intrapresa e, ora, quasi accelerata da Papa Francesco.

La Chiesa cattolica si è concentrata per secoli sul modo migliore di creare un sistema completo e coerente intorno alla Buona Novella di Gesù.
I suoi Padri (Girolamo, Basilio ecc.), i suoi filosofi maggiori (Agostino, Tommaso), i loro eredi nel corso dei secoli hanno lentamente elaborato dei dogmi (Trinità, Incarnazione, Verginità, Immacolata, Assunzione….) e da essi hanno tratto una antropologia “cristiana” e criteri di comportamento netti e chiari (chi non ricorda i recenti “valori non negoziabili” proclamati da Benedetto XVI?).
Su questo sistema dogmatico è ben chiara l’influenza originaria della cultura ellenica e romana, si può dire con serietà che il cristianesimo che finora abbiamo conosciuto è frutto dell’incontro fra la Buona Novella e la cultura greco-romana, frutto che ha interessato sia la Chiesa cristiana di Occidente e di Oriente sia le Chiese (o comunità che dir si voglia) protestanti.
L’apice di questa sistematizzazione avvenne nel 1870, nell’ambito del Concilio Vativano I che proclamò l’infallibilità del Papa.
Nemmeno 100 anni dopo il Concilio Vaticano II iniziò l’opera di revisione di questo sistema dogmatico.
La visione della Chiesa come Popolo di Dio in cammino e non come societas minus quam perfecta, il riconoscimento del principio della libertà religiosa, l’ecumenismo, il riconoscimento che anche la Chiesa debba imparare dal mondo, il nuovo ruolo assegnato ai fedeli laici il riconoscimento dell’autonomia delle realtà temporali, il nuovo corso della liturgia con la maggior partecipazione del Popolo di Dio, rappresentano gli elementi fondanti per l’elaborazione di una nuova visione.

Si rimaneva peraltro pur sempre ancorati al precedente paradigma, basato sulla cultura greco-romana e su una costruzione dogmatica.
Si trattava di un rinnovamento senza cambiamento di paradigma, un rinnovamento consolidato durante il pontificato di Paolo VI, il Papa che aveva seguito la parte principale e la conclusione del cammino conciliare.
I successivi Papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI (l’influenza di Giovanni Paolo I è stata minima), spaventati dalla confusione che le novità conciliari stavano creando nei cattolici, hanno cercato di limitarle in ogni modo possibile. Di qui la riaffermazione del primato della gerarchia, l’elaborazione di un progetto culturale cristiano e di una antropologia cristiana, la precisazione di alcun valori non negoziabili.
Era pienamente ristabilito il metodo deduttivo di origine greco-romana: prima si fissano i dogmi, i principi teorici fondamentali e poi si stabiliscono, di conseguenza, i comportamenti da seguire.

Nel 2013 l’elezione di Francesco ha cambiato le carte in tavola.
Diversi fatti già parlavano chiaro all’atto delle elezione e subito dopo.
In primo luogo, fatto unico senza precedenti nella storia della Chiesa di Roma, la scelta di un gesuita (la Compagnia di Gesù ha quasi sempre rappresentato l’avanguardia teologica e pastorale del cattolicesimo) come Papa.
In secondo luogo la circostanza che il Cardinal Jorge Bergoglio, eletto Papa, abbia deciso di farsi chiamare con il nome, altamente rievocativo e profondamente significativo di Francesco.
Era evidente che la Chiesa di Roma stava svoltando. Ma in quale direzione?

Le prime prese di posizioni fornirono alcuni chiari indizi.
Nelle intervista concessa, nella settimana successiva alle elezioni, al Direttore di Civiltà cattolica, Francesco affermò con tanta serenità, ma con altrettanta forza, che la verità era un cammino, un qualcosa (o un Qualcuno?) che si scopre quando ci si pone in un aperto atteggiamento di relazione.
Era la chiara sconfessione di una concezione di verità come un insieme di concetti, di idee (diciamolo anche, di dogmi) già belli che pronti per l’uso, calati dall’altro e da accettare nella ubbidienza della fede.

Pochi mesi dopo veniva pubblicata l’Esortazione apostolica “Evangelii gaudium” nella quale Francesco esponeva quelle che sarebbero state le linee portanti del suo pontificato, che sarebbero state poi sviluppate, negli anni a seguire, in molteplici encicliche, discorsi, dichiarazioni:

1.    l’opzione preferenziale verso i poveri;

2.    una visione ecologica integrale che univa insieme l’attenzione all’essere umano con quella all’ambiente;

3.    la visione di una Chiesa, non asseragliata nelle istituzioni, ma “in uscita”, una Chiesa “ospedale di campo” per curare i mali dell’umanità;

4.    la riaffermazione dell’importanza del concetto di popolo, quale insieme di fedeli in possesso del “sensus fidei” e la lotta ad ogni clericalismo;

5.    il richiamo ad un comportamento coerente improntato alle virtù della sobrietà e della solidarietà;

6.    la visione del compito della Gerarchia come servizio piuttosto che come autorità;

7.    la lotta ad un sistema economico che, tramite le strutture di peccato, “scartava” gli esseri umani incapaci di adeguarsi ai bisogni della produzione;

8.    il primato dato alla misericordia, sempre e ovunque, più che al giudizio;

9.    l’enfasi sulla fratellanza universale e sulle differenze come fonte essenziale di ricchezze reciproche.

Si trattava di un completo cambio di paradigma, da una Chiesa attenta alla difesa dei dogmi e dei valori etici non negoziabili, ad una Chiesa attenta alle esigenze concrete di ogni uomo, a partire sa quelli più deboli e senza difesa.
Si sostituiva al metodo deduttivo (partire dai dogmi e dai principi per plasmare, sulla base di questi, la realtà sociale) il metodo induttivo ovvero leggere i “segni dei tempi” e farsi interrogare da essi per trovare soluzioni ai problemi umani adeguate e non in contrasto con il messaggio evangelico.
Era, anzi è, una vera sveglia dal sonno dogmatico nel quale per secoli si era addormentato il cattolicesimo.
Dopo Francesco di Assisi, un altro Francesco prendeva l’iniziativa, con i gesti e con le parole di dare una scossa ai fedeli cristiani.

Saremo noi, aspiranti cattolici in grado di accogliere l’invito di Francesco a svegliarci dal sonno dogmatico, ad accettare questo cambio di paradigma e questa svolta e ad assumere stili di vita conseguenti e coerenti?
Se non saremo noi, chi verrà dall’oriente e dall’occidente a prendere il nostro posto, come dice Gesù?

 

Roma 17/10/2021

giovedì 30 settembre 2021

Farò qui tre capanne...



Dal Vangelo di Matteo (17,1-9):
1 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6All'udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.

9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell'uomo non sia risorto dai morti».

L’episodio della Trasfigurazione è uno dei più importanti del Vangelo e uno dei più significativi per la storia personale di tutti noi.
Gesù apre uno squarcio in quella che è la realtà quotidiana (famiglia, lavoro, amicizie…) e ci offre un’anteprima del futuro che può aspettarci, una anteprima del suo Corpo dopo la Resurrezione, una anteprima di una immensa luce che quasi ci abbaglia.

Ci sono “momenti di luce” che attraversano la vita di tutti noi.
Per i credenti sono esperienze spirituali che permettono loro un accesso più diretto a Dio.
Per i non credenti sono esperienze, di carattere mistico seppure non religioso, che li avvertono di un loro maggiore avvicinamento a quello che un agnostico laico come Norberto Bobbio chiamava il “mistero” che circonda l’universo.

Sono comunque momenti meravigliosi che tutti quelli che li passano vorrebbero che non finissero mai.
In questo senso sono quanto mai significative le parole di Pietro “«Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Che c’è di più bello che essere e permanere vicini all’origine e al fine (non alla fine…) della vita!
Mi vengono in mente i momenti di luce che anche io ho passato. Uno in particolare mi si aprì nel 1999, durante il mio 5^ pellegrinaggio in Terrasanta, proprio sul Monte Tabor laddove, secondo la tradizione, avvenne la Trasfigurazione di Gesù. Una esperienza meravigliosa che tutti noi, comunità di amici vivemmo insieme.

La voce di Gesù sveglia i discepoli (e sveglia noi…) dal sogno ad occhi aperti (“Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi…»”) e ci invita a scendere dal monte, a ricordare l’esperienza vissuta e ributtarci nelle realtà di tutti i giorni.
E’ un invito rivolto a tutte le persone, a prescindere dalla loro convinzioni religiose.
Sia per i credenti che per i non credenti si tratta di fare tesoro di quei momenti di luminosa esperienza passata e di trasformare (trasfigurare?) le realtà quotidiane alla luce di quanto si è vissuto o compreso / percepito in quei momenti.  

Possiamo però tutti testimoniare che quell’entusiasmo, quella determinazione, nella dura lotta della vita di tutti i giorni, nel confronto con gli, altri, nelle delusioni, nelle offese arrecate e ricevute, nell’ingiustizia diffusa, durano poco.
Ci ritroviamo ben presto ad arrancare, ad avanzare a fatica se non ad arretrare e ci chiediamo come fare per ritrovare a vivere l’esperienza luminosa trascorsa.

Per quanto mi riguarda, da aspirante credente non posso dare una risposta precisa ed esatta, solo riavvolgere la memoria e provare a ricordare qualche aspetto da annotare.

·      Particolarmente importante per me è la Lectio divina quotidiana mattutina, fondata sulla preghiera mirata e sull’ascolto metodico di come Gesù mi parla attraverso la Bibbia.
Per preghiera mirata intendo un colloquio con Dio-Trinità, con Maria e con i Santi che inizia con la lode e il ringraziamento per quanto già ricevuto e prosegue con orazioni di richiesta con specifiche intenzioni e per specifiche persone.
Poi passo a leggere un passo della Bibbia, generalmente tratto dal Nuovo Testamento, leggo due o tre volte in atteggiamento prima attivo per capire e poi passivo peri ascoltare ciò che il Signore mi sta dicendo. Può essere molto utile in questa fase farsi aiutare dalla lettura di qualche riflessione autorevole sullo stesso testo (penso a quanto mi hanno aiutato le riflessioni di, ad esempio, C. M. Martini, E. Bianchi, U. Vanni, S. Fausti…).

·      Un’altra cosa dalle quale traggo giovamento consiste nella visita di qualche luogo che, per me, riveste un particolare rilievo (la Cappella del Crocifisso nella Chiesa del Gesù a Roma, la Porziuncola ad Assisi, la Cappella del S.S. Sacramento a S. Maria Maggiore a Roma, la Chiesa della Fraternità di S. Lorenzo a Pomaio vicino Arezzo).

·      Importante anche l’attenzione e la concentrazione nella S. Messa domenicale, particolarmente durante l’Eucarestia, vissuta come il momento nel quale Gesù mi lava i piedi, ovvero mi purifica per farmi ripartire…

·      Come non ricorrere poi a ricordare e a cercare di rivivere le esperienze passate, le nostre “Trasfigurazioni” personali? La mia prima Mariapoli, le visite a Nazareth durante i miei viaggi in Terrasanta, l’esplosione di gioia che ebbi al S. Sepolcro quando mi resi conto che lì Gesù non era tanto morto quanto, soprattutto risorto (il bene vince sempre sul male)…

Sono aspetti che mi aiutano a mantenere (o meglio, a non far declinare troppo…) la tensione spirituale acquistata e maturata durante il “momento di luce”. Quest’ultimo invece non si può ottenerlo a richiesta come fosse un diritto.
La Trasfigurazione è un momento di Grazia, ovvero un dono gratuito di Dio che viene quando meno te lo aspetti, può solo essere frutto di una paziente speranza e di una indefessa fede.

Questi raccontati qui sopra sono strumenti che possono essere suggeriti a chi è già credente o cerca di percorrere un cammino di fede,sono il mio modo personale di ripetere quanto detto da Pietro “Signore, farò qui tre capanne…”

Non mi permetto di suggerire nulla a chi, da non credente, ha avuto gli stessi momenti di luce al cospetto del Mistero e che cerca di riottenerli per sostenere il suo cammino di persona umana nel suo sforzo di miglioramento di se stesso e delle realtà sociali che lo circondano.

Sarebbe veramente bello, almeno per me conoscere una esperienza simile da parte di un non credente.

Roma 30/09/2021                                                                          Giuseppe Sbardella

mercoledì 22 settembre 2021

Noi e gli ultimi

 



Giorni fa ho scritto questa frase sul mio profilo Facebook:

Più che a schierarci dalla parte degli ultimi, Gesù ci invita a guardare il mondo con gli occhi degli ultimi”.

Questa espressione condensa la parte finale di un percorso che è durato, lungo la mia esistenza, fino ad ora.
Con l’aiuto di biblisti e teologi vicini alla Compagnia di Gesù (n particolare i compianti U. Vanni e S. Fausti) e il Movimento dei Focolari (in particolare P. Coda e G. Rossé) ho approfondito cosa volesse significare quella “scelta preferenziale dei poveri” che accompagna la Chiesa cattolica dai tempi del Concilio Vaticano II.

Gesù parla continuamente dei poveri, degli ultimi, per usare un termine più attuale.
“Beati i poveri”, “I poveri li avrete sempre con voi”, “gli ultimi saranno i primi, i primi saranno ultimi”, “qualunque cosa avete fatto a questi ultimi fra voi, l’avete fatto a Me”…. e così via.
Le frasi appena scritte sono state citate a memoria, non c’è bisogno di cercare con inquiry  apposite sul web le frasi nelle quali nei Vangeli viene citato il termine “povero”, ultimo”, “piccolo”, perché i Vangeli ne sono pieni, è il motivo ricorrente del gioioso annuncio.

Gesù non si è limitato a parlare, si è anche comportato costantemente da ultimo.
Tanto per fare esempi, ha iniziato il suo cammino mettendosi in fila per ricevere il battesimo di Giovanni, non ha mai voluto essere chiamato Rabbi (Maestro), non ha posseduto soldi se non quelli necessari per vivere (provenienti da una comunione dei beni), è entrato a Gerusalemme, non come re su carro trainato da un cavallo bianco, ma come una persona normale in dorso ad una asina, ha amato e dato peso ai bambini e alle donne (stimati irrilevanti all’epoca)…
Tutto il suo comportamento è stato da ultimo ed ha avuto il suo culmine nella crocifissione, la morte più ignobile, da ultimo fra gli ultimi.

Come interpretare questo suo pensiero insistente sugli ultimi?

Alcuni, partendo dalla sua frase “i poveri li avrete sempre tra voi” (Mc 14,7) ritengono che non bisogna affannarsi in soluzioni durature e strutturali (tanto il problema è irrisolvibile…), occorre fare del bene a loro, un panino, l’elemosina, un pranzo occasionale… (magari a Natale!), senza illudersi e illuderli troppo.
Con tutta franchezza mi sembra che queste persone siano fuori strada. Dal complesso delle parole e del comportamento di Gesù risulta non tanto che lui inviti a spendere qualcosa per i poveri, ma piuttosto che lui inviti a spendersi per i poveri.

Altri pensano che l’atteggiamento di Gesù sia quello di schierarsi dalla parte dei poveri.
Questa riflessione mi piace di più, la condivido, ma non con il retro-pensiero (che talvolta è presente) che Gesù sia dalla parte dei poveri contro la parte dei ricchi.
Gesù ha avuto amici e seguaci anche tra i ricchi, Lazzaro non era certamente un povero, neppure Giuseppe d’Arimatea lo era.
E’ vero che ha detto “è più facile per un cammello entrare nella cruna di un ago che per un ricco entrare nel Regno dei cieli” ma, agli apostoli che ne deducevano l’impossibilità della salvezza per i ricchi, ha risposto “ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio”.
L’uomo non deve mettere la ricchezza al centro della sua vita, ma entrerà nel Regno se userà la ricchezza secondo i disegni di Dio.

E allora come interpretare correttamente la opzione preferenziale verso i poveri espressa da Gesù?
A mio avviso c’è una strada…

Ognuno di noi ha vissuto la propria esistenza in dei contesti familiari (uno o più…), ha frequentato determinati ambienti lavorativi e sociali, ha stretto determinate amicizie, ha assorbito certe spinte culturali,…, si è conformato ad un certo stile di vita, si è creato a poco a poco una propria visione del mondo, (scala dei valori ai quali ispirarsi, modalità di azione da usare, tipi di persone con cui entrare in contatto, beni da preferire rispetto ad altri…).
La nostra visione del mondo orienta i nostri comportamenti, il nostro rapportarsi con le persone e con le cose
Rientra in tale visione del mondo il nostro modo di come desiderare che sia strutturata la società.
Così chi ama la cultura vorrebbe dei luoghi dove fosse possibile vedere in mostra opere d’arte, ascoltare conferenze, vorrebbe scuole dove gli studenti socializzassero tra di loro ma anche imparassero quelle materia che li mettessero in grado di capire e seguire  il senso della loro vita.
Chi ama il divertimento vorrebbe dei luoghi dove potersi divertire in maniera sana (o, se del caso, sregolata), cinema, discoteche, pub, sale da ballo.
Chi ama lo sport vorrebbe che fosse incrementato il numero e innalzata la qualità degli impianti sportivi (senza trascurare quelli meno popolari)
E così via…

E allora che ne pensate se interpretiamo l’invito di Gesù a compiere una scelta preferenziale degli ultimi come l’invito a iniziare a guardare il mondo, la società, con gli occhi dei poveri, ad acquisire la loro visione del mondo, a chiedersi come loro vorrebbero che fosse strutturata la società e a darci da fare per costruirla a misura loro?
Allora forse ci accorgeremmo che non basta (anche se talvolta è necessario…) dare un panino, fare una elemosina, emettere un ordine di un cospicuo bonifico ad una Onlus, offrire un occasionale pasto o un letto.
Forse ci accorgeremmo che occorre mettere in atto quella che Papa Francesco chiama “carità politica” ovvero una tensione di amore che si esprime nell’edificare “strutture di bene”, ovvero correnti di pensiero, organizzazioni stabili, luoghi, edifici, scuole che promuovano e diffondano una cultura della sobrietà e della solidarietà,
Chissà che non sia una società forgiata da una tale cultura che sognano gli ultimi?

A proposito, la foto inserita all’inizio è ovviamente provocatoria…

P.S.: Mi accorgo ora che non ho affrontato il problema di definire gli ultimi. Forse lo farò in un’altra occasione, ma penso che, se ci guardiamo dentro la coscienza, riusciamo subito a capire chi sono i veri ultimi.

22/09/2021

Giuseppe Sbardella

martedì 7 luglio 2020

Appunti su pedofilia, Chiesa, democrazia

 


Introduzione

Era il Venerdì Santo del 2005 allorché il Cardinal  Joseph Ratzinger (di lì a poco eletto Papa con il nome di Papa Benedetto XV) scrisse, nella sua meditazione per la via Crucis al Colosseo “quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!”.

 
Non si sa bene se Ratzinger si riferisse ai casi di pedofilia già presenti sulla sua scrivania della Congregazione per la dottrina della Fede (già S. Uffizio) ma, secondo i commentatori, il riferimento è assai probabile.

In effetti la questione della pedofilia è esplosa, in maniera eclatante, nel corso dei 13 anni seguenti, senza interruzione in un crescendo di coinvolgimento di sacerdoti, di vescovi e di cardinali di Santa Romana Chiesa.



Alcuni (di cultura progressista) hanno ricercato l’origine di questo fenomeno nell’obbligo del celibato sacerdotale, altri (di cultura tradizionalista) nell’azione ininterrotta del diavolo.
Di seguito alcune considerazioni che cercano di spostare il ragionamento su un altro livello, non tanto su quello della ricerca delle responsabilità quanto su quello, strettamente collegato, del capire i motivi della mancata punizione dei colpevoli, per non parlare dell’insabbiamento dei casi.

Questo ragionamento alternativo permetterà peraltro anche di affrontare un’ altra tematica, forse pure più importante, quella del rapporto fra Chiesa cattolica e (liberal)democrazia


E’ utile premettere all’analisi  un presupposto di carattere sostanziale da non perdere mai di vista allorché si affrontano tematiche riguardanti l’universo ecclesiale.

La Chiesa, nella sua prudenza secolare, non ammette (quasi) mai di essersi sbagliata, ricorre bensì all’artificio di superare una verità ormai obsoleta ma sempre proclamata mediante l’enunciazione di una verità più piena che accoglie quanto c’era prima procedendo ad una sua attualizzazione. Tale artifizio nella sostanza si traduce spesso non tanto in un superamento quanto in un reale annullamento della concezione  precedente (seppure mai formalmente rinnegata).





Il Concilio Vaticano II, una discriminante



Non si può affrontare l’argomento della ricerca senza previamente parlare del Concilio Vaticano II.

Esso, svoltosi dall’ottobre 1962 al dicembre 1965, è stato uno degli eventi più significativi degli ultimi secoli perché le sue decisioni e, soprattutto, i suoi cambiamenti di prospettiva, hanno portato radicali innovazioni, non solo all’interno della Chiesa, ma anche nei rapporti tra quest’ultima e il mondo esterno.
Uno dei più importanti cambiamenti ha proprio riguardato la auto-comprensione della Chiesa, quella che viene di solito definita come il campo della ecclesiologia.


Fino al Concilio la Chiesa ha avuto una auto-comprensione di se stessa come una “societas perfecta”, ovvero come una comunità che, in quanto fondata da Gesù Cristo (figlio di Dio) e assistita dallo Spirito Santo (terza persona della divina Trinità), era sostanzialmente esente da imperfezioni (peccati, insufficienze, errori ecc.) e maestra di verità.

Eventuali fatti che evidenziavano errori, insufficienze, carenze, venivano considerati, in questa impostazione, semplicemente come “incidenti di percorso” che non intaccavano assolutamente la correttezza di questa auto-comprensione.
Quali erano le caratteristiche fondanti di questa societas perfecta?


A) In primo luogo l’assunzione che la Chiesa fosse l’unico luogo nel quale e tramite il quale l’uomo potesse salvarsi. Per questo motivo la Chiesa ha sempre strenuamente difeso la libertà religiosa dei suoi figli mentre, al massimo, si era limitata ad affermare la “tolleranza” nei confronti dei riti e delle opinioni dei fedeli di altre confessioni religiose. 
Questa ristretta visione della libertà religiosa era all’origine della indifferenza della Chiesa nei confronti delle altre libertà di espressione  (di pensiero, di stampa, di associazione..) considerate perlopiù come conseguenti alla libertà religiosa dei credenti, ma non ontologicamente degne di autonoma valutazione.



B) In secondo luogo il postulato che la Chiesa, nel suo deposito della Fede, avesse il monopolio della verità, perlopiù strutturata in dogmi accuratamente formulati e considerati validi e chiari di per se stessi, resistenti ai mutamenti che normalmente intervengono nella cultura umana.
Dalla coscienza del possesso della verità all’idea di avere diritto di imporla agli altri, per il loro stesso bene, il passo è stato spesso breve e ha avuto diverse applicazioni nel corso dei secoli.



C) In terzo luogo la sua struttura gerarchica, basata sul primato dei Vescovi e in particolare del Papa successore di Pietro, vicario di Gesù Cristo in terra provvisto del dono della infallibilità quando si pronuncia ex cathedra (ovvero formalmente e solennemente) in materia di fede o di morale.

Corollario giuridico e politico di questa struttura gerarchica  è la configurazione come Monarchia assoluta (ma elettiva) dello Stato del Vaticano, con un Papa che decide, un episcopato e un clero che consiglia, con la gran massa dei fedeli laici che non partecipa in alcun modo al potere decisionale ma ne subisce le conseguenze supinamente ubbidendo.



D) Infine, in quarto luogo, la Chiesa quale societas perfecta si auto assegna un livello di superiorità rispetto alle altre società esistenti nella realtà umana (Stati, Confessioni religiose…).
La Chiesa ha tutto da insegnare e nulla da apprendere.



Il Concilio Vaticano II, seguendo peraltro un cammino non sempre lineare e comunque contrastato, ha tracciato un netto cambiamento di linea.


E’ da mettere subito in evidenza che la configurazione della Chiesa come societas perfecta, anche se non formalmente abiurata, viene superata dalla concezione della Chiesa come “Popolo di Dio” in cammino (assistito dalla presenza dello Spirito Santo) verso una piena realizzazione del Regno di Dio, così come annunciato da Gesù Cristo. Se la Chiesa è Popolo di Dio, e il popolo è fatto di persone umane fallibili, ne consegue che l’errore è possibile e contemplato (e anche perdonato…).
Da questa assunzione fondamentale derivano alcune conseguenze importanti.


1) In primo luogo la Chiesa cattolica non è  più l’unico luogo della salvezza; la misericordia e l’onnipotenza del Padre vanno ben oltre il perimetro della Chiesa cattolica e lo Spirito “soffia dove vuole”. Se questo è vero, è anche vero allora che esiste un diritto di ogni persona a cercare Dio e la verità, e la Chiesa deve rispettare questo diritto; si passa dalla tolleranza delle altre confessioni a proclamare la libertà religiosa, ovvero il diritto naturale di cercare Dio senza alcuna imposizione dall’esterno.
Viene proclamato il primato della coscienza della dignità di ogni persona umana e del suo diritto intangibile alla libertà.



2) In secondo luogo, nel Concilio, sulla base della spinta di teologi e vescovi particolarmente dell’Europa centrale (tedeschi, belgi e olandesi), oltre che degli americani, viene emergendo la consapevolezza che non sia tanto la Chiesa a possedere la verità quanto la verità a possedere la Chiesa. In particolare la verità, che si sostanzia nella persona di Gesù Cristo (Via, Verità, Vita) non può essere intesa come un concetto da significare o un dogma da formulare, bensì come un cammino relazionale di amore sia reciproco che verso Dio. Da questa concezione più ampia della verità trae le sue mosse il dialogo ecumenico verso le altre confessioni religiose, nonché il dialogo (ancora più ampio) verso l’umanità intera.


3) In terzo luogo, pur non modificandosi, se non lievemente, la configurazione costituzionale della Chiesa come monarchia assoluta, vengono emergendo caratteri che cominciano ad assumere un aspetto di cammino verso una maggiore (se non ancora piena)  democrazia: l’istituzione delle Conferenze episcopali nazionali e dei Sinodi dei Vescovi, l’uso della lingua volgare nelle celebrazioni (che permette una maggiore comprensione delle stesse), l’accesso più ampio alla lettura dei sacri testi della Bibbia (prima riservata al clero).
Questi ultimi aspetti (uso della lingua volgare e pieno accesso alla Bibbia) non sono  da sottovalutare in quanto consentono una maggiore partecipazione e consapevolezza dei fedeli laici. Né è da sottovalutare che i laici sono fatti (finalmente) oggetto di una particolare attenzione e viene anzi espressamente affermato che tocca ad essi la animazione cristiana delle realtà temporali (in questo consiste la propria specifica “indole”)

Sotto questo punto di vista particolare rilievo va dato alla enunciazione delle autonomia proprio delle realtà temporali (politica, economia, arte..) che hanno proprie leggi che anche i cristiani devono rispettare e seguire.    
Last but not least, viene anche affermato il punto molto importante che tra il clero e i laici esiste solo una differenza di funzione e non di dignità all’interno della Chiesa, addirittura attribuendo anche ai laici una compartecipazione (seppur non di tipo ministeriale ma solo spirituale), al sacerdozio di Cristo.



D) In quarto luogo la Chiesa, non più societas perfecta, non si pone in un mero livello di superiorità rispetto alle altre società ma inaugura lo strumento del dialogo nel quale le parti, nel rispetto reciproco, si ascoltano e si aprono ad una verità più piena.





Il pontificato di Paolo VI



Il Concilio vaticano II fu inaugurato dal Pontefice Giovanni XXIII nell’ottobre del 1962 e concluso nel dicembre 1965 dal Pontefice Paolo VI.

La nuova visione ecclesiale, della quale più sopra sono stati delineati alcuni punti fondamentali, non fu approvata senza problemi, anzi fu oggetto di aspri dibattiti e gli stesse documenti conciliari non sono esenti da oscurità, incertezze e faticosi compromessi.

La figura e l’opera di Paolo VI (nato Giovan Battista Montini) fu indispensabile per riportare il confronto ad un alveo costruttivo, trovare una sintesi e finalmente chiudere il Concilio.

Paolo VI era un fine intellettuale abbeverato alla cultura del personalismo cristiano di Maritain e Mounier, con un passato (durante il periodo fascista) di vicinanza ai giovani universitari cattolici.

Aveva lavorato in Segreteria di Stato Vaticano e nel 1954 fu nominato Arcivescovo della Diocesi di Milano, la più grande d’Italia, forse proprio per accrescere le capacità di fine intellettuale ed esperto diplomatico con una esperienza significativa di tipo pastorale.
Non fu pertanto assolutamente sorprendente la sua elezione a Sommo Pontefice nel giugno del 1963.
Erano molto note le simpatie progressiste dell’uomo, la sua visione della democrazia come regime istituzionale nel quale meglio potevano essere espressi il valore umano e  cristiano del primato della dignità della persona umana, la sua attenzione ai problemi del mondo del lavoro e alla questione sociale, la sua apertura a relazioni più estese e più intense con il mondo internazionale.
La sua elezione suscitò pertanto quelle che, con linguaggio politologico, vengono definite “aspettative crescenti” presso i cattolici progressisti e anche presso il mondo laico non affetto da anticlericalismo.

Nell’agosto 1964 pubblico l’enciclica Ecclesiam suam nella quale evidenziò l’importanza del dialogo (del quale enumerò e spiegò i caratteri essenziali) con il mondo contemporaneo.
Nel marzo 1967 pubblicò l’Enciclica Populorum progressio con la quale affrontava la questione sociale nel contesto del mondo globale.

Inoltre toccò proprio a lui, maestro e amico di molti politici democristiani, rompere definitivamente con il postulato della unità politica dei cattolici e proclamare la legittimità di una diversità di opzioni politiche per i cristiani.

Importante sotto l’aspetto del rapporto tra Fede e politica l’assunzione che non ci fosse un assoluto nesso deterministico fra le due realtà bensì che fra le stesse fosse necessaria una “mediazione culturale” (la Fede dà origine non ad una sola ma a più impostazioni culturali e quest'ultime, seppure sempre ad ispirazione cristiana, a più opzioni politiche, tutte legittime).

Il Concilio Vaticano II aveva aperto le finestre di una Chiesa, fino allora molto introversa e autoreferenziale, verso il mondo intero e aveva suscitato molte speranze dando fiato a innumerevoli iniziative in campo liturgico e sociale nonché a idee innovative nel campo della teologia morale e dogmatica.

Questo fervore inatteso creò opposizione netta nell’ambiente ecclesiastico conservatore ma anche disagio nell’area che aveva sostenuto le aperture del Concilio alimentando una reazione restauratrice.
Lo stesso Paolo VI si rese conto degli eccessi che si stavano manifestando e più volte cercò di far valere la sua autorità papale, di precisare posizioni e di porre argini alle iniziative più eterodosse.
Questa frenata di Paolo VI suscitò quelle che politologicamente vengono definite “frustrazioni crescenti” e portò ad una insofferenza della parte più progressista del mondo cattolico nei confronti dell’azione di PaoloVI considerata troppo prudente.
Il culmine del dissenso cattolico si verificò nel luglio 1968 allorché  il Papa, con l’Enciclica Humanae vitae, confermò la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica in materia di procreazione responsabile, nonostante il parere difforme anche della maggioranza della Commissione di esperti che lui stessa aveva nominato per approfondire la problematica.

La morte di Paolo VI, nell’agosto del 1978, trovò la Chiesa cattolica nel pieno del travaglio tra dissenso e tentativo di restaurazione.



La “gelata” 
 

Perché è stato così difficile consolidare le innovazioni sul piano dottrinale e su quello dogmatico emerse nel Concilio Vaticano II?
I motivi sono molteplici.
In primo luogo va ricordato che la Chiesa che entrava nel Concilio Vaticano II era una Chiesa fortemente dominata ideologicamente  dall’episcopato e dal clero italiano, presenti in maniera massiccia nella Curia Vaticana.

L’episcopato italiano, era fermo, nella sua grande maggioranza su posizioni tradizionaliste. Tra i vari Vescovi titolari nelle principali città italiane, gli unici che potevano distinguersi per posizioni progressiste erano il Card. Montini (futuro Paolo VI) e Milano e il Card. Lercaro a Bologna.

Non deve pertanto stupire se, con tale schieramento di Vescovi, nei seminari italiani venisse studiata la teologia classica, quella che, poi venne superata dall’evoluzione dell’assise conciliare.
Il clero che usciva dai seminari, durante il Concilio (e anche dopo…) restava intriso della visione della Chiesa societas perfecta, gerarchica, in possesso della pienezza della verità.
E’ vero che, durante il pontificato di Paolo VI, i cattolici del dissenso fecero notizia per il clamore delle loro opinioni e delle loro manifestazioni, spesso animate da sacerdoti coraggiosi, ma è pur vero che la maggioranza del clero e, soprattutto dell’episcopato, si mostrava freddo, se non addirittura ostile, alle innovazioni conciliari.
Anche l’azione riformatrice di Paolo VI, seppur continua e tenace, si scontrò con tale freddezza che la rese molto meno efficace di quanto potesse essere.


La parte progressista dei Vescovi presenti al Concilio proveniva dal Centro europa (in particolare dal Belgio, dall’Olanda e dalla Germania) e, parzialmente, dagli altri continenti.
Se, nell’ambito dell’assemblea conciliare, la posizione innovatrice riuscì ad emergere (ma non ad imporsi con nettezza), nel dopo Concilio, la Curia romana, dominata da tendenze nettamente conservatrici ebbe in mano la gestione pratica delle questioni e mitigò di molto, quando addirittura non spense sul nascere, le spinte innovative, nonostante gli stimoli del Papa.


Un altro motivo del mancato consolidamento delle innovazioni conciliari va anche ricercato nella falsa rappresentazione delle stesse.  
Da parte dei gruppi conservatori presenti nella Chiesa cattolica si cercò in tutti i modi di rappresentare quelle che erano state innovazione conciliari mantenutesi nel pieno rispetto dei cardini della Fede cattolica, come tradimenti dei principi della tradizione e come una resa (ricorrente nella storia della Chiesa) al modernismo e al relativismo etico.

Questa falsa rappresentazione ebbe larga presa nella maggioranza della base popolare della Chiesa, culturalmente impreparata ad accettare, digerire, e vivere le nuove impostazioni.



Nell’agosto 1978, il Conclave successivo alla morte di Paolo VI, dominato dalla corrente dei cardinali conservatori italiani (ancora una volta guidati dal Card. Siri, Arcivescovo di Genova) elesse come Papa il Patriarca di Venezia Albino Luciano, salito al soglio pontificio con il nome di Giovanni Paolo I, esponente di punta, seppure con un carattere mite e accogliente, della corrente conservatrice.

Il pontificato di Giovanni Paolo I durò poco più di un mese e fu seguito da un altro Conclave, peraltro dominato dalla stessa maggioranza.
In presenza di un forte e non appianabile contrasto fra i porporati italiani (incerti se appoggiare la candidatura del Card. Siri o del Card. Benelli) l’assise elesse al soglio pontificio uno straniero, il polacco Card. Woytila, che prese il nome di Giovanni Paolo II.
Questo lungo pontificato (dall’ottobre 1978 all’aprile 2005) fu caratterizzato da una forte impronta restauratrice.
Il Papa proveniva dalla cultura cattolica polacca, che era stata in minima parte intaccata dalla ventata del Concilio Vaticano II e che si era creata e sviluppata non tanto nel dialogo quanto in una netta contrapposizione alla parte di società laica fortemente contrassegnata dalla ideologia e dal regime comunista.
Giovanni Paolo II è stato (al contrario di Paolo VI) un gran maestro della comunicazione ma, dal punto di vista teologico, ha provveduto ad un forte ridimensionamento delle innovazioni conciliari e ad una decisa rivalutazione di molti dei punti fermi della Chiesa pre-conciliare.



A) In primo luogo, con la Enciclica “Veritatis splendor” (pubblicata nel 1993) il Papa ristabiliva il primato della verità come insieme di dogmi posseduti dalla Chiesa cattolica e riduceva drasticamente gli spazi di autonomia precedentemente riconosciuti alla coscienza individuale.
Sotto questo punto di vista diventò molto più faticoso il cammino ecumenico che era stato iniziato con il Concilio Vaticano II e che aveva avuto momenti anche clamorosi con Paolo VI, quali l’abbraccio al Patriarca Atenagora  e la visita alla Sinagoga di Roma.


B) In secondo luogo anche procedendo alla sostituzione di autorevoli personaggi vicini alle posizioni espresse da Paolo VI, (il Card. Ballestrero alla Presidenza della CEI, Padre Sorge alla direzione di Civiltà cattolica, il Prof. Monticone alla presidenza dell'Azione Cattolica)  reintrodusse la visione di una Chiesa fortemente gerarchica e guidata in maniera ferma dai Vescovi, riducendo gli spazi di autonomia operativa (e praticamente annullando quelli di pensiero) dei fedeli laici.

 
C) In terzo luogo veniva cancellata quella importante concezione della “mediazione culturale” e del dialogo come strumento di confronto con il mondo dei non credenti per assumere la visione di una Chiesa come “forza sociale” dei credenti impegnati a portare nella società i cosiddetti “valori non negoziabili” della Fede.



Su queste linee Giovanni Paolo II aveva il pieno conforto teologico del Card. Joseph Ratzinger, raffinato intellettuale da lui nominato alla Congregazione per la Dottrina della Fede.



E’ vero che Giovanni Paolo II si battè costantemente per il principio della libertà dei popoli (in particolare a partire dalla sua terra natia) ma tale difesa della libertà si riferiva in particolare a quella religiosa e agli altri tipi di libertà solo come una conseguenza diretta della prima.
Così come aveva represso il dissenso all’interno della Chiesa cattolica, limitando o depotenziando i pochi spazi di democrazia aperti con Paolo VI, nella stessa maniera non ebbe alcun timore di incontrare alcuni dittatori dell’America Latina, per nulla impressionato del successo di immagine che a loro proveniva dall’incontro con il Papa di Roma.
I successi di folla delle Giornate mondiali della gioventù e del Giubileo del 2000 nascondevano le difficoltà di una Chiesa autoreferenziale e chiusa nel proprio dogmatismo.
Quanto nel 2005 Giovanni Paolo II “tornò alla casa del Padre” gli successe il suo fedele collaboratore Joseph Ratzinger (sconfiggendo nel Conclave un rivale di nome Bergoglio..) e nessuno dubitò che il nuovo Papa Benedetto XVI avrebbe continuato nell’opera iniziata da Giovanni Paolo II.
E questo avvenne, pur senza le capacità comunicative di Woytila, ma certamente con una maggiore raffinatezza intellettuale ed una efficace (all’interno della Chiesa) capacità comunicativa.

Eppure non dimentichiamo che era stato proprio il Card. Ratzinger, nel Venerdì Santo del 2005 a parlare di “sporcizia nella Chiesa”!

Come è potuto avvenire che Benedetto XVI, lucido intellettuale, pur consapevole dei problemi, non fosse intervenuto in maniera chiara ma, soprattutto, trasparente?

 
Una ipotesi



Abbiamo già notato come il pontificato di Paolo VI, non eccessivamente lungo e profondamente contrastato all’interno, non sia stato in grado di sviluppare nella misura massima le innovazioni pastorali, teologiche e liturgiche emerse dal Concilio Vaticano II.
L’azione di rinnovamento fu poi ridimensionata, e in alcuni casi (ad esempio il dialogo ecumenico e l’autonomia dei fedeli laici) bloccata dalla azione pastorale di Giovanni Paolo II nel corso del suo lungo pontificato.

Nei seminari i giovani candidati al sacerdozio continuarono ad essere formati, seppure con alcuni mutamenti migliorativi, sulla base delle idee teologiche e delle prassi pastorali del periodo pre-conciliare.
Non deve apparire strano che questi sacerdoti, successivamente diventati anche Vescovi abbiano introiettato in se stessi la visione classica della Chiesa quale societas perfecta e, particolare importante, cercassero di nascondere all’esterno eventuali carenze interne, sulla base  della considerazione che si trattasse di “incidenti di percorso” e che comunque ci si dovesse comportare secondo il vecchio aforisma ecclesiale che “i panni sporchi si devono lavare in famiglia”.


Non sarà stato questo il motivo di fondo per cui i Vescovi interessati hanno preferito nascondere i casi emersi di pedofilia, al limite segnalandoli, in gran segreto, alla Congregazione per la dottrina della Fede?


E non sarà stato questo il motivo per cui il Card. Joseph Ratzinger, Prefetto di tale Congregazione, pur consapevole di quanta “sporcizia” si stesse accumulando all’interno della Chiesa cattolica continuò ad operare per pulire questa sporcizia ma sempre nella massima riservatezza e profondo nascondimento?



E non sarà stato questo il motivo per cui Joseph Ratzinger, divenuto Papa Benedetto XVI, una volta accortosi, da grande uomo di pensiero e fine intellettuale quale egli era, che la strada intrapresa  non era quella giusta, rassegnò, l’11 febbraio 2013, le dimissioni da sommo pontefice della Chiesa cattolica?
Forse Joseph Ratzinger, intellettuale e teologo di grande spessore, ma con scarse inclinazioni pastorali e politiche , si rese conto di non essere in grado di gestire un problema così grande e così nuovo per la Chiesa di Roma (anche perché circondato da collaboratori non sempre pienamente affidabili) e prese la lucida decisione di dimettersi ben consapevole che, sulla base dell’ordinamento della Chiesa di Roma, la decadenza del Papa avrebbe comportato automaticamente la decadenza di tutti gli incarichi dei suoi collaboratori.

La sua uscita di scena avrebbe aperto una nuova fase, anche se forse della stessa lo stesso Benedetto non prevedeva bene gli sviluppi.
Il nuovo Conclave avrebbe eletto Papa, con grande sorpresa di tutti i  commentatori l’argentino Card. Jorge Bergoglio, che prese il nome, anche esso sorprendente, di Francesco.





La “sorpresa” Bergoglio
    

Come è stato possibile che un Conclave, composto in larghissima parte di cardinali, di orientamento tradizionalista, scelti da Giovanni Paolo II e Benefetto XVI, abbia potuto eleggere al soglio pontificio un cardinale notoriamente progressista come Bergoglio?
Alcune considerazioni.
In  primo luogo è da notare che, già nel precedente conclave del 2005, nel corso del quale venne eletto Benedetto XVI, il cardinal Bergoglio raccolse ampi consensi e si piazzò secondo per numero di voti dopo il cardinal Ratzinger.
Viene da pensare che la sua persona godeva di una stima trasversale tra gli schieramenti presenti in Vaticano, forse anche per le sue capacità pastorali e comunicative che lo ricollegavano a Giovanni Paolo II e che mancavano a Benedetto XVI.

In secondo luogo, se è vero che Bergoglio passava per un prelato molto attento alle questioni sociali, è pur vero che la sua fedeltà alla dottrina (in particolare a quella riaffermata nel Concilio Vaticano II) era fuori discussione.
In terzo luogo è da considerare che, contrariamente ai conclavi precedenti (in particolare fino a quelli del 1978 che elessero i due Giovanni Paolo), in questo conclave non solo la componente italiana,  ma anche quella europea,  era in netta minoranza rispetto al numero dei cardinali provenienti dai Paesi extraeuropei.
Tutti questi cardinali, anche se di orientamento tradizionalistico, erano tuttavia immuni dai difetti della maggior parte di quelli europei, in larga parte coinvolti o cointeressati alle trame della Curia vaticana.

Anzi l’ostilità alla Curia e l’intenzione di procedere ad una seria e incisiva riforma della stessa, si è dimostrata come una formidabile spinta unitiva anche fra cardinali che magari avevano visioni pastorali diverse su altri punti.
In quarto luogo occorre anche tener presente l’elevato livello culturale dei Cardinali ai quali (anche grazie al sostegno di loro autorevoli collaboratori) non manca la capacità di capire le dinamiche e i movimenti della società ecclesiale e di quella civile intorno a loro, nonché le nuove istanze che queste società esprimono.
Last but not least quello che potrebbe sembrare un pettegolezzo e che invece è una cosa estremamente seria, la questione del Gruppo di San Gallo.

Il card. Danneels, Arcivescovo (ora emerito) di Bruxelles ha tranquillamente ammesso, in una sua autobiografia, che l’elezione di Bergoglio fu preparata dal cosiddetto “Gruppo di San Gallo” che si riuniva ogni anno, dal 1996, a San Gallo in Svizzera e che aveva tra i componenti più importanti, oltre allo stesso Danneels, anche l’italiano gesuita card. Carlo Maria Martini.
Tutta questa serie di fattori portò, il 13 marzo del 2013, alla (quasi) sorprendente elezione di Papa Francesco.





Papa Francesco in azione


Dopo pochi mesi (il 24 novembre 2013) il Papa emanò quello che si può considerare il documento programmatico del suo Pontificato: l’Esortazione apostolica “Evangelii gaudium”.
Ai fini della nostra riflessione due punti sono particolarmente da sottolineare.
Nel paragrafo 33 il Pontefice scrive :”
La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità”.
E’ un invito, impensabile solo pochi mesi prima,  a mettere in discussione i metodi pastorali fino allora seguiti e a individuarne di nuovi dopo aver preso atto dei mutamenti avvenuti nella realtà ecclesiale e civile.
Ancora più impressionante è quanto è scritto nel paragrafo 40: “
in seno alla Chiesa vi sono innumerevoli questioni intorno alle quali si ricerca e si riflette con grande libertà. Le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola. A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo”.

Se solo si pensa allo sforzo intrapreso sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI per uniformare la pluralità di correnti di pensiero emerse nel post Concilio, non si può non notare questo netto rovesciamento, laddove addirittura si invita a riflettere con grande libertà.

Del resto è importante sottolineare che, nella misura in cui si parla della necessità di rinnovare metodi pastorali superati e di usare la massima libertà nel trovare nuove vie per meglio evangelizzare, si arriva inesorabilmente ad un radicale superamento della concezione della Chiesa “Societas perfecta” nell’ottica di una visione alternativa di “Ecclesia semper reformanda”.
Non deve stupire che, sulla base di queste premesse e del continuo invito di Papa Francesco a usare la “parresia” nei rapporti interpersonali, i veli di segretezza che avevano nascosto e coperto fatti esecrabili come quelli relativi alla pedofilia sono stati sempre di più sollevati facendo venire in evidenza l’ampiezza e la gravità del fenomeno.
Il superamento della concezione della Chiesa società perfetta e l’assunzione del paradigma della Chiesa società in continua riforma ha fatto da volano a quella che, mutuando un termine usato per identificare un carattere della Russia post-comunista, potremmo chiamare la “glasnost” vaticana.


Sono stati due i momenti fondamentali nei quali il confronto fra le due visioni di Chiesa è emerso con chiarezza.


Il primo si è verificato nell’ottobre del 2015 durante l’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia (il titolo era “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”).
In particolare il confronto più acceso riguardò la possibilità di ammettere ufficialmente alla Eucarestia le persone divorziate che avessero contratto un nuovo legame.
Da parte dei Vescovi conservatori si premeva affinché venisse confermato il divieto tradizionale di accedere all’Eucarestia sulla base della motivazione che il divorzio fosse incompatibile con l’Eucarestia Sacramento dell’unione di Cristo con la Chiesa.
Da parte dei Vescovi più aperti (e pare anche da parte del Papa) si cercava di superare questo divieto sulla base della necessità di un dialogo più stretto e costruttivo con tutti i credenti, anche con i divorziati che avevano contratto un nuovo legame.
Anche per effetto della mediazione dell’Arcivescovo di Vienna, Cardinal Schoenborn (fra l’altro allievo di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI) si trovò una soluzione che venne poi esplicitata nella esortazione apostolica post-sinodale Amoris letitia di Papa Francesco.

Si convenne che questi casi dovevano essere frutto di un attento discernimento pastorale da parte dei singoli Vescovi (o di loro sacerdoti espressamente delegati) al fine di effettuare insieme alle persone coinvolte un prudente cammino di accompagnamento.
I due termini chiave, “discernimento” e “accompagnamento” facevano intravvedere una visione pastorale dinamica (si accompagna qualcuno verso un obiettivo…) ma si lasciava impregiudicata la questione sull’accesso o meno alla Eucarestia.
Il fatto che si accennasse chiaramente ad un cammino dinamico di riflessione e di movimento (discernere e accompagnare) e che, soprattutto, non venisse confermato il divieto espresso di ricevere l’Eucarestia, ha fatto concludere che il divieto fosse, di fatto abolito.
I Vescovi conservatori potevano sostenere che nulla era stato cambiato, quelli progressisti potevano sostenere che nulla c’era più di pregiudicato in maniera definitiva.
Ancora una volta la Chiesa cattolica aveva superato l’impasse ricorrendo allo strumento classico di non ammettere nulla di errato nelle conclusioni precedenti ma di poter dichiarare di avere solo approfondito la ricerca di una verità più piena.



Il secondo momento di confronto è avvenuto nell’ottobre 2019, nel corso del Sinodo sull’Amazzonia, durante il quale un folto gruppi di Vescovi (anche stavolta pare con la simpatia di Papa Francesco) aveva ipotizzando di dichiarare (anche se su base eccezionale) il superamento del celibato sacerdotale, permettendo l’accesso al sacerdozio anche a uomini sposati di specchiata probità (i cosiddetti “probi sposati”).
Anche questa volta il confronto fu molto acceso e coinvolse anche il Papa emerito Benedetto XVI che prese posizione, in modo eclatante, contro l’abolizione del celibato.
L’esortazione apostolica post-sinodale “Querida Amazonia” di Papa Francesco non ha accolto la proposta di abolizione del celibato sacerdotale (presente nel documento finale dei Vescovi) ma, secondo alcuni esegeti, nemmeno ha posto un divieto così netto sulla questione, permettendo forse che qualche Conferenza episcopale nazionale possa ritornare presto sull’argomento in modo positivo.

Questi due esempi mostrano con chiarezza che nella Chiesa convivono, e si equivalgono anche numericamente, le due visioni contrapposte della Chiesa come societas perfecta oppure come ecclesia semper reformanda, questo anche se il Papa regnante spinge decisamente nella seconda direzione.





E ora che succederà?

Più si aprono gli spazi di confronto e democrazia seppure parziale nella Chiesa (non è un caso che il prossimo Sinodo abbia come oggetto “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”), più il Papa appare deciso a continuare nella sua dura lotta contro il cancro della pedofilia nella Chiesa.
Ci si può domandare se questo cammino verso una maggiore trasparenza (prima l’abbiamo chiamata “glasnost” ricordando l’operato di Gorbaciov in Russia) sia ormai irreversibile o se, con un nuovo Papa, la situazione potrebbe cambiare.
In altre parole questa “primavera” della Chiesa fondata su una maggiore sinodalità potrebbe essere interrotta nel futuro? Potrebbe esserci un ritorno integrale alla visione della Chiesa come societas perfecta?



Già in passato la Chiesa ha alternato momenti di grande apertura con altri in cui l’aspetto conservativo ha prevalso.
Senza andare troppo in là nei secoli basta pensare, ad esempio, all’azione di Papi aperti dal punto di vista della pastorale sociale come Leone XIII (pontefice dal 1878 al 1903) seguito da un Papa intransigente nella lotta ad ogni forma di modernismo e di autonomia del laicato come Pio X.

Benedetto XV e Pio XI furono tutto sommato pontefici di transizione rispetto all’avvento di Pio XII (pontefice dal 1939 al 1958), personaggio di grande carisma che resse la Chiesa con mano ferma ma anche autoritaria reprimendo ogni forma di dissenso interno.
A Pio XII successe Giovanni XXIII che, in maniera inattesa, spalancò le porte della Chiesa e indisse il Concilio Vaticano II, di cui abbiamo parlato diffusamente nella prima parte di questo scritto.
Si può aggiungere che, anche nei momenti nei quali ha prevalso la visione gerarchica e autoritaria ci sono state figure come quella del Cardinal Mercalli (durante il regno di Pio X), dei Cardinali Bea e Lercaro (durante il lungo regno di Pio XII), del Cardinal Martini (durante il pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI) che hanno costituito punti di riferimento per l’area più aperta e progressista del mondo cattolico.


Se si immagina graficamente il cammino della Chiesa verso una maggiore sinodalità decisionale e una maggiore trasparenza dei processi, non possiamo certo pensare ad una retta che lentamente punti verso l’alto ininterrottamente, ma forse più ad una curva sinusoidale con una alternanza di punti bassi e punti alti in cui comunque i punti più bassi gradualmente sono sempre ad una altezza maggiore dei precedenti.  



Bisogna ammettere che Papa Francesco sta facendo di tutto affinché gli sforzi che lui sta compiendo per far si che la Chiesa non torni indietro.
E’ interessante anche rendersi conto di alcuni cambiamenti di linea pastorale che lui ha condotto in questi anni.
Pochi mesi dopo la sua elezione a Papa, nel novembre 2013, Francesco promulgava l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, nella quale praticamente anticipava il programma e la metodologia pastorale del suo pontificato.
Nel paragrafo 223 del suo documento all’interno dei passi dedicati al principio “il tempo è maggio dello spazio” il Papa scrive: “
Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci.”

Il suo programma inizialmente prevedeva dunque di dar vita a nuovi processi piuttosto che ad occupare spazi di potere per contornarsi di collaboratori fidati che la pensassero come lui.

I suoi primi passi furono ispirati ad una grande prudenza. Basti pensare che ci ha messo 7 mesi per sostituire il Cardinal Bertone (Segretario di Stato di Benedetto XVI che la maggioranza dei Cardinali vedeva come il diretto responsabile di alcune gravi lacune durante il pontificato di Benedetto XVI) con Pietro Parolin, poi Cardinale, Nunzio apostolico in Venezuela e uomo di piena fiducia di Francesco.
Lo stesso avvenne con il Cardinal Ludwig Muller, nominato da Benedetto XVI in un incarico fondamentale come quello di Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede e sostituito da Francesco solo nel luglio 2017, nonostante in varie occasioni Muller avesse espresso perplessità sulle opinioni e sulle linee pastorali di Francesco.

Le poche nuove nomine decise da Francesco, soprattutto nel campo della comunicazione e della finanza, non si sono rivelate tutte felici.
Inoltre si aveva la sensazione che i processi (il “tempo” citato nella Evangelii nuntiandi”) senza un adeguato sostegno da persone che li condividessero, segnavano il passo o addirittura non si muovevano.
Il Papa pareva a capo di un “sistema” che non lo seguiva.
Di qui il cambio di passo e l’improvvisa decisione di occupare gli “spazi”, procedendo ad una serie di nomine di persone da lui fidate sia in incarichi episcopali che curiali di prestigio, con qualche concessione alla preferenza per confratelli della Compagnia di Gesù (emblematica la nomina di Padre A. Guerrero Alvez a Prefetto della Segreteria dell’Economia della S. Sede in sostituzione del Cardinal Pell indiziato di pedofilia in Australia, poi assolto).

Ora sembra che tutti i processi di rinnovamento che aveva in mente Francesco siano stati implementati e che siano seguiti da persone di piena fiducia del Papa.
L’unico campo in cui l’azione di Francesco non appare molto incisiva è quella su una eventuale riconfigurazione del ruolo dei fedeli laici (in particolare delle donne) nel sistema teologico e istituzionale della Chiesa cattolica. Il fatto che alcuni laici e alcune donne abbiano assunto ruoli importanti in Curia non cancella il fatto a loro vengono sempre assegnate funzioni consultive e non decisionali. Si continua a parlare di corresponsabilità del fedeli laici, non di co-decisione. Le decisioni rimangono di fatto accentrate nei consacrati.


Le nomine cardinalizie, a cui negli ultimi anni, ha fatto ricorso Francesco hanno ridisegnato l’orientamento del potenziale Conclave in chiave progressista.
Possiamo allora concludere che la Chiesa cattolica sia irreversibilmente incamminata verso un traguardo, se non di democrazia, almeno di maggiore trasparenza e sinodalità (intesa come capacità di ascolto, di dialogo e di condivisione più ampia possibile delle decisioni)?

Forse no, e per le seguenti motivazioni.

In primo luogo ricordiamoci che la Chiesa è, per statuto, non una Repubblica democratica, ma una Monarchia con la straordinarietà che il suo capo (il Papa) non succede al precedente per via ereditaria (come accade per gli altri monarchi) ma per elezione diretta da un corpo “aristocratico” (il Collegio cardinalizio).
Per di più, si tratta di una monarchia assoluta, in quanto il potere del Papa (governativo, legislativo, giudiziario) non è bilanciato ma solo eventualmente “consigliato” e integrato da altri poteri sempre a lui subordinati.
In una simile struttura non è assolutamente da escludere che il futuro Papa non possa correggere le linee pastorali di Francesco.



Anche perché (e questo è il secondo motivo di riflessione), se Francesco ha saputo ridisegnare a sua immagine e somiglianza i vertici della Chiesa (in particolare il Collegio cardinalizio) e ha avviato profondi processi di rinnovamento non è detto che la sua linea sia condivisa da quell’apparato burocratico fortemente autoreferenziale che è la Curia Romana abituata da secoli ad accondiscendere la volontà del Papa ma anche adusa a tutti gli stratagemmi per rallentarne l’attuazione e attenuarne i contenuti.



E’ anche vero che Papa Francesco è molto popolare fra i non credenti ma siamo certi che il contenuto della sua evangelizzazione sia condiviso ampiamente fra i cattolici?
Certo le “truppe scelte” dei principali Movimenti (S. Egidio, Focolarini…) e degli Ordini più prestigiosi (i suoi Gesuiti, i Francescani…) sono a fianco di Francesco.

Lo è anche il nucleo duro dei cattolici praticanti, il popolo delle Parrocchie, generalmente di un livello culturale medio non eccelso e incapace di superare i paradigmi più o meno dogmatici accavallatisi nei secoli (penso a temi come l’omosessualità, le unioni civili, l’Eucarestia ai divorziati, il dialogo con l’Islam, i sospetti sugli immigrati, il fine vita ecc…)? O questo nucleo duro è con il Papa per quel vincolo ontologico che lega affettivamente i cristiani cattolici al Pontefice Romano e non per quello che pensa e che predica.
Quanti cattolici delle Parrocchie e anche quanti Parroci pensano “morto un Papa se ne fa altro” oppure “i Papi passano, la Chiesa resta”?
Certo chi parla di “scisma” è fuori della realtà, ma forse non lo è chi parla di una maggioranza silenziosa che vuole bene al Papa, lo applaude anche, ma che, quando si tratta di passare dall’applauso alla azione, mostra segni evidenti di pigrizia.



Se la situazione è questa (chi scrive non ne è contento assolutamente ma ne è abbastanza convinto) si può anche ipotizzare che, come nel 2013 un Conclave a maggioranza conservatrice espresse, per timore di una Chiesa troppo dogmatica e chiusa, un Papa progressista come Francesco, in un prossimo futuro un Conclave a maggioranza progressista possa esprimere un Papa, se non conservatore, almeno più prudente di Francesco, in grado di ricomporre una unità più convinta nella Chiesa cattolica.


Non torneremo certamente alla visione della Chiesa come societas perfecta in possesso della verità assoluta e superiore a tutte le altre comunità civili, ma comunque è prevedibile che lo sforzo principale di quello che sarà il nuovo vertice sarà focalizzato sull’esigenza di dare un contenuto teologico strutturato e accettabile da tutti alla Chiesa trasparente e sinodale, “ospedale da campo”, pensata da Papa Francesco e in corso di attuazione.

Ritorna a questo punto attuale quella figura di curva sinusoidale verso l’alto che prefigura una Chiesa il cui cammino non è senza incertezze o passi indietro, ma comunque animata dallo Spirito, punta a raggiungere quella pienezza alla quale la chiama il suo fondatore, Gesù Cristo.


Roma 7/7/2019