Ho un cugino, un po’ più grande di me, al quale voglio molto bene, come ad un fratello maggiore. E’ una persona molto intelligente ed equilibrata, ha conseguito la laurea in ingegneria elettronica al Politecnico di Milano con il massimo dei voti.
Tante volte con lui ci siamo intrattenuti a confrontarci su argomenti molto
delicati e controversi, affrontandoli alla luce della ragione.
Eravamo ancora ragazzi, quando un giorno, all’improvviso, gli chiesi: “ma tu
credi in Dio?” (intendendo il Dio cristiano).
Mi rispose più o meno così: “Ho molte perplessità a credere in un Dio che si dichiara pieno di misericordia e onnipotente, e permette la morte con
sofferenza di tanti, anche bambini”.
Il tema della sofferenza degli uomini e del rapporto
di questa con l’onnipotenza e la misericordia di Dio ha in effetti spesso
tenuto occupata la mia mente.
Come fa un Dio onnipotente e sommo amore a permettere la sofferenza?
In questi momenti di devastante pandemia più volte mi sono posto la domanda (e
non penso di essere il solo,,,).
A più riprese, nel corso della mia vita, ho provato a darmi delle risposte.
La prima risposta che mi diedi fu che la sofferenza
non dipende da Dio, ma proviene direttamente dalla imperfezione fisica delle
persone umane e/o delle cose. Se nascessimo perfetti su una Terra perfetta e in
un universo perfetto non ci ammaleremmo mai, non dovremmo subire catastrofi
naturali, non dovremmo nemmeno sopportare dolore per i mali che colpissero i
nostri cari (perché questi mali non esisterebbero…).
Come conciliare però questo ragionamento con l’esistenza del male cosiddetto
morale, dalla capacità che ha l’uomo di albergare nel proprio cuore sentimenti
negativi come l’astio, l’odio, l’invidia, la capacità di arrecare violenza, di
fare la guerra?
Affinché il male possa essere estirpato alla radice, l’uomo non dovrebbe essere
solo fisicamente, ma anche moralmente perfetto, e come tale incapace di pensare
e/o di fare il male.
E inoltre come potrebbe un uomo perfetto, ovvero un uomo i cui organi non fossero
passibili di usura o di danneggiamento, morire? Come potrebbe esistere una
natura perfetta, se non negandone l’evoluzione e la mobilità, evoluzione e
mobilità che sono alla base dell’energia che è fonte di vita (ma anche di
catastrofi naturali…)?
Ma una domanda si pone, ancora più impellente e importante.
Come un uomo immortale e incapace di pensare / fare il male, potrebbe essere
libero, se si intende la libertà come possibilità e capacità di fare delle
scelte, anche opposte fra di loro?
Che vita sarebbe una vita senza fine e durante la quale nessuno fosse capace di
pensare o di fare il male?
Sarebbe il Paradiso in terra? O sarebbe una vita infernale da persone prive di
quel bene supremo che è la libertà?
Può essere, ma non mi pare questa la soluzione al problema dell’esistenza della
sofferenza!
Mi pare piuttosto che l’imperfezione (e la conseguente sofferenza…) siano lo
scotto da pagare per poter esercitare la nostra libertà, per essere
consapevolmente capaci di costruire una realtà umana migliore, per rispettare
la natura, per essere in grado di mitigare i danni originati dalla sua
evoluzione, dalla sua mobilità.
In questa ottica un Dio sommamente misericordioso rinuncerebbe ad una parte
della sua onnipotenza per rispettare la libertà dell’uomo.
Rimane però la domanda iniziale. Come più questo Dio, onnipotente e
misericordioso, permettere la sofferenza, talvolta atroce, anche di bambini e
malati e non trovare, nella sua onnipotenza, un modo (anche diverso dal creare
una umanità perfetta) in grado di eliminarla o perlomeno alleviarla?
Un’altra soluzione al problema della sofferenza è
stata avanzata, ovvero che essa rappresenti uno strumento per purificare la
nostra anima dal male morale (il peccato) e permetterci un più rapido accesso
alla visione eterna di Dio.
E’ una ipotesi, se non una tesi, sostenuta da molti teologi soprattutto nel
tempi passati.
Ma non è questo forse un altro modo, seppure più elegante, per dire che Dio
potrebbe eliminare la sofferenza ma la permette, anzi la vede come un bene in
grado di purificarci?
Può mai essere un bene il dolore di un bimbo malato, lo strazio della madre, la
sofferenza del padre impotente? Possono essere un bene le guerre, le torture,
gli omicidi….?
La morale cristiana nega ogni validità etica all’assioma “il fine giustifica i
mezzi”. No! Il fine non giustifica mai i mezzi; il mezzo della sofferenza non
può giustificarsi con il fine della salvezza eterna.
Si dice, in qualche modo a sostegno della tesi della purificazione, che anche
Gesù (Dio incarnato) ha accettato la sofferenza fisica (la morte in croce) e
morale (l’abbandono del Padre) per la nostra “redenzione” ovvero per “ricomprarci”
agli occhi del Padre.
No, i teologi moderni negano questa natura “contrattuale” della morte di Gesù.
Parlano piuttosto di una sofferenza aborrita da Gesù stesso (vedasi quando nel
Getsemani chiede al Padre di poter non bere “questo calice”) ma da lui
accettata consapevolmente per “liberarci” una volta per tutte dal male.
Questa interpretazione mi piace di più della precedente perché collega la
sofferenza di Gesù non ad una clausola per riacquistarci (“redimerci”) quanto
ad un libero e consapevole gesto di amore liberante.
Bello, affascinante, ma la domanda rimane: come può Dio restare impassibile di
fronte alla sofferenza di un bambino o di un adulto che soffrano di dolori
atroci? è giusto e ragionevole dire a queste persone che la sofferenza può essere
vissuta come una modalità di espressione dell’amore?
O forse non è invece più ragionevole pensare, come
quel mio cugino citato all’inizio di questa riflessione, che Dio non esista?
Non ho problemi a pensare che sia una posizione legittima e pienamente ragionevole.
Avevano ragione sia Benedetto XVI che Francesco, in momenti diversi, a
rispondere, a dei bambini che chiedevano loro il motivo dell’esistenza del
dolore, soprattutto degli inniceti, che neppure loro, Papi, avevano una
risposta?
Una risposta, alternativa a quella atea, ragionevole, certa e conclusiva
probabilmente non c’è, almeno a mio parere.
Peraltro forse una traccia di approfondimento c’è e me la diede la lettura di
un episodio avvenuto durante la II guerra mondiale nel Lager di Flossemburg
dove era stato deportato (e venne impiccato) il famoso filosofo e teologo
protestante Dietrich Bonhoeffer.
Quest’ultimo, di fronte alla domanda provocatoria di un altro deportato “dove è
il tuo Dio qui dentro?”, indicando un prigioniero che soffriva tremendamente,
rispose “Dio è in quell’uomo”.
Se la “onnipotenza” di Dio quale capacità illimitata
di potere tutto sia stata fraintesa e si debba invece darle un altro
significato?
Se il Dio di Gesù Cristo non fosse il Dio che immaginiamo noi, capace di
intervenire in ogni possibile evento e di risolverlo come se avesse la
bacchetta magica?
Dice Gesù “chi vede me vede il Padre” (vangelo di Giovanni 12,45); per capire l’onnipotenza
di Dio bisogna dunque rifarsi alle parole e, soprattutto, al comportamento di
Gesù.
E’ vero che Lui compie miracoli, predica con veemenza, annuncia cose mirabili,
ma quando si trova di fronte alla battaglia finale contro il male, lo sconfigge
non con una illimitata onnipotenza ma con una sconfinata impotenza.
Si lascia crocifiggere, muore sulla croce, la sua impotenza poi raggiuge il
massimo quando urla al Padre “perché mi hai abbandonato?”
Gesù, piena ed esaustiva presenza di Dio incarnato, dona la sua vita per amore
nostro, non sfugge la sofferenza, né lo annulla, ma la vince passando, per
amore, attraverso di essa.
Sembra quasi che voglia dirci: “Vedi, la mia onnipotenza si manifesta
pienamente nella mia apparente impotenza di fronte al dolore, dammi retta, seguimi,
accetta il dolore inevitabile (quello evitabile, evitalo!), mi raccomando, pensa
solo ad amare mentre attraversi il dolore, e… vincerai!
La Resurrezione è per Gesù la vittoria piena sulla sofferenza e sulla morte,
per noi è pegno che, se lo seguiamo, sempre immersi nell’amore, se ci
configuriamo a Lui, con Lui vinceremo e troveremo la nostra piena realizzazione.
Si tratta pertanto capovolgere la nostra fede, non
tanto di credere in un Dio onnipotente e
misericordioso, che ci stupisce permettendo la sofferenza di innocenti, quanto
piuttosto di credere in un Dio misericordioso e impotente che, però, trasforma
la sua impotenza in onnipotenza passando attraverso quella impotenza e dandole
un significato.
Per noi, persone umane, sarebbe impossibile seguire un Dio onnipotente, diventa
invece possibile mettersi al seguito, imitare, di fronte alla sofferenza, un
Dio impotente che si limita (per così dire) ad amarci con un amore illimitato.
Roma 12/4/2020 Giuseppe
Sbardella
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