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domenica 1 dicembre 2019

Considerazioni sulla lavanda dei piedi


Sin da quando ero adolescente, mi sono sempre posto parecchie domande davanti alla dottrina cattolica sulla Eucarestia, in particolare sulla affermazione della presenza reale del corpo e del sangue di Gesù sotto le apparenze del pane e del vino (la cosiddetta transustansazione).
Come si concilia tale dottrina con le leggi della fisica? Ma, soprattutto quale è il suo significato? È soltanto un fenomeno quasi magico che si verifica ogni volta che si celebra la S. Messa? O vi si cela qualcosa che, allo stesso tempo, è molto profondo e molto concreto?
Sono domande che mi sono portato dietro per anni, e che solo quest’anno hanno forse ricevuto risposta nel corso delle mie meditazioni sul Vangelo di Giovanni, fatte con l’aiuto degli spunti datemi dai libri del Card. Martini e dal caro compianto amico Padre. Ugo Vanni.
In effetti mi aveva sempre colpito la circostanza che Giovanni, contrariamente agli altri evangelisti, non avesse fatto  nel suo Vangelo alcun cenno all’Eucarestia, ma avesse posto al centro della narrazione dei fatti dell’ultima cena, non l’Eucarestia, ma la lavanda dei piedi. Eppure Giovanni è molto attento alla gestione dei simboli nel suo Vangelo, e sicuramente, l’istituzione dell’Eucarestia è un fatto pieno di simboli e, come tale, avrebbe dovuto attrarre la sua attenzione narrativa!

Prima di procedere, leggiamo insieme i versetti da 1 a 17 del Vangelo di Giovanni, relativi appunto all’episodio della lavanda dei piedi.

1 Or prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta per lui l'ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.
2 Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, 3 Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio se ne tornava, 4 si alzò da tavola, depose le sue vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse. 5 Poi mise dell'acqua in una bacinella, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli, e ad asciugarli con l'asciugatoio del quale era cinto. 6 Si avvicinò dunque a Simon Pietro, il quale gli disse: «Tu, Signore, lavare i piedi a me?» 7 Gesù gli rispose: «Tu non sai ora quello che io faccio, ma lo capirai dopo». 8 Pietro gli disse: «Non mi laverai mai i piedi!» Gesù gli rispose: «Se non ti lavo, non hai parte alcuna con me». 9 E Simon Pietro: «Signore, non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo!» 10 Gesù gli disse: «Chi è lavato tutto, non ha bisogno che di aver lavati i piedi; è purificato tutto quanto; e voi siete purificati, ma non tutti». 11 Perché sapeva chi era colui che lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete netti».
12 Quando dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe ripreso le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: «Capite quello che vi ho fatto? 13 Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. 14 Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15 Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io. 16 In verità, in verità vi dico che il servo non è maggiore del suo signore, né il messaggero è maggiore di colui che lo ha mandato. 17 Se sapete queste cose, siete beati se le fate.

Perché Giovanni ha narrato, con dovizia di particolari, questo episodio e ha invece  trascurato quello molto più importante, nell’immaginario comune cattolico, dell’Eucarestia?
Un barlume di risposta mi è arrivato leggendo le illuminate considerazione di Carlo M. Martini e di Ugo Vanni.
Forse Giovanni ha voluto narrare la lavanda dei piedi trasformandola in un simbolo, un segno  (dire sacramento potrebbe essere corretto ma forse sarebbe eccessivo) più immediatamente comprensibile, dell’Eucarestia?
Ragioniamoci.
Sappiamo bene che, nel Sacrificio Eucaristico, Gesù in qualche modo anticipa (come affermò Joseph Ratzinfer, futuro Benedetto XVI, in una meditazione di qualche anno fa nella Basilica di S. Giovanni a Roma) la sua Passione (Morte e Risurrezione) e che tale Passione viene ricordata (come memoriale) e attualizzata in ogni S. Messa.
Ebbene scorrendo i versetti 4 e 12, nei quali si legge come, in una forma quasi solenne, Gesù, prima si spoglia di tutto e poi si riveste, non viene in mente come questa spoliazione e questo rivestimento possano rimandare alla sua Morte in croce (spogliato anche della vita) e poi alla sua Risurrezione (rivestimento della massima gloria divina)?
E se leggete come Gesù abbia voluto lavare i piedi agli apostoli (versetto 5) non vi viene in mente il momento della cena eucaristica nel quale Gesù distribuisce il pane e il vino (cioè dona se stesso) agli apostoli?
Ancora,  l’invito fatto a Pietro, che mostra una forte ritrosia, a farsi lavare da Lui (versetto 8), non vi richiama l’invito eucaristico “prendete e mangiate, questo è mio corpo… prendete e bevete, questo è il mio sangue”?
Infine l’invito (versetto 14) agli apostoli a seguire il suo esempio lavandosi i piedi gli uni gli altri, non vi richiama l’invito eucaristico “fate questo in memoria di me”?

Sì a me pare proprio, o almeno così lo spiega la mia sensibilità spirituale, che Giovanni abbia voluto replicare, con la sua narrazione simbolica ma estremamente concreta, la narrazione, sempre un po’ criptica, dell’Eucarestia da parte degli altri evangelisti.
Come dunque interpretare e vivere nei fatti il messaggio dell’Eucarestia?
Se abbiamo capito quello che Lui ha fatto (versetto 12) non ci resta che condurre la nostra vita come un servizio agli altri, sapendo peraltro che, se lo faremo, saremo ripieni di beatitudine, ovvero di felicità (versetto 17).  


lunedì 14 ottobre 2019

Giustizia intergenerazionale. Un post impopolare...

Il 1/1/2006 acquisii a 57 anni il diritto alla pensione con 31,5 anni di anzianità lavorativa e 3,5 anni di riscatto di laurea.
Andare in pensione non mi entusiasmava ma l'azienda mi fece un'offerta di "esodo" volontario incentivato (e mi fu chiarito, non perché lavorassi male, ma perché si doveva scendere di personale per mettere a posto i conti) e capii che sarebbe stato opportuno per me accettare l'offerta innegabilmente vantaggiosa.
Ora, dopo circa 14 anni prendo una pensione dignitosa di circa 2250 euro (sicuramente non d'oro, né d'argento...) ma mi rendo conto che la mia situazione è stata ed è di privilegio rispetto a chi dovrà aspettare fino a 65-67 anni per andare in pensione e rispetto a tanti giovani per i quali la pensione è seriamente a rischio.
Di fronte alle continue proposte di legge di alzare l'età pensionistica o di fissare palliativi temporanei o di dare assistenziali redditi di cittadinanza, mi sono chiesto se non esistesse una strada alternativa a queste magari chiedendo un contributo a quelli come me che hanno goduto e godono di un indubbio privilegio.
La strada che ho individuato e che mi permetto di esternare è la seguente.
1) Si fissa un contributo annuale, ad aliquota crescente progressiva, a partire dalle pensioni dignitose come può esserlo la mia.
2) Si approntano titoli di stato con lo scopo definito di finanziare piani di investimento per l'occupazione giovanile.
3) Si invitano le aziende a preparare anche esse piani di investimento per l'occupazione giovanile finanziabili con appositi titoli azionari o obbligazionari diretti a finanziare tali piani.
4) Si chiede ai pensionali di acquistare (con procedure bancarie semplificate) titoli statali (di cui al punto 2) o privati (di cui al punto 3) per un importo almeno pari a quanto risulta dall'applicazione dell'aliquota.
5) Tali titoli resterebbero comunque identificati come investimenti (nel caso di azioni) o prestiti nel caso di bond pubblici o privati) a medio/lungo termine in maniera di permettere un cospicuo finanziamento dei piani e, nel contempo, la previsione del rientro dei capitali investiti in capo ai pensionati.
Questa soluzione (ovviamente accennata negli elementi essenziali, ma che dovrebbe essere perfezionata da persone esperte del settore) permetterebbe aprire un canale diretto intergenerazionale per far finanziare con i soldi degli attuali pensionati piani di lavoro regolari per le giovani generazioni.
Da non sottovalutare che la prevedibile ripresa dell'occupazione giovanile sarebbe utile anche per il finanziamento delle pensioni future degli attuali pensionali le quali sarebbero a forte rischio in caso di permanere di un'alta disoccupazione giovanile.
E' un sogno? una alternativa non praticabile? o una idea sulla quale poter lavorare?
 

domenica 15 settembre 2019

"A 18 anni via da casa, serve servizio civile di 12 mesi"

Da una intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 15/9/2019

Filosofo. Antropologo. Psicologo. Psicoanalista. Sociologo. Dal professor Umberto Galimberti ti aspetteresti un eloquio iniziatico all’altezza delle materie che ha insegnato, compendiate nelle 1.637 pagine del Nuovo dizionario di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (Feltrinelli), alla cui stesura ha faticato per 15 anni. Invece parla ancora come «il numero 8» — si definisce così — dei 10 figli di Ernesto, ex partigiano, venditore di cioccolato Theobroma improvvisatosi impiegato bancario, che in un paio di locali aprì a Biassono la prima agenzia del Credito artigiano e morì di tumore il giorno dell’inaugurazione. «Da bambino andavo in ufficio ad aiutarlo: mi faceva timbrare gli assegni. Avevo 14 anni quando mancò. Sognavo di diventare medico. Ma due borse di studio mi spalancarono le porte di Filosofia alla Cattolica di Milano. Lì trovai i miei maestri: Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Righi ed Emanuele Severino, con il quale mi laureai. C’erano anche Gianfranco Miglio e Francesco Alberoni. Poi lavorai per tre anni nel manicomio di Novara, dove conobbi il primario Eugenio Borgna. Fui io a obbligarlo a scrivere, prima non lo conosceva nessuno. Li sento ancora, Severino e Borgna. Ci vogliamo molto bene. Non ho mai capito il parricidio».
Fortunato ad avere dei padri così.
«Aggiunga Karl Jaspers, che frequentai a Basilea e che mi avviò alla psicopatologia. E Mario Trevi, con cui feci il percorso psicoanalitico. Oggi l’analisi non è più possibile. L’ultimo che ho accompagnato per cinque anni è stato il regista Luca Ronconi. Ma solo perché lì c’era un uomo. Capace di riflettere, incuriosito dalla sua vita».
Eppure qui nello studio vedo che c’è ancora il lettino dello psicoanalista.
«Non ho mai smesso di ricevere. La gente mi chiede di risolvergli i problemi. Invece la psicoanalisi è conoscenza di sé: sapere chi sei è meglio che vivere a tua insaputa. Quanto al dolore, non lo puoi cancellare con i farmaci».
L’angoscia più frequente qual è?
«Quella provocata dal nichilismo. I ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo. Per loro il futuro da promessa è divenuto minaccia. Bevono tanto, si drogano, vivono di notte anziché di giorno per non assaporare la propria insignificanza sociale. Nessuno li convoca. Non potendo fare nulla, erodono la ricchezza accumulata dai padri e dai nonni».
Stanno male anche i genitori?
«Eccome. Senza che lo sappiano, non sono più autori delle loro azioni. Nell’età della tecnica sono diventati funzionari di apparato. Vengono misurati solo dal grado di efficienza e produttività. Nel 1979, quando cominciai a fare lo psicoanalista, le problematiche erano a sfondo emotivo, sentimentale e sessuale. Ora riguardano il vuoto di senso».
La mia è la prima generazione che consegna ai suoi figli un futuro ben peggiore di quello lasciatoci in eredità dai nostri padri, spesso nullatenenti.
«Fino a 37 anni ho insegnato storia e filosofia nei licei. Guadagnavo 110.000 lire al mese. Un appartamento ne costava 75.000 al metro quadro. In famiglia abbiamo tutti studiato. Le mie cinque sorelle frequentavano l’università e intanto facevano le colf. Oggi mi tocca aiutare la mia unica figlia, che ha tre bambini».
Ai figli dei nostri figli che accadrà?
«Non riesco a vedere il loro futuro. Il domani non è più prevedibile. La tecnica ha assoggettato il mondo. Scambia lo sviluppo per progresso. È regolata da una razionalità rigorosissima, raggiunge il massimo degli obiettivi con il minimo dei mezzi e mette l’uomo fuori dalla storia. Ma l’amore non è razionalità, e neppure il dolore, la fede, il sogno, l’ideazione lo sono».
Il destino dei giovani dovrebbe essere in cima all’agenda del governo?
«Certo. Ma la politica non è più il luogo della decisione. Ha delegato le scelte all’economia, e l’economia alla tecnica. È finita l’idea di bene comune che c’era negli anni Cinquanta. Rimane solo quella della poltrona. Non vi è alcun dubbio che i 5 Stelle stanno al governo solo per non tornare a fare i disoccupati e i leghisti volevano votare per avere la maggioranza assoluta e instaurare il sovranismo al soldo di Vladimir Putin».
Forse spariranno i nipoti: solo il Giappone procrea meno dell’Italia.
«Colpa dell’edonismo sfrenato: i figli lo ostacolano. Siamo il popolo più debole della terra. Per mangiare, apriamo il frigo anziché sudare nei campi. Ci difendiamo dal resto del mondo con il colonialismo economico, che ha sostituito quello territoriale. L’impero romano cadde così, fra postriboli e spettacoli circensi. Non lavorava più nessuno. Dovette importare i barbari per fare le guerre e le opere idrauliche. Un tempo pensavo che le civiltà finissero per cause economiche. Ora invece sono certo che muoiono per decadenza dei costumi».
Mi pare che gli italiani lavorino.
«Ho parlato alla Confartigianato di Vicenza. I padri si lamentavano perché i figli non vogliono saperne di portare avanti le loro aziende. Per forza, quando compiono 18 anni gli regalano la Porsche! Si è mai chiesto perché, su 5 milioni d’immigrati, 500.000 siano imprenditori? Vedo negli africani una potenza biologica che noi abbiamo perso».
Questo tempo di pace è segnato da rivolte di piazza, guerriglie negli stadi, aggressività. Che la guerra fosse un grande evento regolatore?
«Lo è sempre stato. Nell’Ottocento ci furono tre guerre d’indipendenza, nel Novecento due guerre mondiali. Siamo ormai alla terza generazione che non ha conosciuto questo male assoluto. Ma non vi è dubbio che periodi prolungati di pace inducono a una lassitudine nei comportamenti. Le sofferenze psicologiche hanno soppiantato quelle fisiche, come potevano essere la fame e le malattie. Quanta gente c’è in giro che se la mena senza un perché? Spesso sono costretto a dire ai miei pazienti: ma scusi, questi sono problemi, secondo lei?».
Ha un suggerimento per uscirne?
«Un rito iniziatico che interrompa l’adolescenza perenne: a 18 anni servizio civile per 12 mesi, ma a 1.000 chilometri da casa. Bisogna separare i figli da padri e madri. E cacciare dalla scuola i genitori, interessati più alla promozione che alla formazione. Tullio De Mauro nel 1976 calcolò che un ginnasiale conosceva 1.600 vocaboli. Oggi sono 600. Il più volgare, “c...”, viene usato per dire tutto. L’Italia è ultima nella comprensione di un testo, certifica l’Ocse. Ma non puoi avere più pensieri di quante parole possiedi, insegnava Martin Heidegger».
Sono i malesseri del benessere.
«Il denaro è diventato l’unico generatore simbolico di valori. Non sappiamo più che cosa è bello, vero, giusto, santo. Pensiamo solo a che cosa è utile. Ho visto salire una ragazza con un’arpa sul treno Milano-Venezia. Un signore distinto ha cominciato a porle domande. Alla fine l’ha raggelata: “Scusi, signorina, ma qual è il suo business?”».
Per questo costruiamo solo «cristogrill» al posto delle cattedrali?
«Padre David Maria Turoldo celebrò le mie nozze. Sosteneva che le chiese oggi sono ridotte a garage in cui è parcheggiato Dio. Ma la gente per credere ha bisogno della liturgia, del canto, dell’organo, dell’incenso. L’ho detto anche a papa Francesco. E ho aggiunto: Santità, lei ha messo le persone davanti ai princìpi, però ha un polmone solo, lavora come un pazzo, è pieno di nemici; stia attento a non morire, altrimenti dopo ne eleggono uno che rimette i princìpi davanti alle persone. Lui ha riso e mi ha abbracciato, sussurrando: “Si ricordi che Dio salva le persone, non i princìpi”».
Il cardinale Gianfranco Ravasi, suo compagno di liceo, l’ha convertita?
«No, io resto greco. Non mi colloco neppure fra i laici, i quali sono credenti in un’altra maniera. Per me la morte è una cosa seria, mentre i cristiani pensano che dopo vi sia la vita eterna».
Tuttavia sul cristianesimo ha scritto un saggio.
«È diventato la religione del cielo vuoto, ha completamente smarrito il senso del sacro, e questo mi procura tanta rabbia. La dimensione religiosa è essenziale nell’uomo. Perché negare che la fede offra conforto a tante persone?».
Ha sofferto per le accuse di plagio che le hanno mosso in passato?
«Ho copiato solo da me stesso, mai dagli altri. Recensendo un libro sui giornali, talvolta inserivo due righe dell’autore che mi sembravano efficaci, senza virgolettarle, anche perché non le riportavo integralmente. Quando questi articoli sono stati raccolti in un volume, ho messo le virgolette nei soli casi in cui riuscivo a reperire la citazione: un mio errore, che però non mi era mai stato contestato fintantoché la recensione appariva sulla stampa. Montare su questi elementi una campagna denigratoria non mi pare ancora oggi un’operazione innocente, come peraltro documenta una tesi di laurea sul mio caso discussa nel 2018 all’Università dell’Insubria».
In che cosa spera?
«In niente. La speranza è una virtù cristiana».
Stava meglio quando stava peggio?
«No, da giovane rischiavo di saltare i pasti. Ma oggi la tecnica ha come unica finalità il proprio autopotenziamento e viaggia a una velocità tale che la psiche proprio non ce la fa a tenerle dietro. È lenta, la psiche».
Il senso dell’esistere qual è? Se c’è.
«Lo devo cercare nell’etica del limite, in quella che i greci chiamavano la giusta misura».

martedì 4 giugno 2019

Niente default. Basta stampare moneta!!

Voglio seguire il ragionamento di chi afferma che, in presenza di una Banca Centrale che sia prestatore di denaro in ultima istanza e garante del debito pubblico, uno Stato non può fare fallire.
Se non erro, i sostenitori di questa tesi affermano che lo Stato non può fare default nel caso di deficit insostenibile perché. in effetti, il deficit è sempre sostenibile finché la Banca Centrale può emettere moneta o stampare banconote per pagare i debitori.
Lo vedo difficile, perché un creditore estero difficilmente accetterebbe di venir pagato in una moneta largamente svalutata e porrebbe in essere misure di ritorsione contro lo Stato (ad esempio blocco degli investimenti, smantellamento di eventuali fabbriche, dazi per combattere le importazioni dallo Stato debitore che potrebbe diventare più competitivo a causa della probabile svalutazione della propria moneta). Lo Stato debitore non potrebbe che reagire con misure di tipo autarchico, incentivando, se non addirittura imponendo il consumo di prodotti nazionali.
E per quanto riguarda i cittadini interni creditori del proprio Stato debitore? Mi pare chiaro che sposterebbero rapidamente i loro investimenti finanziari all'estero a meno che lo Stato non alzasse di molto i tassi remunerativi di interesse. Questa operazione comporta un avvitamento, più i tassi si alzano, più lo Stato deve stampare moneta per pagarli, più la moneta si svaluta, più lo Stato deve aumentare i tassi per non far scappare i soldi dei suoi cittadini, e così via...
Sempre che, e questo è un nodo di fondo. lo Stato non decida di ricorrere ad un prestito forzoso tramite un consolidamento del debito pubblico (ovvero prolungarne in maniera indefinita la scadenza o fissare una scadenza molto lontana nel tempo, in maniera che, in entrambi i casi, la svalutazione della moneta praticamente azzeri il debito). Questa è una operazione che è possibile effettuare generalmente in un contesto di regime autoritario.
Verrebbe da concludere che se è vero che, almeno formalmente, uno Stato con Banca centrale prestatore di ultima istanza non possa fallire, è altrettanto vero che questa Stato sarà necessariamente autarchico ed autoritario.

mercoledì 29 maggio 2019

Ricchezza, libertà, felicità

Sono stato sempre convinto che avere più soldi permette anche di essere più libero. Con i soldi una persona più facilmente può viaggiare, comprare libri, accedere ad eventi culturali, in una parola accrescere lo spessore della propria personalità.
Sono però altrettanto convinto che, raggiunto un certo livello, la ricchezza non dà assolutamente maggiore felicità, anzi una maggiore quantità di soldi rende più chiusi, più egoisti, più poveri spiritualmente.
La vera felicità è data dal consolidarsi del proprio inserimento in una positiva rete familiare e amicale. 
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martedì 7 maggio 2019

Radici... (ritratto di un "borghese")

I miei nonni erano agricoltori, sia quello paterno che quello materno; il primo molto devoto e pio, il secondo, in possesso di un piglio imprenditoriale, partecipò alla Marcia su Roma perché non ne poteva più di uno Stato sempre più assente e impotente ma fondamentalmente era un liberale conservatore.
Mio padre era e rimase fascista fino alla morte, ma chi lo ha conosciuto può concordare che era una persona mite e gentile, per niente violenta.
Mia madre, ben più decisa e determinata, si definiva una liberale ma, sotto molti aspetti, era molto a sinistra (chi si impegnava, anche se era povero, doveva emergere, il ricco che non si impegnava doveva essere penalizzato).
Personalmente mi sento un liberale, credo fermamente nella positività del confronto di idee, non mi piace chi ancora pensa ai fascisti come violenti e basta o ai comunisti come ad atei che mangiano i bambini.
Credo nel senso del dovere, nell'assunzione di responsabilità dei propri comportamenti, nell'impegno e nella meritocrazia.
Cerco di rispettare le leggi e pretendo che anche gli altri lo facciano.
Non sopporto l'ignoranza colpevole, il semplicismo, l'arrangiamento, l'ignavia.

Ritengo che nel comportarsi, occorre mettere sullo stesso piano l'interesse proprio e quello comune.
Sono un "BORGHESE"? forse sì, ma fiero di esserlo.

venerdì 26 aprile 2019

Creativi .... per che cosa?

Mi ha sempre colpito, sin da quando ero ragazzo, il capitolo 25 del Vangelo di Matteo.

Dal versetto 14 al versetto 30 Gesù racconta quella che è chiamata la "parabola dei talenti".
Gesù invita ad usare le nostre capacità, intellettuali o materiali, i nostri talenti, in una parola la nostra creatività, quasi ci invita ad essere imprenditori della Buona Novella.
E' una delle poche volte che nella Bibbia si trova un elogio della laboriosità e della capacità di trafficare e una condanna netta del conservatorismo di chi pensa solo a non rischiare ma a tenersi ben stretti i nostri doni.
Sembra quasi che Gesù ci inviti tutti ad essere "imprenditori" della Buona Novella.

E' per veramente interessante e significativo che il capitolo di Matteo (e dunque l'insegnamento di Gesù) continui, dal versetto 31 al versetto 46, con la narrazione dell'immagine di quello che sarà chiamato "il giudizio finale".
Qui Gesù dice chiaramente che il nostro ingresso nel suo Regno (il godere in eterno dell'amicizia di Dio) dipende dal nostro atteggiamento verso gli "ultimi".Tutto quello che faremo (o daremo) agli affamati, agli assetati, agli stranieri, ai malati, agli infreddoliti, ai carcerati, verrà considerato come fatto (o dato) a Lui e rappresenterà, si così si può dire, il nostro passaporto per l'ingresso nel Regno.

Unendo questi due brani, scritti di seguito, mi è venuto spontaneo pormi la domanda. Ma allora non è che la creatività e l'imprenditorialità che Gesù ci richiede nel trafficare i nostri talenti non vada proprio e solo indirizzata all'aiuto degli ultimi? 
E' stata questa considerazione che mi ha stimolato lungo tutta l'ultima settimana di Pasqua.
E ora, in cammino e in opera!

lunedì 8 aprile 2019

Beati...

Ho sempre pensato che la fede nel Dio di Gesù Cristo sia un cammino non pesante e noioso ma sorprendente e foriero di gioia.
Ultimamente, invece di navigare solo su internet, mi sono ripromesso di navigare anche nella Bibbia e di cercare tutte quelle volte che si trova nellAntico o nel Nuovo Testamento, il termine "BEATI" (sinonimo di felici).
Può essere una modalità per avanzare lungo il cammino verso la pienezza della GIOIA.
Avrete la sorpresa di constatare quante volte il termine beati ricorre nella Bibbia (la maggior parte di noi corre subito alle Beatitudini del discorso della montagna che invece rappresentano solo una piccola parte delle beatitudini).
Suvvia, mettetevi a navigare, buon cammino e... siate beati!