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martedì 13 aprile 2021

Rifondare un quartiere degradato a Roma - Castro Pretorio vicino alla Stazione Termini

                                                


Due anni fa, dopo circa 20 anni sono ritornato a risiedere nel rione Castro Pretorio, là dove sono nato e ho abitato per circa 50 anni.

Il rione, per intenderci, è quello praticamente compreso tra la Stazione Termini e il Policlinico Umberto I.
Ho trovato una situazione di degrado sociale, materiale, culturale, spirituale enorme: persone sbandate (sia italiani che immigrati da altri Paesi), strade e marciapiedi sporchi e dissestati, esercizi commerciali per lo più dediti a vendere cibo per turisti, Parrocchia praticamente assente, senso di comunità e di affetto verso il territorio scarsissimo.
Ho trascorso il primo anno impegnato a concludere un trasloco molto faticoso e a riprendermi dalla sorpresa di aver ritrovato un rione molto diverso da quello che avevo lasciato, rione sul quale aveva molto lavorato (e mi aveva spinto a lavorare…) il parroco salesiano focolarino Don Filippo Giua cercando, con varie iniziative, di “ricostruire il tessuto sociale del quartiere” (parole che Giovanni Paolo II rivolse ai cittadini di Castro Pretorio nel maggio 1987 durante una visita alla Parrocchia, e che ho sempre considerato come una missione comune da portare avanti).

Il lockdown dello scorso inverno ha ancora di più aggravato la questione.
Con alberghi e ristoranti (di cui il territorio, vicino alla Stazione Termini è pieno) chiusi, con poche persone per strada, quando uscivo per fare la spesa al supermercato mia moglie ed io avevamo una sensazione di angoscia.
Le uniche persone che si incontravano erano poveri sbandati (italiani e stranieri) intenti a lavarsi alle fontanelle pubbliche e a chiedere l’elemosina.
Certo i ragazzi di S. Egidio, della Caritas, della Parrocchia si alternavano a portar loro dei panini ogni sera, ma sempre più mi rendevo conto che dare il panino è sicuramente utile, ma è solo un palliativo temporaneo, non risolve il problema alla radice e potrebbe forse anche diventare, in qualche caso e per certe persone, un pericoloso elemento di autogratificazione e un modo per tacitare facilmente la propria coscienza.
Avvertivo con chiarezza che tutto lo sforzo compiuto, negli anni ’80, con Don Filippo, per creare una vera comunità di quartiere, con persone che si conoscessero, collaborassero, costruissero relazioni di reciprocità, era andato perduto. Alcuni dei residenti di allora erano morti, altri avevano cambiato quartiere, i pochi che erano rimasti erano stanchi, disillusi, demotivati.
Compresi, anche su spinta di mia moglie che dovevo fare qualcosa, che, da pensionato potevo avere quel tempo e/o quell’esperienza di vita che mancava ad altri.
E poi dovevo dare un senso alla mia vocazione di cristiano laico operante nelle realtà sociali secondo il carisma di Chiara Lubich e di Ignazio di Loyola.

Mi venne l’idea di creare un gruppo facebook “privato” (ovvero i cui contenuti fossero visibili solo ai membri) che fosse in grado, in modo molto riservato, di aggregare persone, di costruire rapporti nuovi fra di esse, di dibattere sui problemi del quartiere e, magari, di trovare e proporre soluzioni ad esse.
Sulla base della mia esperienza di lavoro ho creato una “road map” ovvero un progetto di cammino di comunità, indicando

·       obiettivi da raggiungere,

·       problemi da affrontare,

·       enti da rendere compagni di cammino,

·       istituzione politiche da interfacciare,

·       aziende di servizio con le quali avviare un percorso di collaborazione.

Mi sono confrontato con il caro amico gesuita Padre Armando Ceccarelli, prima che si trasferisse a Pescara, e lui mi ha raccomandato di non partire da solo ma di cercare di coinvolgere sin dall’inizio altre persone, anche poche, esercitandomi nel discernimento, sia personale che comunitario, per andare avanti.
Ho così iniziato in compagnia di una mia condòmina e di un commerciante del quartiere.
Ho creato il gruppo facebook “Rifondiamo Castro Pretorio” a fine luglio e, ai primi di settembre, contava, con mia grande sorpresa, già più di 80 membri.
Ho poi preso contatto con il Comandante della locale Stazione dei Carabinieri, molto lieto di avere, nel quartiere, un gruppo di cittadini dotati di senso civico e vogliosi di collaborare tra di loro e con l’Arma.
L’amicizia con il fondatore di un preesistente Comitato di quartiere (che purtroppo stava esaurendo la propria forza propulsiva iniziale) mi ha permesso di avere contatti con alcuni Consiglieri Municipali di diversi partiti e con l’AMA (Azienda che cura la pulizia di Roma).
Attraverso altri amici personali sono giunto ad avere rapporti con la Presidente del Municipio e con alcuni parlamentari nazionali di diversi partiti.
Abbiamo anche avviato una relazione con l’Associazione “Per Roma” che ha l’obiettivo di costituire e sostenere progetti per la riqualificazione della città.
Importante è stato anche l’arrivo di un nuovo Parroco, più motivato e mobile rispetto al precedente che era afflitto da problemi di salute.
A 8 mesi dalla costituzione, il gruppo “Rifondiamo Castro Pretorio” conta oggi 225 membri e sta implementando diverse iniziative fra le quali:

1.     una serie di “passeggiate” aventi il duplice scopo di far conoscere aspetti nuovi e interessanti nel quartiere e, nel contempo, approfondire la conoscenza reciproca e l’aumento dello spirito comunitario;

2.     una azione di sensibilizzazione sui cittadini sulla esigenza di una maggiore attenzione alla raccolta differenziata e il posizionamento, da parte dell’AMA, di numerosi nuovi cestini sul territorio;

3.     l’istituzione di un Ecomuseo, con la tensione a valorizzare gli aspetti positivi del quartiere;

4.     la collaborazione con i Carabinieri per assicurare un maggior controllo sul territorio per prevenire e reprimere azioni contro la legalità;

5.     l’avvio di contatti con diversi parlamentari, di partiti differenti, rivolti a sensibilizzarli sull’esigenza di un piano concreto nazionale per il sostegno e il recupero sociale dei senza fissa dimora, con la creazione di strutture e equipes in grado di ospitare, recuperare e riqualificare per avviare al lavoro queste persone in gravi difficoltà.

L’occasione per una maggiore spinta emotiva ci è stata data dall’aver scoperto che questa parte del territorio venne abitata nel 21-22 dopo Cristo, allorché l’imperatore romano Tiverio vi costruì le caserme dei Pretoriano (Castra Praetoria), per cui, praticamente, quest’anno ricorre il bimillenario del quartiere.

Durante il percorso ho incontrato tante persone di buona volontà (una signora decisa a ravvivare la sensibilità culturale dei residenti, una archeologa che ho scoperto essere la figlia di un mio Dirigente sul luogo di lavoro, commercianti decisi ad abbandonare l’ottica di pensare solo al loro esercizio e di abbracciare il senso del bene comune, una avvocatessa molto determinata…), trovando sicuramente una maggiore sensibilità fra le donne.
Ho anche dovuto affrontare momenti di difficoltà di fronte a diversità di opinioni politiche fra i compagni di percorso, sensazioni di solitudine, di insuperabile immensità del compito che mi sono assunto. In questi momenti l’esperienza di vita passata e la fiducia in un Dio amore che non abbandona mai (nonostante le apparenze contrarie) mi hanno dato la forza di continuare.

Attualmente il percorso è sospeso a causa delle restrizioni per la pandemia, ma continuerà.

lunedì 12 aprile 2021

Perché Dio permette la sofferenza?

                                                             


Ho un cugino, un po’ più grande di me, al quale voglio molto bene, come ad un fratello maggiore. E’ una persona molto intelligente ed equilibrata, ha conseguito la laurea in ingegneria elettronica al Politecnico di Milano con il massimo dei voti.

Tante volte con lui ci siamo intrattenuti a confrontarci su argomenti molto delicati e controversi, affrontandoli alla luce della ragione.
Eravamo ancora ragazzi, quando un giorno, all’improvviso, gli chiesi: “ma tu credi in Dio?” (intendendo il Dio cristiano).
Mi rispose più o meno così: “Ho molte perplessità a credere in un Dio che si dichiara pieno di misericordia e onnipotente, e permette la morte con sofferenza di tanti, anche bambini”.

Il tema della sofferenza degli uomini e del rapporto di questa con l’onnipotenza e la misericordia di Dio ha in effetti spesso tenuto occupata la mia mente.
Come fa un Dio onnipotente e sommo amore a permettere la sofferenza?
In questi momenti di devastante pandemia più volte mi sono posto la domanda (e non penso di essere il solo,,,).
A più riprese, nel corso della mia vita, ho provato a darmi delle risposte.

La prima risposta che mi diedi fu che la sofferenza non dipende da Dio, ma proviene direttamente dalla imperfezione fisica delle persone umane e/o delle cose. Se nascessimo perfetti su una Terra perfetta e in un universo perfetto non ci ammaleremmo mai, non dovremmo subire catastrofi naturali, non dovremmo nemmeno sopportare dolore per i mali che colpissero i nostri cari (perché questi mali non esisterebbero…).
Come conciliare però questo ragionamento con l’esistenza del male cosiddetto morale, dalla capacità che ha l’uomo di albergare nel proprio cuore sentimenti negativi come l’astio, l’odio, l’invidia, la capacità di arrecare violenza, di fare la guerra?
Affinché il male possa essere estirpato alla radice, l’uomo non dovrebbe essere solo fisicamente, ma anche moralmente perfetto, e come tale incapace di pensare e/o di fare il male.
E inoltre come potrebbe un uomo perfetto, ovvero un uomo i cui organi non fossero passibili di usura o di danneggiamento, morire? Come potrebbe esistere una natura perfetta, se non negandone l’evoluzione e la mobilità, evoluzione e mobilità che sono alla base dell’energia che è fonte di vita (ma anche di catastrofi naturali…)?
Ma una domanda si pone, ancora più impellente e importante.
Come un uomo immortale e incapace di pensare / fare il male, potrebbe essere libero, se si intende la libertà come possibilità e capacità di fare delle scelte, anche opposte fra di loro?
Che vita sarebbe una vita senza fine e durante la quale nessuno fosse capace di pensare o di fare il male?
Sarebbe il Paradiso in terra? O sarebbe una vita infernale da persone prive di quel bene supremo che è la libertà?
Può essere, ma non mi pare questa la soluzione al problema dell’esistenza della sofferenza!
Mi pare piuttosto che l’imperfezione (e la conseguente sofferenza…) siano lo scotto da pagare per poter esercitare la nostra libertà, per essere consapevolmente capaci di costruire una realtà umana migliore, per rispettare la natura, per essere in grado di mitigare i danni originati dalla sua evoluzione, dalla sua mobilità.
In questa ottica un Dio sommamente misericordioso rinuncerebbe ad una parte della sua onnipotenza per rispettare la libertà dell’uomo.
Rimane però la domanda iniziale. Come più questo Dio, onnipotente e misericordioso, permettere la sofferenza, talvolta atroce, anche di bambini e malati e non trovare, nella sua onnipotenza, un modo (anche diverso dal creare una umanità perfetta) in grado di eliminarla o perlomeno alleviarla?

Un’altra soluzione al problema della sofferenza è stata avanzata, ovvero che essa rappresenti uno strumento per purificare la nostra anima dal male morale (il peccato) e permetterci un più rapido accesso alla visione eterna di Dio.
E’ una ipotesi, se non una tesi, sostenuta da molti teologi soprattutto nel tempi passati.
Ma non è questo forse un altro modo, seppure più elegante, per dire che Dio potrebbe eliminare la sofferenza ma la permette, anzi la vede come un bene in grado di purificarci?
Può mai essere un bene il dolore di un bimbo malato, lo strazio della madre, la sofferenza del padre impotente? Possono essere un bene le guerre, le torture, gli omicidi….?
La morale cristiana nega ogni validità etica all’assioma “il fine giustifica i mezzi”. No! Il fine non giustifica mai i mezzi; il mezzo della sofferenza non può giustificarsi con il fine della salvezza eterna.
Si dice, in qualche modo a sostegno della tesi della purificazione, che anche Gesù (Dio incarnato) ha accettato la sofferenza fisica (la morte in croce) e morale (l’abbandono del Padre) per la nostra “redenzione” ovvero per “ricomprarci” agli occhi del Padre.
No, i teologi moderni negano questa natura “contrattuale” della morte di Gesù. Parlano piuttosto di una sofferenza aborrita da Gesù stesso (vedasi quando nel Getsemani chiede al Padre di poter non bere “questo calice”) ma da lui accettata consapevolmente per “liberarci” una volta per tutte dal male.
Questa interpretazione mi piace di più della precedente perché collega la sofferenza di Gesù non ad una clausola per riacquistarci (“redimerci”) quanto ad un libero e consapevole gesto di amore liberante.
Bello, affascinante, ma la domanda rimane: come può Dio restare impassibile di fronte alla sofferenza di un bambino o di un adulto che soffrano di dolori atroci? è giusto e ragionevole dire a queste persone che la sofferenza può essere vissuta come una modalità di espressione dell’amore?

O forse non è invece più ragionevole pensare, come quel mio cugino citato all’inizio di questa riflessione, che Dio non esista?
Non ho problemi a pensare che sia una posizione legittima e pienamente ragionevole.
Avevano ragione sia Benedetto XVI che Francesco, in momenti diversi, a rispondere, a dei bambini che chiedevano loro il motivo dell’esistenza del dolore, soprattutto degli inniceti, che neppure loro, Papi, avevano una risposta?

Una risposta, alternativa a quella atea, ragionevole, certa e conclusiva probabilmente non c’è, almeno a mio parere.
Peraltro forse una traccia di approfondimento c’è e me la diede la lettura di un episodio avvenuto durante la II guerra mondiale nel Lager di Flossemburg dove era stato deportato (e venne impiccato) il famoso filosofo e teologo protestante Dietrich Bonhoeffer.
Quest’ultimo, di fronte alla domanda provocatoria di un altro deportato “dove è il tuo Dio qui dentro?”, indicando un prigioniero che soffriva tremendamente, rispose “Dio è in quell’uomo”.

Se la “onnipotenza” di Dio quale capacità illimitata di potere tutto sia stata fraintesa e si debba invece darle un altro significato?
Se il Dio di Gesù Cristo non fosse il Dio che immaginiamo noi, capace di intervenire in ogni possibile evento e di risolverlo come se avesse la bacchetta magica?
Dice Gesù “chi vede me vede il Padre” (vangelo di Giovanni 12,45); per capire l’onnipotenza di Dio bisogna dunque rifarsi alle parole e, soprattutto, al comportamento di Gesù.
E’ vero che Lui compie miracoli, predica con veemenza, annuncia cose mirabili, ma quando si trova di fronte alla battaglia finale contro il male, lo sconfigge non con una illimitata onnipotenza ma con una sconfinata impotenza.
Si lascia crocifiggere, muore sulla croce, la sua impotenza poi raggiuge il massimo quando urla al Padre “perché mi hai abbandonato?”
Gesù, piena ed esaustiva presenza di Dio incarnato, dona la sua vita per amore nostro, non sfugge la sofferenza, né lo annulla, ma la vince passando, per amore, attraverso di essa.
Sembra quasi che voglia dirci: “Vedi, la mia onnipotenza si manifesta pienamente nella mia apparente impotenza di fronte al dolore, dammi retta, seguimi, accetta il dolore inevitabile (quello evitabile, evitalo!), mi raccomando, pensa solo ad amare mentre attraversi il dolore, e… vincerai!
La Resurrezione è per Gesù la vittoria piena sulla sofferenza e sulla morte, per noi è pegno che, se lo seguiamo, sempre immersi nell’amore, se ci configuriamo a Lui, con Lui vinceremo e troveremo la nostra piena realizzazione.

Si tratta pertanto capovolgere la nostra fede, non tanto  di credere in un Dio onnipotente e misericordioso, che ci stupisce permettendo la sofferenza di innocenti, quanto piuttosto di credere in un Dio misericordioso e impotente che, però, trasforma la sua impotenza in onnipotenza passando attraverso quella impotenza e dandole un significato.
Per noi, persone umane, sarebbe impossibile seguire un Dio onnipotente, diventa invece possibile mettersi al seguito, imitare, di fronte alla sofferenza, un Dio impotente che si limita (per così dire) ad amarci con un amore illimitato.

 

Roma 12/4/2020                                                                    Giuseppe Sbardella