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domenica 28 maggio 2023

Due meditazioni (su Pentecoste e su Maria) che spiazzano.



Vana credulità
 
di

Alberto Maggi 

Il cammino e la crescita del credente verso una sempre maggiore consapevolezza della realtà divina che lo circonda e lo abita non consistono certamente nel “demolire, ma nel portare a compimento” la sua adesione a Gesù e al suo messaggio (Mt 5,17). Perché questo diventi realtà occorre continuamente mettere il vino nuovo della buona notizia dentro otri nuovi, “altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti” (Mt 5,17). “Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente” (Ef 4,23) invita Paolo, e questo rinnovarsi non significa essere fuori dalla Chiesa ma, al contrario, esserle fedeli e seguirla nei suoi insegnamenti. Ma c’è un mese all’anno in cui questo rinnovarsi sembra come svanire. Per tutto maggio, il tempo tradizionalmente dedicato alla Madonna, si riesumano tradizioni, devozioni, culti, processioni, preghiere che si sperava ormai poste sotto naftalina, collocate con il dovuto riverente rispetto nel museo delle religiosità appartenenti al passato e incompatibili con la spiritualità della Chiesa odierna. Queste devozioni, ormai obsolete, hanno avuto origine in una cultura patriarcale, ormai definitivamente tramontata, quando tra genitori e figli non vi erano i rapporti attuali improntati sull’affetto. Il padre rappresentava l’autorità, la severità e il castigo e la sua era una presenza che incuteva timore; la madre era l’amore e la tenerezza, colei che si frapponeva tra il marito e il figlio sia per rivolgere richieste che questi non avrebbe mai osato fare direttamente al padre, sia per parare le punizioni del genitore. Questa cultura patriarcale fu proiettata nella sfera divina, dove Dio è il Padre di cui si ha timore e che non si osa affrontare direttamente. Soprattutto è colui che castiga (“Ho meritato i vostri castighi”). In questa prospettiva Maria svolgeva la funzione della madre sia per accogliere le richieste e i bisogni degli uomini, sia per proteggerli dal castigo divino. Così, in breve, da creatura fu trasformata in un sostituto della divinità, persino più sicura e affidabile di Dio. Ora fortunatamente la società è profondamente cambiata: i figli si rivolgono direttamente al papà senza alcun timore e la mamma non deve più esercitare la sua funzione di mediatrice e protettrice. Per questo non è possibile seguitare a rivolgersi alla Vergine usando queste formule che risentono pesantemente di una teologia e di un linguaggio ormai superati, che non possono più esprimere il sentimento di una Chiesa sempre in cammino e mai immobile. Nei vangeli l’unico soccorritore è il paraclito (Gv 14,16), lo Spirito di verità che non ha bisogno di essere invocato e tantomeno supplicato in quanto la sua presenza è garantita sempre, non solo nel momento del bisogno, come segno della protezione divina. 2 Quale Maria? Purtroppo, per un malinteso teologico, in passato Maria è stata presentata partendo dal compimento in lei del disegno di Dio. Da questa pienezza si è poi considerato in maniera retrospettiva ogni momento della sua esistenza, trasformandola così in una creatura privilegiata che già all’inizio della sua esistenza era più che perfetta, pienamente cosciente di tutto quel che l’aspettava nella vita. I vangeli non partono dalla compiutezza di Maria ma dai suoi inizi, difficili, drammatici, travagliati. Gli evangelisti non esitano a presentare una madre che non solo non comprende il figlio (Lc 2,18-19. 33), ma che addirittura si merita da lui un aspro rimprovero (Lc 2,49). Marco, l’evangelista più antico, la descrive addirittura unita al clan familiare deciso a catturare Gesù ritenuto ormai in preda alla sua follia (“Allora i suoi, sentito questo, uscirono per impadronirsi di lui; poiché dicevano: È fuori di sé”, Mc 3,21). Ma lei, a differenza degli altri, anche se non comprende l’agire di Gesù non lo rifiuta e riflette (Lc 2,50-51). Cresciuta nella pratica della Legge, ritenuta unica espressione della volontà di Dio, Maria si apre gradualmente alla parola del Figlio, che come una spada le attraverserà la vita, costringendola a scelte tanto drammatiche quanto coraggiose (Lc 2,35). Come all’annuncio dell’angelo la giovanetta di Nazaret si era detta disposta a compiere la volontà del Signore e a diventare madre del “Figlio dell’Altissimo” (Lc 1,32), ora Maria accoglie la parola del Figlio che la condurrà a divenire sua discepola: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,35). La fedeltà al cammino della Chiesa nella conoscenza sempre più grande della figura di Maria come gli evangelisti l’hanno voluta presentare, impone pertanto di rivedere modi e formule delle devozioni. Per questo la Chiesa invita “i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione, come pure dalla grettezza di mente nel considerare la singolare dignità della Madre di Dio” (Lumen Gentium, 67), e Paolo VI mise in guardia dalla “vana credulità, che al serio impegno sostituisce il facile affidamento a pratiche solo esteriori” (Marialis cultus, 38). È pertanto più che mai attuale il dovere di rivedere quelle forme che, “soggette all’usura del tempo, appaiono bisognose di un rinnovamento che permetta di sostituire in esse gli elementi caduchi, di dar valore a quelli perenni…” (MC 24). Maria, la temeraria audace galilea antimonarchica che osa affermare che il suo Signore è quello che “ha rovesciato i potenti dai troni” (Lc 1,52) in casa dei suoi parenti della Giudea, regione notoriamente filomonarchica, per un paradosso della storia è stata poi raffigurata su troni sempre più maestosi. I devoti, pur chiamandola “la mamma celeste”, non le si rivolgono come a una madre, ma la supplicano prostrati, come fanno i sudditi per essere ascoltati dai potenti e richiedere la loro protezione. Di fronte ai rischi che la vita comporta, un credente maturo non cerca di mettersi sotto la protezione della Madonna, ma nelle avversità si rafforza e diventa sempre più capace di camminare con le sue gambe. È questo che lo rende una persona adulta, proprio come Maria di Nazaret, l’intrepida donna dei vangeli che invita a mettere in pratica il messaggio di Gesù (“Tutto quello che vi dice, fatelo”, Gv 2,5), perché lei per prima ha creduto che “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37). Pertanto Maria non è la mamma-chioccia sotto il cui manto cercare protezione, ma, come intuirono molti Padri della Chiesa, da Atanasio a Efrem e ad Agostino, è una sorella nella fede, la “vera nostra sorella”, come scrisse Paolo VI (MC 56), la donna coraggiosa che fieramente e a testa alta è andata avanti nella sequela del Cristo, facendosi compagna di viaggio di ogni credente che cammina verso il raggiungimento della pienezza della vita. Per questo la vera devozione a Maria non consiste “in una vana credulità, ma procede dalla fede vera, dalla quale siamo spinti all’imitazione delle sue virtù” (LG 67). E la virtù per eccellenza, quella che ha reso grande la Madonna, è la fede con la quale ha accolto e vissuto il 3 progetto che il Padre ha su ogni creatura, cioè quello di “essere santi e immacolati” (Ef 1,4). In lei il Creatore non ha trovato ostacoli e ha realizzato così il suo disegno d’amore. Questo cammino di Maria verso la pienezza della volontà di Dio, se è stato indubbiamente immediato nell’accoglienza (“Eccomi! Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”, Lc 1,38), ha poi richiesto tempo per la sua realizzazione. Un itinerario, il suo, difficile, irto di ostacoli e sofferenze, che però ha saputo percorrere crescendo e maturando nel suo divenire discepola perfetta del Cristo, disposta a condividerne la sorte (“Stavano presso la croce di Gesù sua madre…”, Gv 19,25). E Maria si è posta coraggiosamente a fianco del giustiziato contro chi lo ha crocifisso, schierandosi così per sempre a favore degli oppressi, dei poveri, dei disprezzati e mai dei potenti che opprimono

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Pentecoste, festa difficile 
di
Don Tonino Bello
 

…… la Pentecoste è una festa difficile. Ma non perché lo Spirito Santo anche per molti battezzati e cresimati è un illustre sconosciuto. È difficile, perché provoca l'uomo a liberarsi dai suoi complessi. Tre soprattutto, che a me sembra di poter individuare così: Il complesso dell'ostrica. Siamo troppo attaccati allo scoglio. Alle nostre sicurezze. Alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l'intimità del nido. Ci terrorizza l'idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci sul mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno. Di qui, la predilezione per la ripetitività, l'atrofia per l'avventura, il calo della fantasia. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama alla novità, ci invita al cambio, ci stimola a ricrearci. C'è poi il complesso dell'una tantum. È difficile per noi rimanere sulla corda, camminare sui cornicioni, sottoporci alla conversione permanente. Amiamo pagare una volta per tutte. Preferiamo correre soltanto per un tratto di strada. Ma poi, appena trovata una piazzola libera, ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini, dei nostri comodi. E diventiamo borghesi. Il cammino come costume ci terrorizza. Il sottoporci alla costanza di una revisione critica ci sgomenta. Affrontare il rischio di una itineranza faticosa e imprevedibile ci rattrista. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama a lasciare il sedentarismo comodo dei nostri parcheggi, per metterci sulla strada subendone i pericoli. Ci obbliga a pagare, senza comodità forfettarie, il prezzo delle piccole numerosissime rate di un impegno duro, scomodo, ma rinnovatore. E c'è, infine, il complesso della serialità. Benché si dica il contrario, noi oggi amiamo le cose costruite in serie. Gli uomini fatti in serie. I gesti promossi in serie. Viviamo la tragedia dello standard, l'esasperazione dello schema, l'asfissia dell'etichetta. C'è un livellamento che fa paura. L 'originalità insospettisce. L 'estro provoca scetticismo. I colpi di genio intimoriscono. Chi non è inquadrato viene visto con diffidenza. Chi non si omogeneizza col sistema non merita credibilità. Di qui la crisi della protesta nei giovani e l'estinguersi della ribellione. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama all'accettazione del pluralismo, al rispetto della molteplicità, al rifiuto degli integralismi, alla gioia di intravedere che lui unifica e compone le ricchezze della diversità. La Pentecoste vi metta nel cuore una grande nostalgia del futuro


lunedì 20 marzo 2023

Merito... non solo. Appunti sulla meritocrazia

 



Parte 1

Come valutare il merito?

Tutto parte dalla seguente domanda birichina che mi sono posto da solo: “Meritocrazia. E' più degno di apprezzamento (e meritevole…) un manager che alza del 2% il profitto della propria azienda farmaceutica o il medico, della medesima azienda, che scopre un farmaco per una malattia rara (dal quale non si prevede pertanto un grosso ritorno in termini di profitto per l'industria farmaceutica)?”
La risposta non è facile, e forse neppure è possibile darne una definitiva. Conviene procedere con ordine.

Il termine meritocrazia viene dal greco, significa letteralmente “potere al merito” e identificando quel tipo di modalità di riconoscimento caratterizzato dal premiare le persone più meritevoli nei campi più vari (aziende, scuole, mondo della finanza, sanità, sport ecc.).
Meritevole è la persona che contribuisce al successo di un ente, dal più piccolo come una famiglia, ai più grandi, come un’azienda o addirittura una nazione.

E qui cominciano i problemi.

Quali sono i criteri per misurare il successo di un ente e come paragonare le storie di successo nell’ambito dei vari enti per premiare le migliori?

E’ più meritevole il manager che alza del 5% l’utile della propria azienda in Borsa, premiando così gli azionisti ma mandando a casa 10.000 dipendenti, o il manager che l’alza solo del 2% ma evita ogni tipo di licenziamento?
E ancora (e qui la risposta sembra a prima vista più facile) è più meritevole lo scienziato che mette a punto il vaccino per una influenza pandemica (che salva milioni di persone e che fornisce un grosso ritorno in termine di profitto) o lo scienziato che scopre un farmaco per le malattie rare (che salva migliaia di persone con un ritorno di profitto ovviamente molto inferiore al precedente)? La vita di più persone vale più della vita di meno persone? ponetevi, prima di rispondere, nei panni di una di queste ultime...

Sembra chiaro che la risposta a queste domande non possa prescindere dall’individuazione di criteri oggettivi atti a misurare il contributo dei singoli al successo e, pertanto, dal tipo di società che si vuole costruire.

Se si vuole costruire una società fondata su valori quali la massimizzazione della ricchezza individuale, del profitto aziendale, del PIL nazionale, saranno considerati meritevoli i cittadini che, con la loro attività, avranno meglio contribuito all’accrescimento quantitativo di questi valori.
Se invece la meta è quella di una società in cui si possa vivere meglio, in cui sia distribuita comunque una base di ricchezza sufficiente per una vita dignitosa, e si punti ad uno sviluppo rispettoso delle esigenze ambientali e della necessità di un solido contesto relazionale interpersonale, allora saranno considerati meritevoli i cittadini che maggiormente si saranno impegnati sul fronte della salute, dell’ambiente e di tutto quant’altro consente alle persone di avere solide e realizzanti relazioni umane.

Pertanto solo se si ha chiaro il modello di sviluppo da implementare e il tipo di società da costruire si potrà meglio capire cosa si intenda effettivamente per merito. Di qui la prima conclusione che non può esistere una concezione di merito condivisa da tutti ma che tale concezione dipenda in maniera molto rilevante dai valori sociali che i singoli cittadini professano.

E non è l’unica questione che si presenta.

E’ comune esperienza (sia pratica che scientifica) che le prestazioni individuali (professionali, sportive, relazionali) dipendono in gran parte da fattori che prescindono dall’impegno individuale. A titolo di esempio possiamo individuare alcuni di questi:

·       il quoziente di intelligenza (Q.I.);

·       l’ambiente familiare e sociale da cui si proviene;

·       il percorso di studi (spesso obbligato) portato (o non) a termine;

·       le doti fisiche e psichiche (talento) naturali.

Come valutare i meriti di due lavoratori di cui uno, con Q.I. superiore alla media, completa un incarico in pochi minuti e senza eccessiva fatica, e l’altro, con Q.I. inferiore alla media, in un’ora ma con grande impegno? Certo il primo avrà del tempo disponibile per portare a termine altri lavori e il secondo forse no, ma chi dei due è stato più meritevole?

Certo, se ci si basa solo sul criterio del profitto, il primo risulterà necessariamente vincente, ma abbiamo visto che il successo materiale non può essere il solo criterio. Magari il secondo lavoratore, più lento ma maggiormente impegnato, potrebbe essere più capace di integrarsi in un efficace lavoro di team.
E ancora, per tornare ad una domanda iniziale, come valutare, in termini di merito, lo scienziato che predispone il vaccino per milioni persone e quello invece che, magari con maggior impegno, scopre una medicina per una malattia rara? Valuteremo il merito in termini di ritorno di profitto, di numero di potenziali persone (pesandone l’importanza individuale in funzione del numero), o invece misureremo la quantità di impegno profuso da ciascuno dei due nel loro lavoro?
Come valutare l’insegnante, dotata di carisma personale, in grado di tenere la classe in termini di disciplina ma con scarsa capacità di trasmettere conoscenze e valori, con un’altra, magari meno esuberante, talvolta schiacciata dagli studenti, ma intenta, con grande impegno, a veicolare in loro sia le conoscenze tecniche che i principali valori sociali? Certo la prima arrecherà meno fastidio al Dirigente scolastico (che potrà limitare i suoi interventi di tipo disciplinare) ma dovrà essere considerata più meritevole dell’altra?

E non sono finiti gli interrogativi da porre sulla questione della meritocrazia.

Come comportarsi sui periodi di valutazione? Dovremo considerare più meritevole il ricercatore che, annualmente, produce singoli risultati di rilevanza normale, o un altro ricercatore, impegnato in un lavoro più complesso e con necessità di maggior tempo di analisi, che raggiungerà un risultato molto più importante ma dopo più anni? Generalmente si è portati a considerare il breve periodo, ma è giusto, non ci limiteremo così a premiare gli sforzi brevi e a disincentivare gli studi lunghi e complessi?

Riepilogando,

·       scopo ultimo del lavoro,

·       importanza dei fattori individuali predeterminati,

·       rapporto fra risultato e impegno,

·       lunghezza del periodo di valutazione

sono (e forse ce ne saranno anche altri) quattro elementi che mettono a dura prova la fondatezza e la ragionevolezza del motto “potere al merito”.

L’impressione netta è, che in questa come in altre questioni sociali, occorra evitare ogni fondamentalismo, ogni presunzione che problemi complessi siano risolvibili con soluzioni semplici, che ci possano essere, in ogni caso, scorciatoie in grado di evitare la indispensabile fatica del discernere, comprendere e solo alla fine decidere.

Il reale merito dovrà essere valutato tenendo conto non solo del contributo al profitto, al guadagno finanziario o al PIL, ma anche di fattori diversi quali l’impegno individuale, il contributo al bene comune e l’importanza del lavoro in rapporto al tempo impiegato. Solo in una ottica così allargata diventerebbe possibile avviare una concreta e giusta politica di riconoscimento del merito.

 

Parte 2

Ma è vero merito?

Ma, nel sostenere il principio meritocratico, siamo certi che veramente stiamo riconoscendo il merito delle persone che premiamo?
Non sarà necessario, prima di ogni cosa, mettere tutte le persone in condizione di godere delle medesimo opportunità? Ovvero garantire quella che viene definita come l’uguaglianza delle condizioni di partenza, di uguaglianza garantita come pari opportunità per arrivare al successo nel proprio campo?
Una volta che fossero definite ed implementate delle sane e positive politiche in campo scolastico, sociale, sanitario, culturale per potenziare i soggetti più deboli e consentire loro di dedicarsi alla attività desiderata perché non innescare, a questo punto, il principio meritocratico e riconoscere il valore dei più meritevoli?

Forse perché il talento del quale siamo dotati e che ci permette di raggiungere o meno determinati risultati di successo non può essere considerato solo “nostro” ma è frutto di un dono o della sorte.
Ogni essere umano nasce infatti con un determinato patrimonio genetico, con determinate doti caratteriali che vengono affinate e potenziate dall’ambiente familiare e sociale nel quale viviamo e che ci offre (ci dona) precise possibilità di crescita.
il DNA genitoriale, il contesto culturale e professionale delle nostre amicizie, la possibilità di accedere a strutture formative adeguate, le risorse finanziare necessarie per viaggiare e conoscere ambienti diversi, sono tutti elementi che giocano a favore (o a sfavore…) di ciascuno di noi nella via verso il successo.
Chi ha avuto la sorte di vivere in un contesto favorevole,  di aver goduto di una istruzione adeguata, di aver frequentato stimolanti ambienti nazionali e internazionali, ha davvero pochi meriti personali in più rispetto a chi ha avuto una sorte sfavorevole per poter pretendere e rivendicare un riconoscimento maggiore nel raggiungimento di determinati risultati.
Se si preferisce, invece di sorte, si può parlare (per chi è credente) di dono di Dio, ovvero di benevolenza divina gratuita, ma in questo caso chi ne è beneficiario non se ne può assolutamente gloriare.

Sane positive sociali in campo scolastico, sociale, sanitario, scolastico potrebbero parzialmente livellare le condizioni di partenza ma non potrebbero mai annullarle e alcune condizioni favorevoli (come il DNA, le amicizie del proprio ambiente sociale, l’influsso culturale familiare) contribuirebbero sempre ad agevolare il cammino dei più rispetto ai meno fortunati.
Si potrebbe forse affermare che, anche se non è certo che ci sia del merito a raggiungere determinati risultati in condizioni di privilegio, si potrebbe però pur sempre riconoscere e premiare l’impegno di chi ha saputo mettere a frutto il talento consegnatogli gratuitamente dalla sorte o dalla grazia divina. Si potrebbe arrivare a teorizzare una meritocrazia dell’impegno.

Siamo certi che almeno l’impegno (visto come capacità di concentrare, anche con sacrificio, i propri sforzi per raggiungere un risultato degno di riconoscimento) sia il frutto autonomo di una nostra scelta?
Non sarà anche l’impegno frutto del nostro peculiare DNA, dell’educazione che abbiamo ricevuto nel nostro contesto familiare e sociale?
La maggior parte di noi conosce ragazzi capaci tranquillamente di impegnarsi in una attività e altri molto meno capaci. Se poi andiamo ad approfondire il loro contesto familiare e sociale di questi ultimi, ci rendiamo conto che è difficile per loro acquisire capacità di impegno e di sacrificio se, intorno a loro, nessuno li sprona in questa direzione o ha dato loro un esempio di vita significativo in tal senso.

Ma allora, se il merito è frutto in maggior parte della sorte o di un dono di Dio, che senso ha parlare di meritocrazia e della necessità di riconoscere i più meritevoli? Non è meglio, se si vuol essere realisti e, allo stesso tempo, equi, rinunciare ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base del merito?


Parte 3

Che succede se rinunciamo al merito?

Rinunciare ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base di un merito che si riconosce esistente altro non vuol dire che passare da una forma di giustizia distributiva che attribuisca a ciascuno secondo i suoi meriti (tenendo conto di alcuni trattamenti minimi non comprimibili) ad un'altra che attribuisca a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Nessuno, in migliaia di anni di storia del genere umano, è riuscito nell’applicare integralmente, in un contesto di rispetto della libertà personale, il secondo criterio se non all’interno di singole piccole comunità o sette ad alta e condivisa tensione ideale.
Il criterio si è rivelato inapplicabile e dissolto nella misura in cui la dimensione di queste comunità è cresciuta, o che la tensione ideale sia fortemente diminuita.
Vuol forse dire che qualche problema di realismo e di compatibilità esiste ed è insuperabile?

Ma la rinuncia ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base di un merito porrebbe problemi anche di normale carattere pratico.
Come eserciteremmo, in una democrazia parlamentare, in una libera associazione, in un condominio, il nostro diritto di voto per scegliere una persona per un incarico? Dovremmo pur sempre valutare i comportamenti e le capacità dei singoli candidati e scegliere quella persona che, a nostro parere,… meriterebbe il nostro voto! Magari le daremmo il nostro voto sulla base dei criteri più disparati (l’età, il livello di istruzione, il genere, il colore dei capelli, il ceto, la residenza…) ma, in ogni caso, dovremmo darle una preferenza e decidere sul perché merita la mia preferenza rispetto ad un’altra persona!

Non vorrei essere semplicistico ma mi sembra che la soppressione tout court del “merito” come criterio di valutazione non sia realisticamente possibile.
Diversa è la soluzione sul come valutare il merito, su quali criteri utilizzare. Come già accennato in precedenza, il reale merito dovrebbe essere valutato tenendo conto di vari fattori quali la competenza personale, l’impegno individuale, il contributo al bene comune, l’importanza del lavoro in rapporto al tempo impiegato, non solo pertanto di fattori solo finanziari quali il contributo al profitto o alla crescita economica.
Solo in una ottica così allargata diventerebbe possibile avviare una concreta e giusta politica di riconoscimento del merito.
Questa ottica postula necessariamente un discernimento serio e il più possibile oggettivo e condiviso.
Se la valutazione personale non appare basata su dati oggettivi e misurabili nonché effettuata senza una sufficiente condivisione, diventa inevitabile che possa venire contestata da chi non si ritenga (magari a torto) inferiore a colui il quale è stato riconosciuto un merito maggiore.
A livello socio-politico certi fenomeni populistici vanno proprio ascritti a questa motivazione, la sensazione di essere stati trattati ingiustamente per una non corretta valutazione del merito personale.
Più sono trasparenti e pubblici sia i criteri per la valutazione del merito sia gli strumenti di misurazione dello stesso, più diventa difficile contestare le valutazione e i conseguenti riconoscimenti (fermo restando che l’unanimità non si potrà mai verificare).

Per chi vorrà approfondire l’argomento appena accettato in queste considerazioni, potrà leggere con profitto:

1.     Carlo Cottarelli – All’inferno e ritorno – Feltrinelli 2021

2.     Michael J. Sandel – La tirannia del merito – Feltrinelli 2021

Luca Ricolfi - La rivoluzione del merito - Rizzoli 2023

 

Roma 20 marzo 2023

martedì 31 maggio 2022

Piccola bibliografia sul rapporto fra società e Intelligenza artificiale

 


1.    Max Tegmark “Vita 3.0”, Raffaello Cortina editore, 2018

2.    Stefano Quintarelli “Capitalismo immateriale”, Bollati Boringhieri, 2019

3.    Luciano Floridi “Il verde e il blu”, Raffaello Cortina editore, 2020

4.    L. Floridi – F. Cabitza “Intelligenza artificiale”, Bompiani 2021

5.    Luciano Floridi “Etica dell’Intelligenza artificiale”, Raffaello Cortina editore, 2022

6.    C. Giaccardi – M. Magatti “Supersocietà”, il Mulino, 2022


L. Giustini - Cluster digitali - Aracne 2019

G   G. Gigerenzer - Perché l'intelligenza artificiale batte ancora gli algoritmi - Raffaele Cortina 2023


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martedì 5 aprile 2022

Il "mediatore", il professionista della costruzione della pace.

 


Il mediatore è il professionista che esercita la “Mediation”. Uso questo termine inglese per distinguere la Mediation dalle ben note figure giuridiche del contratto di ”mediazione” e del tentativo processuale di “conciliazione” (del resto altri termini inglesi come leasing e franchising sono entrati a pieno diritto nel lessico giuridico italiano).

In termini più semplici il Mediatore è il professionista della costruzione della pace. Professionista diverso da altri come l’avvocato, il notaio, il giudice, anche se ugualmente inserito nel contesto giuridico, professionista perché persona particolarmente esperta particolarmente nelle tecniche di negoziazione ma in possesso di nozioni approfondite di diritto, sociologia, psicologia, scienza della comunicazione.

Ho parlato di pace (ma forse potrei anche parlare di “unità”) perché la Mediation altro non è che un processo di pace.

Infatti la Mediation può essere definita come processo, abbastanza informale, tramite il quale due o più parti in conflitto cercano di comporlo assistiti da un terzo neutrale e indipendente (appunto il mediatore) che agevola la riattivazione del dialogo fra di loro, facilita la ripresa e la continuazione di un confronto costruttivo, innesca sentimenti di reciprocità e le aiuta a passare da una situazione di contrapposizione ad una di collaborazione, permettendo la negoziazione ed il raggiungimento di un accordo volontario, condiviso, duraturo, spesso innovativo e creativo, rivolto a realizzare gli interessi di entrambe le parti.

Non è questa la definizione anche di pace?

Il mediatore, per aiutare le parti a raggiungere questo risultato, utilizza le proprie tecniche professionali, aiuta le parti a superare i rispettivi punti di vista e posizioni negoziali ed a fare emergere i loro reali, ma spesso nascosti, desideri e interessi. Il più delle volte si viene a scoprire che i rispettivi desideri e interessi non solo non sono così contrapposti come apparirebbe dalle posizioni intraprese, ma sono invece integrabili in una soluzione che vada oltre la transazione (le “reciproche concessioni”) e si esplichi in un accordo creativo ed innovativo che supera la materia specifica del conflitto tenendo conto anche di altre opportunità di cooperazione tra le parti.

Il mediatore, a differenza del giudice, non formula giudizi o sentenze ma fa domande, stimola riflessioni, al massimo fornisce consigli o suggerimenti. Neppure attribuisce diritti e torti, ma aiuta le parti a ricercare la soluzione più appropriata per il loro conflitto. Mentre lo sguardo del giudice è rivolto al passato, ai fatti accaduti, il mediatore invita le parti a guardare al futuro, a far emergere in loro il desiderio e la convenienza di riprendere e consolidare la relazione interrotta.

Ben sapendo che l’accordo che funziona meglio ed è duraturo non è quello imposto dall’alto, bensì quello, condiviso dalle parti, che realizza i loro interessi, il mediatore punta decisamente a questo obiettivo.

Ma quali sono gli elementi essenziali di una procedura di Mediation?

E’ innanzitutto fondamentale (e ampiamente sottolineato dalla dottrina in materia) che le parti volontariamente accedano alla Mediation e volontariamente la continuino. Deve restare sempre garantito alle parti il diritto di interrompere la procedura in qualsiasi momento anche senza fornire motivazioni e comunque senza penalizzazioni. In questo contesto è essenziale la presenza di consulenti delle parti (generalmente avvocati o commercialisti) che le aiutino anche a superare i momenti di difficoltà e a tenere fisso l’obiettivo di un accordo condiviso e duraturo.

Può aiutare le parti in questa perseveranza la consapevolezza di essere coinvolti in una procedura generalmente  più veloce e più economica di quella giudiziaria.

Vale la pena di sottolineare che le parti spesso non utilizzano la Mediation in quanto non a conoscenza della stessa. La volontarietà dell’adesione (presupposto fondamentale per la riuscita) non contrasta assolutamente con la eventuale obbligatorietà di una sessione di informazione (a cura di un Mediatore professionista) sulla Mediation stessa.

Altro elemento essenziale della procedura è la riservatezza. Le informazioni e i dati scambiati durante le sessioni congiunte fra le parti e il mediatore non potranno essere utilizzate in un eventuale successivo giudizio; inoltre le informazioni e i dati forniti da ciascuna parte al Mediatore durante le sessioni private, saranno dal mediatore tenute riservate per la ricerca di una soluzione e non potranno essere divulgate all’altra parte senza un espresso consenso preventivo della parte interessata.       

La riservatezza è fondamentale per spingere la parte, assistita dai consulenti, ad andare oltre la sua posizione e fornire al Mediatoretutti gli elementi (anche meramente comportamentali, o elementi a lei sfavorevoli, o potenziali aperture) che non avrebbe potuto dire in sessione congiunta con l’altra parte se non indebolendo la sua posizione. La riservatezza permette invece al Mediatore di avere una visione più ampia del conflitto in essere e di stimolare le parti a generare alternative condivise e risolutive.

Da queste brevi considerazioni sulla Mediation (che in Italia viene comunemente chiamata conciliazione stragiudiziale “esoprocessuale”) si evince come la volontarietà e la riservatezza mal si concilino con un tentativo obbligatorio di mediazione se non, e non è superfluo ripeterlo, nella misura in cui questo tentativo venga limitato ad una seria informazione (da parte del mediatore) sulla procedura di Mediation lasciando impregiudicato il diritto della parte, una volta informata, di non accedere alla procedura.

Il grosso rischio della Mediation (o della conciliazione esoprocessuale) è che la stessa sia utilizzata da una parte con fini dilatori, pregiudicando in tal modo gli interessi dell’altra parte.

Proprio per ovviare a questo inconveniente la legislazione italiana sulla conciliazione “endoprocessuale” (in particolare il D. LGS 5/2003 in tema  conciliazione societaria e l’art. 62bis del d.l. 1141bis) sta sempre più spesso prevedendo il potere del conciliatore di esprimere una valutazione sulle posizioni delle parti, ipotizzando conseguenze processuali (in tema di attribuzioni delle spese giudiziarie) sulla parte che non accedesse a tale valutazione, qualora ripresa nella decisione del giudice.

Questa soluzione legislativa, mentre può essere efficace contro le tattiche dilatorie, attenua sostanzialmente l’elemento della riservatezza e spinge le parti ad evidenziare con il mediatore solo gli elementi a loro favorevoli, depotenziando così quell’aspetto fondamentale della Mediation diretto a far sapere al mediatore tutti gli elementi del conflitto (ivi compresi quelli degli interessi e dei desideri nascosti). Inoltre, spingendo le parti verso una soluzione transattiva, sostanzialmente forzata e non pienamente condivisa, vengono probabilmente trascurati alcuni interessi che restano non soddisfatti e possono rivelarsi forieri di ulteriori conflitti.

Sembrerebbe invece più “pagante” escogitare soluzioni nell’ambito della conciliazione esoprocessuale che potessero essere premianti nei confronti di un atteggiamento collaborativo e punitive nei confronti di uno dilatorio, fermo restando che il diritto di tutte le parti di interrompere liberamente la Mediation è già un grosso strumento di autotutela.

Al fine di stimolare le parti (e i loro consulenti) ad accedere volontariamente alla Mediation si potrebbe ipotizzare una detassazione delle spese procedurali e dei compensi dei consulenti (il mancato gettito fiscale sarebbe ampiamente compensato dalla riduzione della spesa pubblica giudiziaria) nonché l’attribuzione della esecutività agli accordi raggiunti dalle parti con l’assistenza dei loro consulenti.

Occorre anche ricordare che strumento efficace per contrastare l’utilizzo strumentale della Mediation, da parte di uno dei due contendenti, per ritardarne la soluzione è il diritto riconosciuto all’altro contendente di interrompere la Mediation liberamente in qualsiasi momento

Rimane comunque fondamentale il contributo positivo dei consulenti delle parti (particolarmente avvocati e commercialisti) e il loro rispetto degli obblighi deontologici in merito alla ricerca della soluzione e della procedura più idonea agli interesse dei loro clienti.

Termino con una considerazione ed una curiosità.

Ricordo che la Mediation (questa procedura di pace e di ricerca dell’unità) può essere applicata a diversi ambiti anche extra giuridici, quali quello familiare, condominiale, interculturale (oggi essenziale), scolastico (anche in ottica anti-bullismo); si tratta solo di passare, in tutti questi ambiti, dalla cultura della contrapposizione a quella del dialogo.

 La curiosità: studi approfonditi hanno accertato che le donne sono migliori degli uomini come professionisti della mediazione; qualcuno ha idea di quali sono le ragioni di ciò?

 

Roma 12 dicembre 2008

lunedì 21 marzo 2022

Una ubbidienza consapevole

 



“Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si avvicinò al primo e gli disse: "Figliolo, va' a lavorare nella vigna oggi".  Ed egli rispose: "Vado, signore"; ma non vi andò.  Il padre si avvicinò al secondo e gli disse la stessa cosa. Egli rispose: "Non ne ho voglia"; ma poi, pentitosi, vi andò.  Quale dei due fece la volontà del padre?» Essi gli dissero: «L'ultimo»”

Questa parabola (Matteo 21, 28-31) mi ha sempre colpito perché spesso mi è capitato di comportarmi come il figlio “neghittoso” (mi piace chiamarlo così).
Frasi come “sempre il solito bastian contrario” o “sei come una canna stonata di un organo che suona armonicamente” o “affidati a chi ha un ruolo più importante ed è sorretto dal parere di tutti gli altri” ancora mi risuonano nelle orecchie, dette ogni volta che mi dissociavo dalla opinione della maggioranza.

Questo brano del vangelo di Matteo mi conforta.

Sì, c’è l’ubbidienza pronta di chi aderisce alla volontà di un altro superiore o a quella della maggioranza perché la condivide.
C’è anche l’ubbidienza forzata di chi magari ha una opinione diversa ma la supera subito per aderire alla volontà dell’altro o degli altri.
C’è anche una ubbidienza dettata dall’amore verso l’altro o verso la comunità che spinge una persona ad aderire immediatamente al volere delle persone amate.
Infine c’è l’ubbidienza neghittosa di chi non condivide l’opinione e non aderisce. Per pigrizia? per spirito di contrarietà? per forte convinzione opposta?
Cerchiamo di approfondire.

La parabola ci dice come non sempre l’ubbidienza di chi condivide l’altrui volontà (primo tipo suindicato) o di chi forza la propria opinione a aderisce ad una volontà che non condivide (secondo tipo suindicato) sono durature. Il figlio che prontamente ubbidisce al padre in effetti non si reca a lavorare nella vigna!!
E il terzo tipo di ubbidienza, quella, altrettanto pronta, che ha la propria radice nell’amore? Molto probabilmente il figlio che avesse aderito per amore alla volontà del padre sarebbe andato nella vigna e vi avrebbe lavorato come voluto dal padre.
Certamente questo terzo tipo di ubbidienza sembrerebbe quello da raccomandare.
Ma è proprio così?
Siamo certi che mettere da parte la nostra opinione, frutto di un nostro ragionamento per aderire prontamente alla volontà (diversa dalla nostra) di una persona che amiamo sia l’atteggiamento giusto? Siamo certi che, ad esempio in ambito religioso, possa essere considerata volontà di Dio aderire alla volontà di un superiore, rinunciando all’uso di un cervello (anche esso, ricordiamolo, dono di Dio…), alla nostra capacità di ragionare, al essere uomini che in grado di pensare e decidere responsabilmente tenendo conto dei valori che ispirano la nostra vita?

Che dire dell’ubbidienza neghittosa del figlio che, nel racconto della parabola, oppone un rifiuto al padre e poi, in un secondo tempo, decide di andare.
Quale può essere il motivo del primo rifiuto?
Forse una forma di pigrizia, un momento di cattivo umore, una forma di protesta per qualche sorpruso che pensa di aver ricevuto, in una precedente occasione, dal padre o dal primo figlio?
Il vangelo non ci dice il motivo del primo rifiuto, ci dice solo che “non aveva voglia” ma “poi, pentitosi vi andò”.
E se questo rifiuto fosse stato dettato dal forte convincimento che quella del padre fosse una scelta sbagliata e che fosse giusto in qualche modo contrastarla magari proprio per il bene della famiglia?
E se il figlio neghittoso ci avesse riflettuto sopra con maggior calma, avesse soppesato altri elementi di valutazione, avesse concluso che la scelta del padre avesse un serio fondamento e, “pentitosi” dell’originario rifiuto avesse deciso di andare alla vigna?
O ancora se il figlio neghittoso fosse, anche dopo aver valutato altri elementi, rimasto convinto della giustezza della propria scelta ma poi, avendo visto il dispiacere del padre, avesse inserito anche questo sentimento nelle sue valutazioni e, per amore del padre avesse deciso di andare alla vigna?
Non è forse questa una scelta consapevole, presa in autonomia e non dettata da una ubbidienza cieca o da un gesto di amore che, peraltro, rifiuta l’eventualità di un ragionamento? Non è forse da ammirare anche questa scelta di chi l’ha presa anche superando un conflitto interiore per recuperare l’intesa con il padre e con i fratelli?

Non ho una risposta certa a questa ultime domande, so solo che, istintivamente, il figlio neghittoso mi sta molto simpatico.

 

21/03/2022                                                                Giuseppe Sbardella


lunedì 7 marzo 2022

Le "beatitudini" sono una gran fregatura?



Le “beatitudini” sono una gran fregatura?


“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”.
(Matteo 5,3-12)

Ma davvero si riesce a sentirsi felici quando si è poveri, afflitti, perseguitati, insultati…?
O sentirsi felici quando si ha un carattere portato alla mitezza, alla misericordia, alla trasparenza, alla conciliazione in un mondo che sembra premiare gli arroganti, i violenti, gli imbroglioni, i bellicosi?

Andate a dire che si è felici ad essere poveri ad un padre o una madre di famiglia che non riesce ad arrivare a fine mese, ad essere afflitti ad un ammalato di tumore, ad essere insultati e perseguitati ad una persona sotto il dominio di uomini o donne potenti ed arroganti!
Se la felicità è intesa come sentimento di soddisfazione per aver realizzato un proprio obiettivo in linea con la cultura dominante (la ricchezza, il potere, il successo professionale, la possibilità di decidere autonomamente e di imporre ad altri le proprie decisioni…) allora no, non ci siamo, le cosiddette “beatitudini” evangeliche sono solo una grande fregatura per non dire una truffa bella e buona! Al massimo esse potrebbero rappresentare un invito al masochismo!
Ma può essere, se non Dio, almeno una persona affidabile uno come Gesù che proclama queste false beatitudini? Sembrerebbe questa un’altra prova a favore di una posizione atea.

Forse non tutto è così semplice e lineare, forse è meglio approfondire un po’.

Una volta ascoltai un valente biblista affermare che la corretta traduzione del termine greco “macarioi” (tradotto in italiano nella brano delle beatitudini con “beati”) sarebbe “il Signore è vicino a…”.
Allora l’intero brano delle Beatitudini andrebbe inteso come “il Signore è vicino ai poveri, ai miti, agli afflitti, ai misericordiosi, ai perseguitati…”.
Un completo capovolgimento di prospettiva… la felicità non è il  sentimento di soddisfazione per aver realizzato un proprio obiettivo psicologico o materiale in linea con la cultura dominante (potere, successo, ricchezza…), la felicità è piuttosto il sentimento di fiducia in un Signore che non ci è lontano ma ci è tanto più vicino quanto più ci troviamo in una delle situazioni descritte nelle beatitudini.
Una conferma di questa interpretazione ci può venire dall’esempio e dalla testimonianza di uomini antichi e moderni, come S. Francesco d’Assisi, S. Ignazio di Loyola, Albert Schveitzer, S. Chiara da Montefalco, M. L. King, Padre Kolbe, Edith Stein, San Giovanni Bosco, Salvo d’Acquisto, Dino Impagliazzo[1]… uomini e donne che hanno vissuto, in diversi frangenti storici, le beatitudini, che non avevano nulla per sentirsi felici secondo i canoni della cultura dominante ma che pure lo erano (e lo dimostravano) perché sentivano il Signore vicino a loro!

Certo, vivere così non è assolutamente facile anche perché tutto ci spinge in una direzione opposta, ma forse… una strada sicura, una “scorciatoia” infallibile c’è!
Questi uomini erano e sono felici perché, assistiti e sostenuti dal sentire vicino il Signore, hanno visto e vedono come fratelli e sorelle tutti gli uomini e le donne che hanno incontrato e incontrano lungo la strada della loro vita.
Proprio così, il sentimento di fraternità è ciò che ci spinge a sollevare i poveri, a consolare gli afflitti e i perseguitati, ad essere solidali con i miti, i misericordiosi, i trasparenti, i pacificatori.
La fraternità è quel sentimento che ci potrebbe permettere di costruire una società, un mondo, a misura di “beatitudini”, quel sentimento che ci aiuta a viverle in pienezza e a trasmettere così la felicità a chi ci circonda, a quello che siamo soliti chiamare il nostro prossimo.

Essere fratelli, essere veri amici (persone che danno amore) di tutti… in fondo l’intero brano delle beatitudini potrebbe essere più brevemente riscritto cosi
Beati i fratelli e amici di tutti…

 

Roma 7 marzo 2022                                                   Giuseppe Sbardella



[1] Dirigente dell’INPS in pensione, membro del Movimento dei Focolari, sempre rivolto ad aiutare gli “ultimi”, ideatore delle mense di soccorso ai poveri e ai rifugiati nelle Stazioni Ostiense e Trastevere di Roma, morto nell’estate del 2021.


venerdì 4 marzo 2022

Libertà dalla manipolazione mediatica?

 E’ possibile liberarsi della manipolazione mediatica?

Nota importante: una breve bibliografia sull’argomento oggetto delle seguenti considerazioni è indicata al termine delle stesse.

Domande senza risposta?

Al termine della mia riflessione su “meglio sapere, o saper fare o, ancora… saper essere?” (si può leggere il contenuto su https://giuseppesbardella.blogspot.com/2022/02/meglio-sapere-o-saper-fare-o-ancora.html ) mi sono chiesto se l’Intelligenza Artificiale (di seguito la chiamerò IA) potrà mai rispondere a domande come queste:
a) quale è il senso della mia vita?
b) perché sento che una mia scelta personale, nonostante si presenti ragionevole sulla base dei dati che ho raccolto, non mi soddisfa pienamente nel mio intimo?
c) quando è che mi sento pienamente realizzato?
d) che risposta do a questo mio senso del mistero, dell’infinito, del sacro, che mi trascende?
e) l’amore (sia sensuale che non), l’amicizia, l’ empatia sono solo reazioni fisico / chimiche del mio corpo o c’entra qualcos’altro?
E ancora:
f) come fare a distinguere il bene dal male?
g) quali sono i valori ai quali non potrò mai rinunciare se non al costo di non considerarmi più un uomo?
La risposta che mi do è No, molto difficilmente l’IA potrà rispondere a domande come queste (e altre potrebbero essere aggiunte da qualche lettore…), comunque sempre riguardanti l’ambito della metafisica o dell’etica.

Domande con risposta da parte dell’IA

L’IA sarà invece in grado, prima o poi, di rispondere, più velocemente e esaurientemente, dell’uomo, a domande che possano essere risolte tramite:
1) la raccolta delle informazioni necessarie;
2) il successivo loro collegamento rivolto ad elaborare una risposta logica.
Ma cosa vuol dire raccogliere informazioni, collegarle fra loro ed elaborarle in una risposta se non ragionare e, ragionando, dare una risposta toh! “ragionevole”?
Maggiore è il numero di informazioni da trovare, collegare ed elaborare, maggiore è l’efficacia della IA rispetto all’ intelligenza umana.
E’ estremamente importante da sottolineare che, a parte le domande poste nell’ambito metafisico e/o morale, tutte le altre potranno molto probabilmente ottenere risposte più rapide e precise dalla IA.
Non solo, occorre tener presente che l’IA, allo stato attuale del suo sviluppo, può anche riflettere sulle proprie risposte, farsi domande conseguenti e trovare le relative risposte. Già esistono computer che si rendono conto dei propri limiti di elaborazione e si ristrutturano in maniera autonoma (ovvero senza l’intervento umano)  per superare tali limiti (ad esempio creando nuovo software al loro interno).
Praticamente, con la solita eccezione dell’ambito metafisico / etico, già in larga parte l’area della memoria e della razionalità è stata espropriata all’uomo a favore dell’informatica e ancor più della IA.
Per restare su aspetti semplici, basta notare quante volte andiamo sui motori di ricerca per trovare una informazione ( la data di un evento storico, il nome di un personaggio…) o, ancora, quante volte facciamo una domanda, anche complessa e articolata, sui motori di ricerca e questi ultimi ci danno velocemente una risposta esatta.
Senza dimenticare il sostegno che l’IA offre allo sviluppo della scienza e di soluzioni scientifiche all’avanguardia. Alzi la mano chi è convinto che l’IA non abbia contribuito in maniera determinante alla velocità con la quale sono stati trovati i vaccini MRNA per combattere il Covid 19!

Tutto facile allora?

Se la IA risolve i problemi di ordine logico molto più velocemente ed esattamente di noi, se offre un contributo determinante allo sviluppo scientifico, vuol dire che può solo facilitarci la vita?
Forse non è proprio così.
Non sarà forse che con l’avanzare della IA nel campo della razionalità e della memoria quantitativa e meccanica, si ritrarrà lo spazio della razionalità e della memoria umana?
Quanti di noi usano già l’app “calcolatrice” del proprio smartphone per effettuare calcoli anche facili che fino a due decenni fa era normale effettuare a mente sulla base delle famigerate “tabelline” scolastiche e dell’uso delle facoltà cerebrali di computo?
Quanti di noi, per andare in automobile in un posto lontano o anche vicino ma sconosciuto sono ancora soliti andare a cercare questa location su mappe cartacee o (e qui già entra in campo l’informatica) su google maps o app similari invece di affidarsi direttamente al “navigatore” installato sulla propria autovettura o sul proprio smartphone?
Quanti di noi, per scegliere o acquistare una automobile o una casa (o qualsiasi altro oggetto di valore), si affidano ad un programma software (ad esempio, nella maniera più semplice, un foglio Excel approntato da noi stessi o, meglio, già predisposto) nel quale inserire (o trovare già inseriti) i criteri per orientare la scelta tra le diverse alternative (ad esempio, nel caso di una automobile, la casa di produzione, la velocità, il consumo, il tipo di energia che usa, il cambio ecc.) dando a ciascun criterio un peso per giungere ad una valutazione ponderata della scelta fra le diverse alternative? Ci siamo chiesti come avremmo fatto due decenni fa e come molti noi ancora fanno? Forse avremmo usato la nostra capacità di memoria e di ragionamento! Magari avremmo attivato i nostri amici e parenti, ci saremmo consultati con loro invece che… con il computer!
Certo, l’informatica in generale e, più in particolare l’IA sta riducendo i tempi di elaborazione delle nostre scelte personali; ma sta anche riducendo i tempi trascorsi ad utilizzare le nostre facoltà cerebrali e, attenzione! non sta forse atrofizzando, a causa del loro non uso, parte di tali facoltà cerebrali?
E ancora, non sta forse diminuendo la nostra capacità di socializzazione, l’attitudine ad attivare ed a consolidare costruttivi rapporti interpersonali? Sarebbe interessante chiedere, su questo aspetto, il parere di quanti stanno già spendendo molto del loro tempo di lavoro in smart-working.
Fra dieci anni saremo ancora in grado fare un calcolo semplice senza usare l’app “calcolatrice”, andare in un luogo lontano sulla base di una mappa rinunciando all’uso del “navigatore”, fare scelte personali di acquisto senza ricorrere all’aiuto dell’informatica, uscire di casa per incontrare fisicamente gli amici e/o i colleghi di lavoro?
Ma, soprattutto, saremo capaci di fare scelte personali o l’IA le farà in effetti al posto nostro illudendoci del contrario?
Questo è il grosso rischio, più l’IA aumenta il suo spazio nell’ambito della realtà materiale suscettibile di razionalizzazione, più diminuisce nello stesso ambito lo spazio riservato all’uomo e alla sua intelligenza.
 

Una umanità teleguidata?

Se l’attività di analisi di dati, di loro valutazione, di scelta dell’opzione migliore è svolta in maniera più veloce ed efficace da parte dell’IA che da parte dell’uomo,  non potrebbe accadere di trovarsi di fronte ad una totale resa dell’uomo nell’ambito delle realtà fisiche e materiali e ad un suo rifugiarsi nell’ambito di quelle più intime o di quelle spirituali?
Non potremmo assistere ad una umanità teleguidata in toto da un superpotere dell’IA tramite lo strumento della manipolazione mediatica?
Se l’IA è in grado di conoscere tutto di noi stessi (dati personali, preferenze di ogni tipo, capacità di spesa, simpatie politiche…) cosa potrebbe impedirle di usare queste informazioni per dirigere la nostra vita in una direzione e verso obiettivi propri dei pochi che riescono a governare l’IA? Non abbiamo già avuto esempi di come la manipolazione mediatica riesca ad influenzare scelte elettorali (gli esempi abbondano) o scelte collettive di consumo (addirittura diversificando i prezzi sulla base della capacità individuale di spesa e della propensione al consumo)?
L’IA non potrebbe essere lo strumento per attuare, da parte di pochi, una dittatura informatica tramite la manipolazione mediatica?
Ritenete che si tratti di domande puramente teoriche, di astruserie di persone che si divertono con elucubrazioni mentali?
Forse chi avrà voglia di leggere i testi citati nella piccola bibliografia indicata alla fine di queste considerazioni, potrebbe avere l’opportunità di condividere questo timore.

Come imporre una dittatura informatica?

Quale potrebbe essere una strategia per creare questa situazione nella quale, attraverso un uso spregiudicato (ma mirato…) della IA si possa pervenire ad influenzare pesantemente il comportamento di milioni di persone?
Come pervenire a instaurare quella che più sopra abbiamo definito una “dittatura informatica”?

La strategia probabilmente si dovrebbe strutturare attraverso tre precise serie di azioni.

1.     In primo luogo la raccolta di dati.
Occorre che vengano reperiti, tracciati e quindi raccolti (al fine di poterli elaborare) i dati personali del maggior numero possibile di persone, generalità individuali (data di nascita, residenza, stato civile, situazione familiare), preferenze di consumo, disponibilità finanziarie, simpatie politiche, tipo e qualità delle amicizie…
Si giungono così a creare innumerevoli (miliardi?) di profili individuali e a catalogare e classificare tali profili in blocchi che comprendano profili con caratteristiche abbastanza omogenee fra di loro.

2.     In secondo luogo la costruzione e diffusione di quelle che semplicisticamente vengono definite “fake news”.
In realtà non si tratta di costruire e diffondere notizie interamente false, bensì anche notizie parzialmente false oppure di bloccare la diffusione di notizie vere ma che potrebbero far aprire gli occhi su precedenti o contemporanee informazioni false.
E’ una vera e propria azione di falsificazione delle realtà trasmessa con una carica psicologica tale da restare impressa, più che nella parte cerebrale, in quella emotiva, nella cosiddetta “pancia” delle persone[1].

3.     In terzo luogo la creazione di nuovi paradigmi, ovvero nuovi schemi di riferimento mentali.
Tutti noi usiamo questi schemi, ovvero facciamo (in maniera pressoché automatica) una ricerca veloce nella nostra memoria per ricordare come ci siamo comportati in un certo frangente similare e tendiamo a ripetere quel comportamento, particolarmente se quel tipo di comportamento ci ha permesso di conseguire risultati positivi (ci diciamo internamente “ha funzionato bene”
Ogni volta in più che implementiamo quello stesso comportamento tendiamo, con questa continua ripetizione, a consolidare un preciso schema di riferimento.
Può però capitare che quel certo comportamento, che più volte ha funzionato in maniera ottima, dimostri la sua inattitudine a “funzionare” in una situazione che ci pareva uguale ad altre verificatesi in precedenza e che invece era solo apparentemente uguale ma, in effetti alquanto diversa.
E’ quello che accade allorché un paradigma, uno schema di riferimento mentale, si trasforma in una “distorsione cognitiva”, ovvero pensiamo di conoscere una determinata situazione, mentre in effetti la situazione è diversa.
Sulla base delle informazioni in nostro possesso “leggiamo” una situazione in un determinato modo e applichiamo a quella situazione uno schema di riferimento che, nelle volte precedenti, ha funzionato benissimo sfruttando al meglio a nostro favore le potenzialità offerta da quel particolare contesto.
Che accade però se le informazioni che abbiamo raccolto non sono vere o, peggio, sono state falsificate da altri proprio per modificare il nostro comportamento? Accade che il nostro comportamento, implementato in base una visione distorta della realtà, risulta inadeguato agli scopi prefissi.

Ricapitolando i punti precedenti, possiamo dedurre che una “entità” (politica o economica), che sia pienamente a conoscenza delle nostre caratteristiche personali (peculiarità fisiche, dati logistici, familiari e finanziari, preferenze di gusti, opinioni culturali e politiche…) può, inviandoci false informazioni, attivare in noi determinate distorsioni cognitive e condizionare pesantemente il nostro comportamento senza che noi ne siamo consapevoli.
Ma può una “entità” essere in grado di fare questo a livello mondiale, può raccogliere i dati di miliardi di persone, elaborarli creando profili sia personali che diversificati per tipologia di persone, può mirare e veicolare le informazioni false in maniera da differenziare le stesse in funzione delle diverse persone e delle diverse tipologie, può praticamente orientare il comportamento del mondo intero?
Non so se già questo sia possibile ma certamente lo sviluppo della IA lo renderà possibile. Sarà invero possibile imporre una “dittatura informatica” a livello globale attraverso la manipolazione mediatica delle menti delle persone.

Come difenderci?

Come difenderci, a livello individuale, dal rischio che la nostra mente possa essere mediaticamente manipolata e, di conseguenza, il nostro comportamento, essere condizionato e indirizzato verso fini prescelti da altri?
Quando ero poco più che ventenne e avevo in animo di fare la mia tesi di laurea sui valori della democrazia, mi capitò di leggere “I fondamenti della democrazia” di Hans Kelsen[2].
Kelsen, giurista e sociologo di rilievo mondiale, appartenente alla Scuola di Vienna, sostiene, in questo libro, che il fondamento della democrazia (o, per meglio chiamarla, della liberaldemocrazia) è la cultura del “dubbio”.
Se non ho dubbi, argomentava Kelsen, se penso di avere ragione, di possedere pertanto la “verità” su un determinato argomento, se penso, di conseguenza, che la mia verità non possa che essere sinonimo di bene sia per me che per gli altri (altrimenti non sarebbe “verità”…), quali remore dovrei avere non solo a proporla, ma addirittura ad imporla agli altri... per il loro bene?
A rifletterci, è questo il principio implicito nella dottrina della maggior parte delle religioni a sostegno della loro attività missionaria. Convertire diventa sinonimo di imporre all’altro l’adesione ad una certa fede perché in tal modo realizzerà il suo bene.
Secondo Kelsen solo se mi pongo in un atteggiamento di dubbio, sono capace di presentare la mia opinione all’altro, di ascoltare serenamente la sua e, in uno spirito di ascolto reciproco ( di “dialogo”…), camminare insieme verso la ricerca della verità.
Nel corso della mia vita talvolta ho avuto la forza (perché non è facile…) di assumere questa cultura del dubbio e mi sono chiesto, in certe situazioni in cui avevo espresso una opinione o adottato un comportamento che altre volte era stato giusto; “se invece avessi torto?”, “se quello che dice il mio interlocutore fosse vero?”, “non è che sto insistendo a seguire la mia idea per ostinazione o, peggio, per pigrizia?”.
Ebbene, quando ho avuto questa forza sovente mi è capitato di cambiare la mia opinione, di accettare in tutto o, più spesso, parzialmente, quella del mio interlocutore.
Avere questa cultura del dubbio può essere il primo passo per l’acquisizione di una maggiore libertà di giudizio rispetto alle informazioni che cerchiamo e troviamo autonomamente o che ci piovono addosso da altri.
Ma vivere con questa cultura del dubbio non deve sfociare nell’abbracciare uno scetticismo estremo, bensì nell’evitare di accettare acriticamente informazioni infondate e, invece, nel diventare capaci di valutarle e di discernere, nel mare di informazioni nel quale nuotiamo, quelle vere e utili da quelle false o inutili.
Una volta acquisita una sana cultura del dubbio, il passo successivo per combattere le distorsioni cognitive consiste nel saper ragionare correttamente e soprattutto nel confrontarsi costantemente con altri.
Leggere molto, leggere, con mente aperta, sia testi in linea con le nostre opinioni che testi discordanti e riportanti opinioni diverse, leggere attentamente notando come le persone articolano e motivano i loro ragionamenti, leggere acquisendo un ampio bagaglio informativo, permette di ampliare non solo le nostre informazioni ma soprattutto la nostra capacità di ragionare ed esprimere giudizi corretti.[3]
Ma non è ancora sufficiente.
Un altro e ultimo passo deve essere quello di confrontare le nostre opinioni, i nostri giudizi con quelli di persone che stimiamo (e che magari hanno opinioni e giudizi diversi) in un dialogo in cui la serenità, la sincerità, la assertività e, soprattutto, la voglia di ascoltarsi reciprocamente rappresentino caratteristiche comuni.
Coltivare sempre il dubbio, leggere (o vedere…) acquisendo il maggior numero possibile di informazioni, classificare, collegare e articolare queste ultime sulla base di ragionamenti corretti, mettere alla prova le nostre conclusioni in confronto e dialogo con amici che partono da conclusioni diverse, tutto ciò dovrebbe permettere di raggiungere un certo livello di capacità mentale e intellettiva sufficiente per riconoscere una gran parte delle informazioni false e fuorvianti e per limitare l’influenza della nostre distorsioni cognitive.
Ultima virtù da coltivare è l’umiltà, ovvero la capacità di essere consapevole che, nonostante tutti i tentativi che possiamo mettere in atto, la nostra imperfezione innata di essere umani non ci consentirà mai di essere sicuri di essere completamente liberi da potenziali manipolazioni (di qualsiasi tipo esse siano).

Roma 04/03/2022                                                                              Giuseppe Sbardella

 

Di seguito una breve bibliografia sulla intelligenza artificiale (IA)

1.     M. Tegmark “Vita 3.0”, Raffaele Cortina editore 2018

2.     L Floridi, F. Cabitza, “Intelligenza Artificiale”, Bompiani 2021

3.     L. Floridi “Il verde e il blu”, Raffaele Cortina editore 2020

S. Quintarelli “Capitalismo immateriale”, Bollati Boringhieri 2019




[1] E’ assodato che le emozioni negative (dolore, rabbia, antipatia…) hanno un carica tre volte superiore alle emozioni positive. Pertanto non per caso spesso le fake news sono mirate a suscitare emozioni negative.

[2] Hans Kelsen “I fondamenti della democrazia” edizioni Il Mulino 1966

[3] Quando scrivo “leggere” in effetti metto in evidenza una mia distorsione cognitiva. Per persone più giovani lo stesso effetto si può raggiungere, più che leggendo testi, “vedendo” video ferme restando le altre condizioni già esposte nel caso di lettura.