Questa Direttiva regolamenta la fornitura/prestazione di servizi nell’ambito
del mercato europeo comune stabilendo il principio basilare della libera
concorrenza e della possibilità per un prestatore di servizi di fornire i propri in qualsiasi Paese della
UE sulla base della normativa vigente nel proprio Paese di origine.
Sono stabilite, oltre ad altre minori, due importante eccezioni:
1. Sono
esclusi dalla applicazione della normativa alcuni servizi ritenuti di interesse
nazionale non negoziabile (trasporti, luce gas e acqua, servizi all’infanzia…).
2. Sono
esclusi dalla applicazione della normativa vigente nel Paese d’origine materie
quali il diritto del lavoro onde evitare il rischio di possibili pratiche di
dumping sociale.
Per approfondimenti più dettagliati sul contenuto
della Direttiva suggerirei di leggere direttamente il testo della Direttiva UE
2006/123/CE e del D. lgs 26 marzo 2010, n. 59,
facilmente reperibili su internet.
L’applicazione integrale in Italia della Direttiva e
del relativo decreto tarda ad attuarsi e per alcuni tipi di servizi (come ad
esempio le licenze di taxi, le licenze dei venditori nei mercati rionali, le
concessioni balneari, ma anche alcune attività di tipo professionale sanitario …)
sono oggetto di aspro dibattito politico e di forte opposizione
da parte delle categorie interessate.
Quali sono le principali obiezioni che vengono poste ai principi di fondo e
alla normativa fissata nelle Direttiva?
In primo luogo viene evidenziato il forte rischio
di una decisa penalizzazione degli imprenditori e degli artigiani nazionali
di fronte al libero ingresso nel mercato di concorrenti provenienti da altri
Paesi i quali, magari in virtù di innovazioni organizzative o tecnologiche già
presenti nel loro mercato nazionale, si potrebbero permettere di praticare
prezzi più bassi di quelli praticati dagli imprenditori e artigiani locali,
ponendo questi ultimi in seria difficoltà finanziaria e nell’impossibilità
di mantenere la forza lavoro occupata. Senza pensare che i prezzi più bassi
potrebbero anche derivare dall’uso di materiali di livello scadente o
ecologicamente meno sostenibili.
In secondo luogo particolarmente gli imprenditori che
svolgono la loro attività sulla base di una licenza o di una concessione
pubblica (es: tassisti, imprenditori balneari, piccoli venditori nei mercatini
rionali…) sottolineano che il dover rimettere periodicamente in gioco la loro
licenza / concessione o il dover affrontare nuovi concorrenti abbassa in
maniera rilevante il valore della loro licenza o concessione annichilendo
inoltre gli investimenti fatti per prestare un servizio sempre migliore.
Tutto questo aggravato dalla circostanza che la prassi consolidata in
Italia del rinnovo pressoché automatico di tali licenze / concessioni ha
generato il convincimento che fossero quasi assimilabili a diritti di proprietà
privata e, come tali, traferiti a parenti o ceduti a titolo oneroso a terzi.
Si potrebbe replicare efficacemente punto su punto ma
lo si può fare anche a partire da un ragionamento più generale.
Pare evidente che la UE abbia scelto, in vista dello
sviluppo economico dell’insieme dei Paesi ubicati nel suo territorio, di
affidarsi ad una politica che vede il suo fondamento in una economia mi mercato
nella quale la libera concorrenza svolga un ruolo preminente.
Non ci può essere economia di mercato senza una base ampia di libera concorrenza.
L’analisi economica ha messo da tempo a punti sia gli aspetti positivi
che quelli negativi della libera concorrenza.
Fra i primi quelli principali sono:
1. la
necessità, per le aziende di investire in processi produttivi caratterizzati
da una forte innovazione al fine di tenere sotto controllo i costi e la
qualità dei materiali, migliorare la rete di distribuzione e la soddisfazione
dei clienti, in una parola aumentare l’efficienza delle singole aziende e, come
conseguenza diretta, anche quella del sistema nazionale produttivo.
2. La
possibilità per i consumatori di tenere sotto controllo l’andamento dei
prezzi e l’inflazione in quanto, teoricamente, a parità di condizione,
scelgono i prodotti che hanno il prezzo inferiore.
Questi due aspetti positivi si realizzano solo in un quadro
teorico di concorrenza perfetta che è peraltro sostanzialmente
irrealizzabile (soprattutto per quegli elementi di vischiosità che la teoria
economica conosce bene e che non è possibile qui approfondire) Per questo
motivo spesso è necessaria una normativa che rimuova, nei limiti del possibile
e della tutela del superiore interesse collettivo, gli ostacoli al libero
svolgimento della attività economica sia da parte degli imprenditori che dei
consumatori.
Mi piace sottolineare che l’art. 41 della Costituzione italiana si muove
proprio lungo questa linea: “L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno
alla salute, all’ambiente, alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini
sociali e ambientali”
Gli aspetti principali che possono definirsi negativi in un sistema di
libera concorrenza sono invece:
1. la
fuoruscita dal mercato e/o il fallimento delle aziende
che non riescono a tenere il passo delle concorrenti in tema di ampiezza di
investimenti, di know how tecnologico, di innovazione nei processi produttivi,
particolarmente se le concorrenti provengono da un contesto produttivo estero
magari più progredito o attrezzato.
Si deve sottolineare che la conseguenza immediata e dolorosa di questi
fallimenti è la perdita del posto di lavoro da parte delle persone colà
occupate.
2. l’ampliarsi
di un fenomeno, che si potrebbe chiamare, di ansia da “precariato
imprenditoriale”, per quegli imprenditori che operano sul mercato sulla
base di licenze e concessioni pubbliche (prima ritenute, per prassi
consolidata, a durata illimitata) e che si trovano periodicamente a entrare in
gara per mantenere le licenze (caso degli stabilimenti balneari) o quantomeno
per evitare l’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti (caso dei tassisti.
Quello che prima era un equivalente del titolo di proprietà diventa una
concessione soggetta a obblighi e a limiti di tempo.
Non è difficile notare che i due aspetti negativi
evidenziati appartengono alla stessa tipologia delle obiezioni sollevate da
alcune categorie economiche nei confronti della Direttiva Bolkenstein.
Come si può rispondere a queste obiezioni e come si possono attenuare gli
effetti negati della implementazione di un regime di libera concorrenza come
quello previsto dalla Direttiva Bolkenstein?
Innanzitutto, se si presuppone di voler restare nello schema di riferimento del
capitalismo democratico, basato sui principi di libertà di iniziativa economica
e di libera concorrenza inseriti in un regime politico-costituzionale di
liberaldemocrazia rappresentativa, la teoria economica è quasi unanime nell’affermare
che i vantaggi della libera sono nettamente superiori agli svantaggi
conseguenti ad essa.
Peraltro nemmeno si può prescindere, nel valutare l’efficienza di un
sistema o di uno strumento economico, da considerazioni di tipo sociale,
economico ed anche emotivo-psicologico.
In un Paese come l’Italia nel quale
1. sicuramente
il rischio di impresa non è un elemento caratterizzante della mentalità
comune;
2. un
livello economico stabile ma medio- basso è quasi sempre preferito ad un livello più alto ma con minori probabilità
di stabilità nel tempo,
3. un
sistema corporativo diretta emanazione di una determinata visione del
cattolicesimo sociale e della teoria economica del fascismo prevale nettamente
su visioni più orientate alla competizione e alla meritocrazia;
non è difficile comprendere perché il capitalismo
democratico (anche nella versione edulcorata della economia sociale di mercato
di ispirazione tedesca) e il principio di libera concorrenza non godano di
particolare favore e, anzi, suscitino più di una opposizione.
E’ pertanto ben comprensibile (ma non condivisibile) che larghi strati
delle categoria produttive (liberi professionisti, possessori di licenze e di
concessioni, aziende operanti in regime di semi-monopolio…) siano estremamente
ostili ai princìpi e alla applicazione della Direttiva Bolkenstein e usino
tutti gli strumenti a disposizione (non ultimo il ricatto elettorale
verso le parti politiche che rappresentano i loro interessi) per ritardarne se
non addirittura bloccarne l’applicazione.
A mio sommesso parere non si possono condannare a
priori tali posizioni, bensì tentare di capire, provare empatia e stimolare i
pubblici poteri a implementare azioni in grado di attenuare, in casi specifici,
gli effetti negativi della introduzione di una maggiore concorrenza.
Ad esempio nei casi di licenze o concessioni perché non condividere con le
categoria interessate (penso soprattutto ai tassisti e ai concessionari degli
stabilimenti balneari) un percorso di liberalizzazioni con tappe e scadenze
ben fissate e vincolanti nella vista dell’apertura alla previsione di un
maggior numero di licenze o alla messa in gara quelle presenti?
Occorre peraltro sempre tener presente che, per la Costituzione italiana (art. 41),
il diritto di proprietà e quello di libera iniziativa economica non sono
illimitati ma hanno comunque una funzione sociale e sono anche essi soggetti ai
doveri inderogabili di solidarietà sociale ed conomica di cui all’art. 2 della
Costituzione stessa.
Quello che assolutamente non è possibile fare, se si
vuole rimanere nel contesto politico della Unione Europa è cedere sul principio
della libera concorrenza (anche temperata, me non bloccata, da provvedimenti
correttivi).
L’alternativa, pienamente legittima in un regime democratico rappresentativo è
quella di uscire, se una maggioranza parlamentare fosse d’accordo, dalla Unione
Europea. Fermo restando che con una Costituzione come la nostra sarebbe
comunque oltremodo difficile, se non impossibile uscire da un sistema di
capitalismo democratico.
Roma 21/08/2024 Giuseppe Sbardella
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