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lunedì 20 marzo 2023

Merito... non solo. Appunti sulla meritocrazia

 



Parte 1

Come valutare il merito?

Tutto parte dalla seguente domanda birichina che mi sono posto da solo: “Meritocrazia. E' più degno di apprezzamento (e meritevole…) un manager che alza del 2% il profitto della propria azienda farmaceutica o il medico, della medesima azienda, che scopre un farmaco per una malattia rara (dal quale non si prevede pertanto un grosso ritorno in termini di profitto per l'industria farmaceutica)?”
La risposta non è facile, e forse neppure è possibile darne una definitiva. Conviene procedere con ordine.

Il termine meritocrazia viene dal greco, significa letteralmente “potere al merito” e identificando quel tipo di modalità di riconoscimento caratterizzato dal premiare le persone più meritevoli nei campi più vari (aziende, scuole, mondo della finanza, sanità, sport ecc.).
Meritevole è la persona che contribuisce al successo di un ente, dal più piccolo come una famiglia, ai più grandi, come un’azienda o addirittura una nazione.

E qui cominciano i problemi.

Quali sono i criteri per misurare il successo di un ente e come paragonare le storie di successo nell’ambito dei vari enti per premiare le migliori?

E’ più meritevole il manager che alza del 5% l’utile della propria azienda in Borsa, premiando così gli azionisti ma mandando a casa 10.000 dipendenti, o il manager che l’alza solo del 2% ma evita ogni tipo di licenziamento?
E ancora (e qui la risposta sembra a prima vista più facile) è più meritevole lo scienziato che mette a punto il vaccino per una influenza pandemica (che salva milioni di persone e che fornisce un grosso ritorno in termine di profitto) o lo scienziato che scopre un farmaco per le malattie rare (che salva migliaia di persone con un ritorno di profitto ovviamente molto inferiore al precedente)? La vita di più persone vale più della vita di meno persone? ponetevi, prima di rispondere, nei panni di una di queste ultime...

Sembra chiaro che la risposta a queste domande non possa prescindere dall’individuazione di criteri oggettivi atti a misurare il contributo dei singoli al successo e, pertanto, dal tipo di società che si vuole costruire.

Se si vuole costruire una società fondata su valori quali la massimizzazione della ricchezza individuale, del profitto aziendale, del PIL nazionale, saranno considerati meritevoli i cittadini che, con la loro attività, avranno meglio contribuito all’accrescimento quantitativo di questi valori.
Se invece la meta è quella di una società in cui si possa vivere meglio, in cui sia distribuita comunque una base di ricchezza sufficiente per una vita dignitosa, e si punti ad uno sviluppo rispettoso delle esigenze ambientali e della necessità di un solido contesto relazionale interpersonale, allora saranno considerati meritevoli i cittadini che maggiormente si saranno impegnati sul fronte della salute, dell’ambiente e di tutto quant’altro consente alle persone di avere solide e realizzanti relazioni umane.

Pertanto solo se si ha chiaro il modello di sviluppo da implementare e il tipo di società da costruire si potrà meglio capire cosa si intenda effettivamente per merito. Di qui la prima conclusione che non può esistere una concezione di merito condivisa da tutti ma che tale concezione dipenda in maniera molto rilevante dai valori sociali che i singoli cittadini professano.

E non è l’unica questione che si presenta.

E’ comune esperienza (sia pratica che scientifica) che le prestazioni individuali (professionali, sportive, relazionali) dipendono in gran parte da fattori che prescindono dall’impegno individuale. A titolo di esempio possiamo individuare alcuni di questi:

·       il quoziente di intelligenza (Q.I.);

·       l’ambiente familiare e sociale da cui si proviene;

·       il percorso di studi (spesso obbligato) portato (o non) a termine;

·       le doti fisiche e psichiche (talento) naturali.

Come valutare i meriti di due lavoratori di cui uno, con Q.I. superiore alla media, completa un incarico in pochi minuti e senza eccessiva fatica, e l’altro, con Q.I. inferiore alla media, in un’ora ma con grande impegno? Certo il primo avrà del tempo disponibile per portare a termine altri lavori e il secondo forse no, ma chi dei due è stato più meritevole?

Certo, se ci si basa solo sul criterio del profitto, il primo risulterà necessariamente vincente, ma abbiamo visto che il successo materiale non può essere il solo criterio. Magari il secondo lavoratore, più lento ma maggiormente impegnato, potrebbe essere più capace di integrarsi in un efficace lavoro di team.
E ancora, per tornare ad una domanda iniziale, come valutare, in termini di merito, lo scienziato che predispone il vaccino per milioni persone e quello invece che, magari con maggior impegno, scopre una medicina per una malattia rara? Valuteremo il merito in termini di ritorno di profitto, di numero di potenziali persone (pesandone l’importanza individuale in funzione del numero), o invece misureremo la quantità di impegno profuso da ciascuno dei due nel loro lavoro?
Come valutare l’insegnante, dotata di carisma personale, in grado di tenere la classe in termini di disciplina ma con scarsa capacità di trasmettere conoscenze e valori, con un’altra, magari meno esuberante, talvolta schiacciata dagli studenti, ma intenta, con grande impegno, a veicolare in loro sia le conoscenze tecniche che i principali valori sociali? Certo la prima arrecherà meno fastidio al Dirigente scolastico (che potrà limitare i suoi interventi di tipo disciplinare) ma dovrà essere considerata più meritevole dell’altra?

E non sono finiti gli interrogativi da porre sulla questione della meritocrazia.

Come comportarsi sui periodi di valutazione? Dovremo considerare più meritevole il ricercatore che, annualmente, produce singoli risultati di rilevanza normale, o un altro ricercatore, impegnato in un lavoro più complesso e con necessità di maggior tempo di analisi, che raggiungerà un risultato molto più importante ma dopo più anni? Generalmente si è portati a considerare il breve periodo, ma è giusto, non ci limiteremo così a premiare gli sforzi brevi e a disincentivare gli studi lunghi e complessi?

Riepilogando,

·       scopo ultimo del lavoro,

·       importanza dei fattori individuali predeterminati,

·       rapporto fra risultato e impegno,

·       lunghezza del periodo di valutazione

sono (e forse ce ne saranno anche altri) quattro elementi che mettono a dura prova la fondatezza e la ragionevolezza del motto “potere al merito”.

L’impressione netta è, che in questa come in altre questioni sociali, occorra evitare ogni fondamentalismo, ogni presunzione che problemi complessi siano risolvibili con soluzioni semplici, che ci possano essere, in ogni caso, scorciatoie in grado di evitare la indispensabile fatica del discernere, comprendere e solo alla fine decidere.

Il reale merito dovrà essere valutato tenendo conto non solo del contributo al profitto, al guadagno finanziario o al PIL, ma anche di fattori diversi quali l’impegno individuale, il contributo al bene comune e l’importanza del lavoro in rapporto al tempo impiegato. Solo in una ottica così allargata diventerebbe possibile avviare una concreta e giusta politica di riconoscimento del merito.

 

Parte 2

Ma è vero merito?

Ma, nel sostenere il principio meritocratico, siamo certi che veramente stiamo riconoscendo il merito delle persone che premiamo?
Non sarà necessario, prima di ogni cosa, mettere tutte le persone in condizione di godere delle medesimo opportunità? Ovvero garantire quella che viene definita come l’uguaglianza delle condizioni di partenza, di uguaglianza garantita come pari opportunità per arrivare al successo nel proprio campo?
Una volta che fossero definite ed implementate delle sane e positive politiche in campo scolastico, sociale, sanitario, culturale per potenziare i soggetti più deboli e consentire loro di dedicarsi alla attività desiderata perché non innescare, a questo punto, il principio meritocratico e riconoscere il valore dei più meritevoli?

Forse perché il talento del quale siamo dotati e che ci permette di raggiungere o meno determinati risultati di successo non può essere considerato solo “nostro” ma è frutto di un dono o della sorte.
Ogni essere umano nasce infatti con un determinato patrimonio genetico, con determinate doti caratteriali che vengono affinate e potenziate dall’ambiente familiare e sociale nel quale viviamo e che ci offre (ci dona) precise possibilità di crescita.
il DNA genitoriale, il contesto culturale e professionale delle nostre amicizie, la possibilità di accedere a strutture formative adeguate, le risorse finanziare necessarie per viaggiare e conoscere ambienti diversi, sono tutti elementi che giocano a favore (o a sfavore…) di ciascuno di noi nella via verso il successo.
Chi ha avuto la sorte di vivere in un contesto favorevole,  di aver goduto di una istruzione adeguata, di aver frequentato stimolanti ambienti nazionali e internazionali, ha davvero pochi meriti personali in più rispetto a chi ha avuto una sorte sfavorevole per poter pretendere e rivendicare un riconoscimento maggiore nel raggiungimento di determinati risultati.
Se si preferisce, invece di sorte, si può parlare (per chi è credente) di dono di Dio, ovvero di benevolenza divina gratuita, ma in questo caso chi ne è beneficiario non se ne può assolutamente gloriare.

Sane positive sociali in campo scolastico, sociale, sanitario, scolastico potrebbero parzialmente livellare le condizioni di partenza ma non potrebbero mai annullarle e alcune condizioni favorevoli (come il DNA, le amicizie del proprio ambiente sociale, l’influsso culturale familiare) contribuirebbero sempre ad agevolare il cammino dei più rispetto ai meno fortunati.
Si potrebbe forse affermare che, anche se non è certo che ci sia del merito a raggiungere determinati risultati in condizioni di privilegio, si potrebbe però pur sempre riconoscere e premiare l’impegno di chi ha saputo mettere a frutto il talento consegnatogli gratuitamente dalla sorte o dalla grazia divina. Si potrebbe arrivare a teorizzare una meritocrazia dell’impegno.

Siamo certi che almeno l’impegno (visto come capacità di concentrare, anche con sacrificio, i propri sforzi per raggiungere un risultato degno di riconoscimento) sia il frutto autonomo di una nostra scelta?
Non sarà anche l’impegno frutto del nostro peculiare DNA, dell’educazione che abbiamo ricevuto nel nostro contesto familiare e sociale?
La maggior parte di noi conosce ragazzi capaci tranquillamente di impegnarsi in una attività e altri molto meno capaci. Se poi andiamo ad approfondire il loro contesto familiare e sociale di questi ultimi, ci rendiamo conto che è difficile per loro acquisire capacità di impegno e di sacrificio se, intorno a loro, nessuno li sprona in questa direzione o ha dato loro un esempio di vita significativo in tal senso.

Ma allora, se il merito è frutto in maggior parte della sorte o di un dono di Dio, che senso ha parlare di meritocrazia e della necessità di riconoscere i più meritevoli? Non è meglio, se si vuol essere realisti e, allo stesso tempo, equi, rinunciare ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base del merito?


Parte 3

Che succede se rinunciamo al merito?

Rinunciare ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base di un merito che si riconosce esistente altro non vuol dire che passare da una forma di giustizia distributiva che attribuisca a ciascuno secondo i suoi meriti (tenendo conto di alcuni trattamenti minimi non comprimibili) ad un'altra che attribuisca a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Nessuno, in migliaia di anni di storia del genere umano, è riuscito nell’applicare integralmente, in un contesto di rispetto della libertà personale, il secondo criterio se non all’interno di singole piccole comunità o sette ad alta e condivisa tensione ideale.
Il criterio si è rivelato inapplicabile e dissolto nella misura in cui la dimensione di queste comunità è cresciuta, o che la tensione ideale sia fortemente diminuita.
Vuol forse dire che qualche problema di realismo e di compatibilità esiste ed è insuperabile?

Ma la rinuncia ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base di un merito porrebbe problemi anche di normale carattere pratico.
Come eserciteremmo, in una democrazia parlamentare, in una libera associazione, in un condominio, il nostro diritto di voto per scegliere una persona per un incarico? Dovremmo pur sempre valutare i comportamenti e le capacità dei singoli candidati e scegliere quella persona che, a nostro parere,… meriterebbe il nostro voto! Magari le daremmo il nostro voto sulla base dei criteri più disparati (l’età, il livello di istruzione, il genere, il colore dei capelli, il ceto, la residenza…) ma, in ogni caso, dovremmo darle una preferenza e decidere sul perché merita la mia preferenza rispetto ad un’altra persona!

Non vorrei essere semplicistico ma mi sembra che la soppressione tout court del “merito” come criterio di valutazione non sia realisticamente possibile.
Diversa è la soluzione sul come valutare il merito, su quali criteri utilizzare. Come già accennato in precedenza, il reale merito dovrebbe essere valutato tenendo conto di vari fattori quali la competenza personale, l’impegno individuale, il contributo al bene comune, l’importanza del lavoro in rapporto al tempo impiegato, non solo pertanto di fattori solo finanziari quali il contributo al profitto o alla crescita economica.
Solo in una ottica così allargata diventerebbe possibile avviare una concreta e giusta politica di riconoscimento del merito.
Questa ottica postula necessariamente un discernimento serio e il più possibile oggettivo e condiviso.
Se la valutazione personale non appare basata su dati oggettivi e misurabili nonché effettuata senza una sufficiente condivisione, diventa inevitabile che possa venire contestata da chi non si ritenga (magari a torto) inferiore a colui il quale è stato riconosciuto un merito maggiore.
A livello socio-politico certi fenomeni populistici vanno proprio ascritti a questa motivazione, la sensazione di essere stati trattati ingiustamente per una non corretta valutazione del merito personale.
Più sono trasparenti e pubblici sia i criteri per la valutazione del merito sia gli strumenti di misurazione dello stesso, più diventa difficile contestare le valutazione e i conseguenti riconoscimenti (fermo restando che l’unanimità non si potrà mai verificare).

Per chi vorrà approfondire l’argomento appena accettato in queste considerazioni, potrà leggere con profitto:

1.     Carlo Cottarelli – All’inferno e ritorno – Feltrinelli 2021

2.     Michael J. Sandel – La tirannia del merito – Feltrinelli 2021

Luca Ricolfi - La rivoluzione del merito - Rizzoli 2023

 

Roma 20 marzo 2023

domenica 27 marzo 2022

1 vale sempre 1?

                     Considerazioni libere sul suffragio universale ugualitario




Il suffragio universale è stato sicuramente una grande conquista dell'umanità nell'ottica del cammino verso una piena democrazia.
Esso è stato oggetto di una dura battaglia nel corso del XIX e del XX secolo che ha lasciato sul campo numerose vittime.

Oggi nessun democratico in un Paese civile può pensare ragionevolmente che il diritto di voto possa essere oggetto di limitazioni, come avvenuto in passato, per motivi di censo, di genere, di religione.

L’ art. 48 della Costituzione italiana riflette totalmente tale pensiero e così recita:

«Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.
Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
La legge stabilisce requisiti e modalità per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all'estero e ne assicura l'effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l'elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge.
Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.»

Il voto dunque deve essere libero, uguale, segreto.
Ma, ci domandiamo, il concetto di libertà, uguaglianza e segretezza del voto come si può declinare nonché garantire nel mondo odierno?

Ricordo una trentina di anni fa allorché lessi questa frase in un libro di Sergio Zavoli, giornalista di vaglia come pochi ce ne sono stati: “la rivoluzione non è più nel cambiamento ma nella velocità con la quale esso avviene”. Oggi la aggiornerei in questo modo: “La rivoluzione non è più nel cambiamento né nella velocità con la quale esso avviene, ma nella continua accelerazione di tale velocità”.

E non posso neppure fare a meno di ricordare l’opera del  grande sociologo polacco Zygmunt Bauman, vissuto a cavallo fra il XX e il XXI secolo e morto nel 2017, il quale postulò che ormai ci troviamo in una “società liquida”, ovvero in una società che evolve in una maniera talmente rapida che non facciamo neppure a tempo a comprendere lo stato evolutivo alla quale la società è arrivata che questo è già cambiato!
La liquidità, oltre alla globalizzazione e alla interconnessione delle informazioni sono i caratteri salienti della società odierna, perlomeno di quella più avanzata.

Ai fini di queste considerazioni sul suffragio universale, perché questa premessa su alcuni elementi rilevanti del mondo odierno?
Perché la domanda successiva da porsi è quella di chiedersi quale livello di consapevolezza (fatta sia di conoscenze consolidate che di esperienze accumulate) debba essere acquisito per poter fare scelte realmente libere.

Senza per questo dimenticare un altro fronte sull’aspetto della battaglia a difesa della libertà, quello aperto sul campo delle tecniche comunicative e della manipolazione mediatica per pilotare le scelte personali (politiche e commerciali) di cittadini e consumatori. In questi venti anni sono stati fatti progressi inenarrabili su questo fronte della manipolazione.
L’uso spregiudicato delle fake news, dei social, dei sondaggi truccati, dei messaggi subliminali, si è ampiamente sviluppato mentre, contemporaneamente si è prodotto (e qui la mia mente corre soprattutto all’Italia) un declino culturale e un degrado cognitivo che fa temere un devastante “analfabetismo di ritorno

E come non pensare, sempre, con riferimento all’Italia, al continuo invecchiamento anagrafico e all’allargarsi della forbice del “divario digitale” fra vecchie e nuove generazioni?
Io stesso settantatreenne,  imbevuto di cultura classici ma dipendente per 31 anni di una azienda multinazionale all’avanguardia nel campo della IT, faccio una fatica enorme a seguire l’evoluzione della tecnologia digitale, e spesso non ci riesco…
Così non ci riescono neppure tanti altri coetanei che, pur ancora lucidi e colti, non ce la fanno più a star dietro alla evoluzione tecnologica e a tutto ciò che ne consegue nel campo delle conoscenze (solo a titolo di esempio, oggi la gran massa delle informazioni viaggia in tempo reale su internet e non certo sulla carta).
E che dire della grande quantità di dati (i big data) dalla quale siamo sommersi, che sono reperibili e classificabili solo attraverso l’impiego dei grandi elaboratori di ultima generazioni capaci di “intelligenza artificiale”?


In un mondo del genere che vuol dire essere liberi, ovvero avere la piena consapevolezza, in termini di conoscenze acquisite e di esperienze consolidate, di poter fare scelte che provengono unicamente dalla nostra capacità di elaborare un pensiero adeguato ai tempi e alla realtà che ci circonda?

Forse occorre avere l’umiltà per affermare che oggi, nel mondo attuale, la piena consapevolezza non è più raggiungibile e che bisogna accontentarsi di scelte e soluzioni in grado di avvicinarsi al miglior bene possibile per gli altri e per chi ci circonda. 

E allora torniamo al tema del suffragio universale egualitario così come declinato nell’art. 48 della Costituzione italiana.
Possiamo dire che, oggi nella situazione attuale siamo tutti ugualmente capaci di fare scelte consapevoli (ovvero avendo conoscenze ed esperienze adeguate) per affrontare problematiche abbondanti e sempre più complesse, tipiche di un mondo globalizzato e allo stesso tempo frastagliato, con un ritmo di velocità travolgente e ad alto livello di digitalizzazione?
Non è forse onesto, anche se molto doloroso ammettere che la risposta è solo una : NO?

Rimango peraltro convinto che la battaglia per il suffragio universale non debba andare persa, ma che occorrano solamente soluzioni mirate per rendere questo strumento ancora pienamente valido ai fini del mantenimento della democrazia.

La nostra Costituzione dice che il voto deve essere libero, uguale, segreto.

Ma possiamo definire sicuramente segreto, nel XXI secolo, un voto definito con una croce a matita dentro una cabina ben nascosta alla vista?
Nel centro/sud di Italia erano stati già escogitati, negli scorsi decenni, sistemi per permettere il controllo di massa del voto tramite l’uso di schede pre-votate consegnate agli elettori in cambio di schede intonse. Oggi, più facilmente basta consegnare all’elettore, prima di entrare nel seggio, uno smartphone impostato in modalità silenzioso e chiedergli di fotografare il voto sulla scheda, in maniera da permettere il controllo della sua scelta.
Diventa indifferibile ormai, al fine di garantire la segretezza, modificare le modalità del voto, magari passando a cabine trasparenti o (ma questo creerebbe molti problemi alle vecchie generazioni) passare al voto elettronico.

Questo per quanto riguarda la segretezza. Più delicate, e anche più difficili nell’approccio, sono le considerazioni legate al tema della libertà e della uguaglianza del voto.
Abbiamo visto più sopra come alla domanda  se siamo tutti ugualmente capaci di dare voti consapevoli (ovvero avendo conoscenze ed esperienze adeguate) per affrontare problematiche abbondanti e sempre più complesse, tipiche di un mondo globalizzato e allo stesso tempo frastagliato, con un ritmo di velocità travolgente e ad alto livello di digitalizzazione, la risposta dovrebbe essere onestamente negativa.
Un voto coartato da una abile manipolazione mediatica, o non sostenuto da adeguate conoscenze o limitato da scarse o mancanti esperienze di vita, difficilmente un voto può essere considerato realmente libero.
Forse è su questo piano che occorrerebbe agire, non eliminando l’universalità del suffragio, ma regolandone l’accesso per garantirlo in maniera graduale proporzionalmente al livello di consapevolezza (e di conseguenza di libertà) del cittadino elettore.
Si tratta di trovare criteri di ponderazione del voto in maniera da non toglierlo a nessuno ma accrescendone  il valore in funzione dell’acquisto di una maggiore consapevolezza di scelta.

Anche perché trattare in maniera uguale persone con diversi gradi di consapevolezza e, di conseguenza di libertà, sotto la veste di garantire la libertà formale produrrebbe la peggiore delle disuguaglianze sostanziali.

Certamente attribuire un voto ponderato non deve far pensare a non augurabili esperienze del passato, e a “pesi” quale il genere (o l’orientamento sessuale), il censo o un livello di istruzione formale.
Questo sarebbe assolutamente inaccettabile anche perché il superamento di questi criteri è costato secoli di lotte anche cruente e sarebbe delittuoso e ingiusto pensare di tornare indietro.

Si possono cercare invece altri criteri di ponderazione.

Un primo criterio potrebbe essere quello di sottoporre i cittadini ad una sorta di esame di educazione civica formulando loro una serie di domande sulla Costituzione italiana, sull’ONU e e sulla UE attribuendo poi un peso in funzione della percentuale di risposte esatte.
Fra l’altro con questo sistema si potrebbero spingere i cittadini, che difficilmente lo farebbero in maniera spontanea, ad approfondire gli argomenti inerenti la propria educazione civica.
Ma siamo certi che la conoscenza dei valori fondanti del nostro Paese siano sufficienti per un voto libero e consapevole? No, non basta avere conoscenza in tal senso se poi non si ha la capacità di elaborarle in collegamenti con altre conoscenze ed esperienze per poter infine giungere ad un giudizio complessivo propedeutico al voto.

Un secondo criterio potrebbe essere quello di ponderare il voto a seconda del Quoziente di Intelligenza (QdI) raggiunto da ogni cittadino elettore. Una volta stabilite delle fasce di QdI si potrebbe concordare un “peso” da attribuire ad ogni fascia e, conseguentemente, un peso al voto dei cittadini che si posizionino in quella fascia di QdI.
Ma siamo certi che sia sufficiente avere un alto QdI per essere certi di votare in maniera libera e consapevole? Il risultato del test sul QdI può essere falsato in funzione del tipo di studi fatti (scientifici, classici, tecnici, professionali…) e, soprattutto, una persona può anche essere intelligentissimo ma carente in conoscenze pratiche della vita o in relazioni interpersonali.

Ancora. ci si può invece domandare se un  altro ( e più selettivo) criterio applicabile non possa essere quello dell’età.
Il criterio dell’età per votare è previsto in pressoché tutti gli ordinamenti giuridici nazionali. Generalmente è prevista una età minima (in Italia 18 anni) per poter dare il proprio voto alle elezioni politiche sulla base della considerazione che una certa età minima è necessaria per aver avuto la possibilità di acquisire conoscenze e esperienze sufficienti per dare un voto maturo e consapevole.
In alcuni ordinamenti (ad esempio quello che regolamenta l’elezione del Papa di Roma) è stabilita una età massima (nel caso di specie 75 anni) trascorsa la quale si presume che l’elettore non abbia potuto più la pienezza di lucidità o di capacità intellettiva per poter esprimere un voto consapevole.
Ma è giusto che sia solo la data del proprio compleanno a stabile il limite minimo (o massimo) per dare il proprio voto con un peso uguale a quello degli altri?

Mi sono sempre chiesto perché il voto di un 70nne pensionato, con grande esperienza di vita, ma con conoscenze ormai in parte annebbiate dalle ineluttabili carenze di memoria e in parte superate per la difficoltà di aggiornamenti che sempre più spesso avvengono per via informatica (di accesso più problematico per gli anziani), debba valere quanto il voto di un 40-50enne, presumibilmente lavoratore con figli a carico, la cui esperienza di vita sia già sufficientemente consolidata e le cui conoscenze siano adeguate alla realtà che sta vivendo. 
Anche se, personalmente mi ritrovo nel primo ritratto non ho dubbi nel ritenere che il mio voto debba valere di meno di quello del 40-50 enne delineato nel secondo ritratto, in quanto quest’ultimo può esprimere il voto con maggiore consapevolezza e libertà, possedendo già sia conoscenze che esperienze adeguate.
Mentre mi parrebbe corretto che il voto del 70enne pensionato, con esperienza adeguata ma conoscenze carenti, possa valere quanto quello di un giovane 20enne, più carente come esperienza di vita ma in possesso di conoscenze più aggiornate.

In pratica sto delineando un grafico con una curva a forma di campana laddove sull’asse delle ordinate venga considerato, in forma crescente e poi decrescente il perso del voto e, sull’asse delle ascisse in forma crescente l’età.
I pesi più bassi vengono attribuiti, in maniera equivalente agli appena maggiorenni e ai 67enni (normalmente pensionandi o pensionati); i pesi crescono dalla maggiore età fino a raggiungere i 40-50 anni per decrescere poi nuovamente.

Di seguito un esempio grafico della attribuzione del peso del voto che assumerebbe la veste classica di una curva di Gauss.

 

Sono convinto della ragionevolezza e dell’equità dell’ipotesi appena delineata, anche se mi rendo conto della sua concretamente impossibile realizzazione, almeno a breve termine. La maggioranza della popolazione si situerebbe nelle parti basse della curva mal digerendo un peso di voto inferiore e nessun Parlamento avrebbe il coraggio di approvare una riforma elettorale del genere.

Ma all’età di quasi 74 anni, posso permettetemi di lanciare nel web proposte, anche provocatorie, idonee ad offrire ai lettori uno stimolo per una riflessione e, magari, aprire uno spezio per un serio e costruttivo confronto.

 

Roma 27 marzo 2022                                                                                    Giuseppe Sbardella

venerdì 30 ottobre 2020

Persone e popolo (nuova definizione di "popolarismo"?)

 


Personalismo di popolo?

 

Al paragrafo 41 dell’enciclica Fratelli tutti si legge questo brano:
“ (omissis) ,,,è anche vero che una persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé l’apertura agli altri,”
La sua lettura può forse dare lo spunto per una interpretazione innovativa del personalismo che permetta di puntare l’attenzione non più sulla nozione di persona, quanto piuttosto di popolo.

Volendo semplificare al massimo il personalismo è quella componente di pensiero (avente tra i suoi principali esponenti i francesi Mounier, Maritain, Ricoeur, il tedesco Guardini e gli italiani La Pira e Sturzo), che ha il suo fondamento in una precisa concezione antropologica della persona umana quale essere che si realizza nella misura in cui si apre:

1.     a se stesso;

2.     al prossimo che lo circonda;

3.     alla natura delle quale anche lui è parte;

4.     al trascendente (che per i credenti assume il nome di Dio, per i non credenti di Mistero, di Scienza ecc.)

La prima dimensione (che possiamo definire della profondità) riguarda la conoscenza di se stesso (la massima socratica “conosci te stesso”), dei propri limiti, delle proprie capacità, dei propri sogni e desideri.

La seconda dimensione (che possiamo definire della orizzontalità) riguarda il nostro rapporto con gli altri, da considerare soggetti con i quali interloquire e la cui diversità è un arricchimento per noi, mai come oggetti da manipolare o dati immodificabili da studiare.

La terza dimensione (che possiamo definire della immensità), riguarda il nostro rapporto con la natura che ci circonda e della quale, contemporaneamente siamo parti, con un atteggiamento di custodia e insieme di ascolto dei messaggi insiti in essa.

La quarta dimensione (che possiamo definire della verticalità) riguarda il nostro rapporto con il trascendente che i credenti identificano con il loro Dio, i non credenti con il mistero, l’invisibile, l’inspiegabile e si esprime nelle domande che ci poniamo sul senso della vita, sulla nostra origine, sul nostro destino.

Queste quattro dimensioni sussistono anche nella nozione di popolo di modo tale che si possa ipotizzare la possibilità di un personalismo di popolo?

In effetti forse è proprio possibile parlare di popolo solo quando un insieme di persone è caratterizzato  dalla esistenza contemporanea di queste quattro dimensioni.

La prima di esse (la profondità) si esprime nella capacità di un popolo di prendere coscienza della propria storia, delle proprie tradizioni, della varietà di culture dalle quali è attraversato, delle proprie realtà economiche e sociali, in una sola parola della propria identità.

La seconda (l’ orizzontalità) si esprime, da una parte, nella capacità di dialogo fra le persone che lo compongono, dall’altra nella stessa capacità rivolta ai popoli che lo circondano e, in un mondo globale a tutti i popoli della terra. Si tratta di una apertura al dialogo, al confronto senza pregiudizi e schemi precostituiti, che possa, su tali basi, essere di arricchimento reciproco per tutte le parti che dialogano fra loro.

La terza dimensione (la immensità) si può declinare nell’attaccamento, che diventa anche rispetto e in qualche misura culto, al proprio territorio, alle caratteristiche naturali dello stesso, al sano utilizzo delle risorse fisiche e della natura per poter vivere una esistenza a misura di uomo  lasciando integro e pienamente vivibile il territorio alla future generazioni. (vedi anche nota in fondo al testo).

La quarta dimensione (la verticalità) riguarda il modo con il quale questo popolo, che vive su un preciso territorio, che è consapevole della propria storia, delle proprie tradizioni, culture, realtà socio economiche, insomma della propria identità, è capace di proiettarsi in un progetto di crescita e di sviluppo ovvero, lasciatemelo esprimere così, “sognare” e progettare come comunità il proprio futuro.

Sulla base di queste quattro dimensioni è possibile pertanto delineare una definizione di popolo come “un insieme di persone, unito da una forte identità storica-culturale-socioeconomica, in dialogo fecondo con gli altri popoli, incardinato in un preciso contesto territoriale - ambientale pienamente rispettato, proiettato verso un futuro condiviso”.

Si tratta sicuramente di una definizione che potremmo identificare come ulteriore espressione del pensiero personalistico, adattato anche ad un “personalismo di popolo”, ma potrebbe essere anche una definizione alternativa di quello che, in scienza politica, viene chiamato “popolarismo”.


Nota:  Nel caso dei popoli nomadi, si potrebbe pensare che la dimensione del territorio non esista. Forse invece di tratta di ipotizzare l’idea di un “territorio mobile” che viene identificato con il territorio sul quale, di volta in volta si stabiliscono.

 

 

 

martedì 1 settembre 2020

Rifondiamo Castro Pretorio, un quartiere nel degrado (leggere testo dopo le foto)

 











Progetto “Rifondiamo Castro Pretorio”

Road map (mappa di orientamento per in nostro impegno)

 

Occasione: ricorrenza di 2000 anni di fondazione del rione (bimillenario).

 

Obiettivi:

·       ricostruire il tessuto sociale del rione;

·       creare un modello di coesistenza costruttiva nella coesistenza di etnie e culture diverse;

·       restituire decoro e sicurezza al territorio;

·       attirare cittadini italiani o comunque europei;

·       creare spazi e luoghi di aggregazione per adulti bambini e anziani;

·       valorizzare i servizi offerti dalle attività imprenditoriali, commerciali e artigianali presenti nel rione.

 

Problemi riscontrati nel rione:

·       sicurezza (spaccio di droga, vagabondi psicolabili in libera circolazione…);

·       pulizia e decoro (es: completa assenza di cassonetti in una parte notevole del rione);

·       difficoltà di dialogo fra etnie e culture diverse;

·       scarsità di spazi verdi di aggregazione per bimbi e anziani;

·       manutenzione pressocché assente di strade e marciapiedi;

·       insufficienza di parcheggi (con troppi spazi concessi ad enti pubblici);

·       assenza di eventi di tipo culturale o comunque aggregativo.

(NB: questi problemi sono elencati in ordine di priorità sulla base di un sondaggio effettuato fra i cittadini del rione).

Enti (pubblici e privati) presenti nel rione che possono essere considerati risorse per il nostro Progetto e con le quali è necessario instaurare una qualche forma di collaborazione:

·       Stazione Termini;

·       Facoltà di Scienze della Formazione di Roma 3;

·       Sede Generalizia mondiale dei Salesiani;

·       Banca d’Italia (Tesoreria centrale);

·       Consiglio Superiore della Magistratura;

·       Cassa Depositi e Prestiti;

·       ENIT;

·       Licei N. Machiavelli e Plinio Seniore;

·       Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo;

·       Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano;

·       Stazione dell’Arma dei Carabinieri “Macao”;

·       Distretto della Polizia di Stato;

·       Centro Caritas diocesana;

·       Comunità S. Egidio;

·       Teatro dell’Opera.

 

Enti locali con i quali interloquire

·       Comune di Roma;

·       Municipio Roma 1;

·       Asl RM 1;

·       Regione Lazio;

 

Contesto commerciale:

·       massiccia presenza di esercizi collegati alla accoglienza turistica (alberghi, ristoranti, bar ristoro, pizzerie, servizi internet…) non di rado gestiti da persone extra-comunitarie;

·       residuo di alcuni esercizi storici di qualità anche eccelsa e di altri piccoli esercizi commerciali (ferramenta, elettricità, cartolerie, barbieri…) gestiti da persone italiana, nella maggior parte nate o residenti nel quartiere;

·       presenza invadente del Centro commerciale della Stazione Termini.

 

Servizi sanitari:

·       Policlinico Umberto I ai confini del Rione;

·       centro sanitario (privato) S. Raffaele alla Stazione Termini;

·       nessun ambulatorio ASL presente sul territorio.

·       4 farmacie (incluse le 2 della Stazione Termini).

 

Strumenti di azione:

·       Libera associazione di cittadini “Rifondiamo Castro Pretorio” (da costituire formalmente) che opera:

1      quale gruppo di pressione e di controllo sulle Autorità Pubbliche;

2      quale momento di formazione e educazione civica della cittadinanza;

3      quale momento di dialogo e di integrazione multietnica;

4      in rappresentanza dei cittadini del rione.

 

·       Gruppo Facebook privato “Rifondiamo Castro Pretorio” già esistente (con più di 100 membri) quale luogo virtuale di confronto reciproco e di lancio e di attuazione delle iniziative.

 

·       Gruppo Facebook “Castro Pretorio a servizio” di presentazione e di promozione commerciale del rione.

 

·       Blog (da istituire) che si affiancherebbe al Gruppo e alla Pagina Facebook.

 

·       Comitato di quartiere (già esistente).

 

Risorse professionali da reperire persone (“volontari”) con esperienza:

·       legale;

·       commercialistica;

·       informatica.

 

Punti problematici

·       possibile sede fisica;

·       finanziamento (spese ridotte al minimo e autofinanziate?).

 

Iniziative da intraprendere:

·       azione di dialogo e pressione su Forze dell’ ordine (P.S., Carabinieri, Polizia Municipale) per controllo più assiduo e incisivo sul territorio di persone e situazioni sospette (spaccio di droga, alcoolizzati pericolosi ecc.);

·       richiesta forte ad AMA di intensificare l’attività di pulizia di strade e marciapiedi sul territorio e di riposizionare i cassonetti da tempo assenti nel rione;

·       richiesta forte e azione collaborativa con Comune, Municipio e Regione per servizi sociali tendenti al recupero delle persone psicolabili o vagabondi che attualmente vagano e stazionano nelle strade del quartiere;

·       richiesta forte e azione collaborativa con Comune, Municipio e Regione per costituzione di cooperative di lavoro (pulizia di strade, traslochi ecc.) per persone extracomunitarie regolari senza lavoro;

·       richiesta forte e azione collaborativa con Comune, Municipio e Regione per reperimento di 1) spazi verdi di aggregazione per bambini e per anziani nonché di 2) una sala pubblica per riunioni di assemblea di rione;

·       richiesta forte a Municipio per manutenzione di strade e marciapiedi;

·       collaborazione con Università Roma 3 e la Sapienza per l’assegnazione di tesi di laurea sulla situazione del rione.

·       istituzione, anche a cura dei soli cittadini del rione, di momenti liberi di aggregazione (festa del quartiere, mostre, iniziative culturali…), adatti anche ad attirare persone da altri quartieri o ad incuriosire turisti di passaggio;

·       organizzazione di momenti di incontro e di condivisione con persone di altre etnie per una maggiore conoscenza reciproca;

·       enfatizzare la presenza nel rione dei musei di Palazzo Massimo e Terme di Diocleziano, cercando di attirare la presenza di turisti;

·       enfatizzare la presenza delle Mure Aureliane, cercando di attirare la presenza di turisti nel rione.

·       Organizzare un possibile “mercatino” del piccolo artigianato e altro per attirare persone nel quartiere.

 

Questa Road map delinea un programma complesso e difficile da portare avanti anche a causa delle probabili resistenze dei portatori di interessi opposti.

Sarà necessaria una decisa, massiccia e incisiva, anche se rispettosa della legge, azione dei cittadini del rione che si dovranno muovere insieme nel maggior numero e con la maggiore compattezza possibile.