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martedì 20 giugno 2017

Riformismo.... vero o falso?



Premetto subito cosa si vuole intendere per “riformismo” nell’ambito di queste brevi considerazioni.
Si può definite riformismo quell’approccio mentale e quella linea di condotta rivolti a
a) cambiare l’assetto sociale di una determinata comunità,
b) in maniera graduale e non violenta,
c) sulla base del consenso più ampio possibile,
d) verso obiettivi di una maggiore libertà e giustizia sociale,
e) mediante l’incentivazione dell’iniziativa individuale e delle attitudini alla solidarietà,
f) in un contesto di tensione verso il bene comune.
I riformisti si differenziano da conservatori perché puntano a modificare in profondità e non a conservare l’assetto sociale esistente. Hanno punti di contatto con i conservatori sul metodo non violento e sulla ricerca del consenso.
Dall’altra parte i riformisti si differenziano dai rivoluzionari perché questi ultimi rifiutano la gradualità degli interventi e anche la ricerca assoluta del previo consenso (che sperano di acquisire dopo l’evento rivoluzionario).

Coloro che credono nel riformismo hanno compreso, dallo studio della storia, che le rivoluzioni, anche quelle nate con le migliori intenzioni, passano il più delle volte attraverso momenti di terrore e sfociano generalmente o in situazioni totalitarie o in restaurazioni dell’assetto sociale preesistente.
Né possono confidare in alleanze durature con i conservatori perché l’obiettivo finale di questi ultimi (conservare la struttura sociale in atto) è assolutamente configgente con quello dei riformisti.

Il compito dei riformisti è altamente difficile è consiste nel procedere attraverso una continua azione di mediazione fra:
1.    l’ambizione del fine da raggiungere e la realtà dei rapporti di forza in essere;
2.    la necessità di raccogliere il consenso attraverso una talvolta lenta opera di spiegazione razionale e di convincimento e, sull’altro verso, la necessità di un cammino graduale sì ma progressivo e non eccessivamente lento;
3.    l’attenzione alla realtà nazionale e alla conseguente azione locale e, contemporaneamente, ai limiti e ai vincoli che vengono posti da realtà e/o istituzioni  continentali o addirittura globali;
4.    il peso sempre maggiore dell’economia e della finanza nelle scelte individuali e la rivendicazione dell’almeno pari peso che devono avere altri elementi come l’etica e la politica.

Questa scelta di procedere attraverso passi graduali e continue mediazioni rende i riformisti invisi ai rivoluzionari che sognano soluzioni rapide e definitive.
Non di rado la furia, anche violenta, di questi ultimi si abbatte sulle persone fisiche dei riformisti (e in Italia abbiamo avuto molti esempi, Moro, Bachelet, Tobagi…) più che, come apparirebbe logico, su quelle dei conservatori.
Infatti i rivoluzionari pensano che l’atteggiamento riformista non solo rallenti lo slancio delle grandi masse (solo immaginate e spesso non reali) interessate al successo rapido della rivoluzione, ma le cloroformizzi tramite l’ottenimento di successi parziali che ritengono non significativi e comunque non influenti sul cambiamento dell’assetto sociale.  

Sul fronte del rapporto con i conservatori, interessati per principio a conservare l’assetto sociale esistente, i problemi non sono sicuramente inferiori.
Occorre infatti pensare all’assetto sociale non come ad un sistema fisso e immutabile di elementi, di aspetti e di rapporti intercorrenti tra essi, ma immaginarlo invece come un sistema in continua ricerca dell’equilibrio più consono a stabilizzare la distribuzione delle risorse a favore delle classi dominanti.
In questa prospettiva anche i conservatori sono propensi ad accettare riforme dell’assetto sociale che non stravolgano la stratificazione delle classi o la distribuzione delle risorse, ma puntino solo a rendere più efficiente il sistema.
Sono proprio queste le riforme più facili da ottenere, ma che non devono accontentare i veri riformisti stimolandoli a insistere su cambiamenti strutturali ben più incisivi e rivolti a cambiare l’assetto sociale nei suoi elementi di stratificazione delle classi, introducendo maggiore mobilità fra le stesse e procedendo ad una più equa redistribuzione delle risorse.

Due esempi possono servire a chiarire questo aspetto.

Il primo esempio riguarda la tendenza del sistema economico dominante a respingere l’adozione di contratti di lavoro a tempo indeterminato, privilegiando invece quelli a tempo determinato o comunque caratterizzati da un’ampia possibilità di libero recesso anticipato da parte del datore di lavoro.
Sempre in questa ottica si comprende anche l’avversione verso i vecchi contratti di lavoro a livello nazionale.
Tutto questo viene giustificato (purtroppo a ragione…) con la necessità di mantenersi competitivi con il resto del mondo e magari, (ma questo non lo si dice), di  conservare o migliorare i margini di profitto e i dividendi da distribuire agli investitori.
Una politica riformista di basso respiro può limitarsi a regolamentare meglio questi contratti a tempo determinato o comunque precari, introducendo, ad esempio, una indennità per licenziamento, l’identificazione più precisa del tipo di datore di lavoro che può utilizzarli (con relativo divieto per altri), l’introduzione di garanzia di tipo collettivo sindacale.
Questo tipo di riforma può facilmente essere negoziata ed accettata dalle classi dominanti perché non mette in discussione il dogma della ineluttabilità del lavoro a tempo determinato.
Ben diverso potrebbe essere il risultato se si alzasse il livello del confronto dal meramente locale o nazionale ad uno continentale e se Unioni sindacali continentali fossero in grado di negoziare vincoli legali e soglie temporali ed economiche a livello multinazionale.
E’ chiaro che non si tratta più di avviare un negoziato all’interno della cornice di un sistema economico e di un modello di sviluppo già esistenti ma di uscire da questa cornice e di procedere a cambiamenti a livello sovranazionale del sistema economico e del modello di sviluppo prevalenti.
Non si tratta di trattare nell’ambito di un paradigma esistente, ma di creare un nuovo paradigma.

Un secondo esempio può essere tratto dal problema dell’immane flusso migratorio in essere dall’Africa e da una parte dell’Asia verso l’Europa, spinto dalla necessità di sfuggire alle guerre o alle carestie o dal desiderio di avere per sé o per i propri figli un avvenire migliore.
Per questa situazione la posizione dei conservatori è netta, occorre frapporre  ostacoli insuperabili alla migrazione per riuscire a bloccarla (anche se la storia ha insegnato abbondantemente che si tratta di una soluzione che non funziona).
Una posizione opposta ma ugualmente totalitaria è assunta dai rivoluzionari che vorrebbero accogliere tutti velocemente e subito senza preoccuparsi dei tempi necessari per l’integrazione culturale e sottovalutando il rischio di una deflagrazione sociale e di una guerra fra poveri.
Cosa prospettano i riformisti?
I più pensano alla possibilità di gestire i flussi migratori, procedendo alla implementazione  di canali umanitari (al fine di combattere i profitti illeciti da parte di scafisti senza scrupoli), prevedendo delle quote ottimali di immigrati sostenibili dalle singole Nazioni europee e, magari, aumentando i fondi per le iniziative di integrazione culturale ed etnica.
Sono ben visibili le difficoltà che questo ragionevole, ma astratto, programma, incontra presso l’opinione pubblica delle Nazioni coinvolte, e che lo rendono di molto complessa, se non impossibile, implementazione.
E poi, diciamocelo francamente, che senso ha svuotare l’Africa per riempie l’Europa di africani?

Forse una politica riformista di più elevato respiro dovrebbe essere ben diversa e, a fianco dei canali umanitari e della iniziative di integrazione culturale, immaginare e implementare iniziative che prevedano azioni anche nel territorio di imbarco degli immigrati (con controllo delle coste per evitare imbarchi illegittimi e permettere solo quelli, controllati, tramite canali umanitari).
Ben più importante e risolutiva potrebbe essere un’azione comune, di tipo continentale, per investimenti produttivi nei Paesi di origine della migrazione, diretti a creare colà posti di lavoro e comunque ad alzare il livello di vita di quei popoli (anche, ma non solo, con la costruzione e la cogestione di ospedali, scuole e di altre opere di carattere sociale.
L’obiezione potrebbe essere che iniziative come queste, operate sul territorio di un Paese straniero potrebbero essere considerate come iniziative di carattere neo-coloniale.
Tale obiezione può essere facilmente smontata. Quando un problema, come quello della migrazione, assume un carattere sovranazionale dovrebbe apparire evidente che la sua soluzione non può essere lasciata solo alla sovranità del Paese dei migranti ma coinvolgere anche la sovranità dei Paesi verso i quali i migranti si rivolgono.
E’ chiaro che tali azioni non sarebbero ancora sufficienti, ma i riformisti dovrebbero anche operare sulla opinione pubblica dei loro Paesi per creare una mentalità contraria al traffico di armi e a quelle iniziative economiche che apportano guerra e sfruttamento nei Paesi africani.
Si tratta di una politica riformista che abbisognerebbe di molte risorse finanziarie da parte dei Paesi d’arrivo della migrazione e sicuramente, anche per questo motivo non molto popolare.

Occorre, comunque, far comprendere all’opinione pubblica che una politica veramente riformista non è né una politica rivoluzionaria, che vuole cambiare tutto senza poi in concreto cambiare nulla, né una politica conservatrice che vuole simulare un cambiamento senza voler cambiare nulla.
Una politica veramente riformista è una politica che incide decisamente sull’assetto sociale esistente e che comporta dei costi da far sostenere soprattutto dalle classi sociali che hanno goduto dei privilegi della situazione precedente.
Un riformismo che non costasse o i cui costi fossero ripartiti fra tutte le classi sociali non sarebbe vero riformismo.
La sua forza sta essenzialmente nella sua ragionevolezza, nella capacità di convincere l’opinione pubblica che i sacrifici (distribuiti equamente) sopportati nel breve termine apporterebbero, nel medio e nel breve termine vantaggi molto più grandi di quelli che si potrebbero ottenere tramite l’implementazione di politiche di stampo rivoluzionario o conservatore.
Più i riformisti riescono a far ragionare gli elettori e a sovrastare gli appelli alla loro “pancia” da parte dei populisti rivoluzionari e/o conservatori, più hanno speranza di attuare con il consenso politiche riformiste di alto respiro.

venerdì 16 giugno 2017

Ius soli? Qualche dubbio ce l'ho.

Cerco di spiegare meglio la mia AVVERSIONE ALLA LEGGE SULLO IUS SOLI.
Innanzitutto conosco la legge e so benissimo che la nascita in Italia non rappresenta l'unica condizione per acquisire la cittadinanza ma che sono necessari altri requisiti di tipo penale, culturale e di continuità di permanenza.
Però rimane il fatto che il messaggio fondamentale che viene dato (e che viene recepito) è che ora, contrariamente a prima, se si nasce in Italia da genitori non italiani sarà più facile ottenere la cittadinanza.
Sono anche consapevole che i migranti vengono in Italia anche per motivi legati alla possibilità di trovare lavoro o una sanità più efficiente ecc. ma sicuramente la possibilità di dare più facilmente ai loro figli la cittadinanza italiana funge da ulteriore incentivo.
Il segnale politico che viene dato è che l'Italia rimane assolutamente e totalmente aperta ad accogliere tutti i migranti, segnale che incentiva i migranti a venire e i popoli dell'Europa centrale (con i queli dovremmo creare una unica comunità) alzare ulteriori barriere anche nei nostri confronti.
Sono assolutamente convinto (e non per motivi ideologici ma solo di opportunità politica) che in questo momento storico particolare occorre procedere a gestire e a filtrare il fenomeno migratorio, non a dare segnali di ulteriore apertura e incoraggiamento a venire in Italia.
Si poteva benissimo ricorrere ad una "SANATORIA" per il quasi 1 milione di bambini nati in Italia e culturalmente italiani senza procedere ad una variazione definitiva della legge sullla cittadinanza, che rappresenta un incentivo in più a venire in Italia da parte di quei migranti che aspirano a una cittadinanza più facile per i loro futuri figli.
Ripeto, si tratta di FILTRARE e GESTIRE la migrazione, non certo di procedere a blocchi o a respingimenti.
E il ministro MINNITI sta operando benissimo in questa direzione.
Si tratta di includere e integrare, ma senza accelerare perché si rischia di creare ulteriori fratture in una coesione sociale già scarsa e di provocare uno slittamento a destra dell'elettorato italiano, verso una destra che in maggioranza appare abbastanza incline a derive autoritarie e razzistiche.
E poi occorre essere chiari. Un processo di integrazione, come quello che abbiamo davanti, non sarà, almeno nel breve-medio periodo, gratis ma produrrà, se non condiviso con l'Europa, una diminuzione del livello di vita degli italiani.
Chi m conosce sa che non sono incline a posizioni di tipo leghista o, per certi versi, grillino.
Non credo nelle identità culturali chiuse e impermeabili, credo che il dialogo arricchisca le diversità culturali, ma credo anche che indebite accelerazioni siano dannose anche per una sana e efficace prosecuzione di questo dialogo.
Diciamo a Roma "la gatta frettolosa fa i figli ciechi".
Non vorrei domani trovarmi in una Italia stile l'attuale Ungheria!

venerdì 2 giugno 2017

"TEDESCUM" o "FURBESCUM"?

NON E' VERO che stiamo applicando in Italia il sistema elettorale ("tedescum"), quello italiano (il "furbescum") ha almeno due differenze importanti dal punto di vista del POTERE DEI CITTADINI.
A) In PRIMO LUOGO, il tedescum è nei fatti completamente proporzionale, con questa accortezza: la percentuale ottenuta nella parte proporzionale serve a CALCOLARE il numero dei seggi di ogni partito, la parte unimominale serve a individuare CHI viene eletto in parlamento.
In pratica tutti gli eletti nei collegi uninominali vanno in Parlamento. Se il loro numero è inferiore alla % dei voti ottenuti dal partito nel proporzionale si pescano, per raggiungere la quora degli eletti, i più votati nella parte proporzionale; se invece il numero degli eletti è superiore alla % dei voti ottenuti nel proporzionale, tutti gli eletti nell'uninominale vanno ugualmente in Parlamento ma, per compensazione, si alza anche la quota di seggi spettanti agli altri partiti,
In pratica nel tedescum si dà la prevalenza al voto dei cittadini riguardo alla scelta sui singoli candidati nell'uninominale.
Invece, nel "furbescum" prima si calcola la quota percentuale raggiunta dai partiti, poi si calcola il conseguenziale numero di seggi, attribuendoli però a cominciare dai CAPOLISTA dei listini bloccati.
Si dà più importanza ai capolista (in pratica scelti dalle Segreterie dei partiti) che ai candidati nell' uninominale scelti drettamente dai cittadini.
B) In SECONDO LUOGO, il tedescum permette ai cittadini di esprimere un VOTO DISGIUNTO, votando per un candidato all'uninominale ma non necessariamente per la lista collegata (questo meccanismo ha permesso spesso ai partiti non principali di superare le soglia del 5%.
Il furbescum non permette invece il voto disgiunto per cui è obbligatorio votare una lista bloccata al proporzionale e il relatvo candidato uninominale collegato.
Concludendo il "furbescum" è un sistema elettorale che mina fortemente il diritto dei cittadini di eleggere i propri rappresentati, attribuendo invece più potere alle Segreterie dei partiti.
Siamo certi che la Corte Costituzionale non avrà nulla da eccepire?

giovedì 1 giugno 2017

Tanta tristezza...

L'introduzione del sistema proporzionale "tedescum" (ma sarebbe meglio definirlo "furbescum") mi crea la sensazione di una profonda MESTIZIA e di una SCONFITTA personale irrecuperabile.
E' da quando avevo 20 anni che mi batto per un sistema elettorale che permetta ai cittadini di scegliere chi li governerà, con preferenza verso l'uninominale a doppio turno di tipo francese.
Sono passato attraverso:
1) 40 anni di proporzionale che hanno devastato l'Italia alimentando una spesa pubblica incredibile solo a pensarsi da parte degli altri Paesi;
2) l'inganno del Mattarellum (con una abnorme parte proporzionale del 25% che serviva a calcolare il peso dei diversi partiti);
2) l'illusione del sistema francese (uninominale a doppio turno) sponsorizzato da Sartori presso D'Alema ma inesorabilmente bocciato e abortito prima di nascere;
3) la furbata del Porcellum fatto apposta per non far governare chi avesse vinto le elezioni;
4) la bocciatura del ballottaggio dell'Italicum da parte di una pavida Consulta che è corsa dietro alla maggioranza degli italiani più propensi a attribuirsi un diffuso diritto di veto che ad assegnare a chi avesse vinto le elezioni il potere democratico di governare.
Ho condotto una battaglia inutile e ho PERSO.
Il proporzionale è il sistema che premia l'individualismo più gretto, la mediocrità, la scemenza dell' 1 conta uguale a 1, l'invidia sociale, l'odio (di nuovo montante..) contro la meritocrazia, il buonismo del "nessuno è colpevole perché è sempre colpevole qualcun altro o la società nel suo complesso".
Come faccio a dire ai miei giovani colleghi e amici di avere speranza?
Da dove RICOMINCIARE?