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giovedì 21 novembre 2024

Fraternità, fratellanza o amicizia sociale?

 Fraternità, fratellanza, amicizia sociale.



 

Fraternità = legame obbligato, genetico ed emotivo tra persone diverse appartenenti ad una stessa famiglia.

Fratellanza = legame volontario, artificiale ed emotivo tra persone diverse appartenenti ad un gruppo basato su un fine o dei fini specifici di comune interesse.

Amicizia sociale = legane volontario, artificiale ed emotivo tra persone diverse che si incontrano anche casualmente e si trovano reciprocamente capaci di empatia e fiducia, con valori ed interesse generalmente (ma non necessariamente) simili.

mercoledì 23 ottobre 2024

Dalla pari dignità umana al pari diritto allo sviluppo delle singole persone e dei popoli (tratto dalla "Fratelli tutti" di Francesco)

 

In tema di Dottrina Sociale della Chiesa (par. 118-127 della “Fratelli tutti”)


Rileggendo con calma l'enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco,e questi (pochi) paragrafi mi sono parsi stimolanti, se non addirittura provocatori, verso quella che Francesco definisce una "altra logica". N.B.: le sottolineature e i grassetti sono frutto di una mia scelta. *****************************************************************************

Riproporre la funzione sociale della proprietà

118. Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti. Di conseguenza, come comunità siamo tenuti a garantire che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità adeguate al suo sviluppo integrale.

119. Nei primi secoli della fede cristiana, diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro riflessione sulla destinazione comune dei beni creati. Ciò conduceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che «non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro». Come pure queste parole di San Gregorio Magno: «Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene».

120. Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». In questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata».
Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale», è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI.
Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica.

Diritti senza frontiere

121. Nessuno dunque può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi. Così come è inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto di essere donna, è altrettanto inaccettabile che il luogo di nascita o di residenza già di per sé determini minori opportunità di vita degna e di sviluppo.

122. Lo sviluppo non dev’essere orientato all’accumulazione crescente di pochi, bensì deve assicurare «i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli». Il diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di sopra del rispetto dell’ambiente, poiché «chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti».

123. L’attività degli imprenditori effettivamente «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti». Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo, e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso.

Diritti dei popoli

124. La certezza della destinazione comune dei beni della terra richiede oggi che essa sia applicata anche ai Paesi, ai loro territori e alle loro risorse. Se lo guardiamo non solo a partire dalla legittimità della proprietà privata e dei diritti dei cittadini di una determinata nazione, ma anche a partire dal primo principio della destinazione comune dei beni, allora possiamo dire che ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un altro luogo. Infatti, come hanno insegnato i Vescovi degli Stati Uniti, vi sono diritti fondamentali che «precedono qualunque società perché derivano dalla dignità conferita ad ogni persona in quanto creata da Dio».

125. Ciò inoltre presuppone un altro modo di intendere le relazioni e l’interscambio tra i Paesi.
Se ogni persona ha una dignità inalienabile, se ogni essere umano è mio fratello o mia sorella, e se veramente il mondo è di tutti, non importa se qualcuno è nato qui o se vive fuori dai confini del proprio Paese.
Anche la mia Nazione è corresponsabile del suo sviluppo, benché possa adempiere questa responsabilità in diversi modi: accogliendolo generosamente quando ne abbia un bisogno inderogabile, promuovendolo nella sua stessa terra, non usufruendo né svuotando di risorse naturali Paesi interi favorendo sistemi corrotti che impediscono lo sviluppo degno dei popoli. Questo, che vale per le nazioni, si applica alle diverse regioni di ogni Paese, tra le quali si verificano spesso gravi sperequazioni.
Ma l’incapacità di riconoscere l’uguale dignità umana a volte fa sì che le regioni più sviluppate di certi Paesi aspirino a liberarsi della “zavorra” delle regioni più povere per aumentare ancora di più il loro livello di consumo.

126. Parliamo di una nuova rete nelle relazioni internazionali, perché non c’è modo di risolvere i gravi problemi del mondo ragionando solo in termini di aiuto reciproco tra individui o piccoli gruppi. Ricordiamo che «l’inequità non colpisce solo gli individui, ma Paesi interi, e obbliga a pensare ad un’etica delle relazioni internazionali». E la giustizia esige di riconoscere e rispettare non solo i diritti individuali, ma anche i diritti sociali e i diritti dei popoli. Quanto stiamo affermando implica che si assicuri il «fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza ed al progresso», che a volte risulta fortemente ostacolato dalla pressione derivante dal debito estero. Il pagamento del debito in molti casi non solo non favorisce lo sviluppo bensì lo limita e lo condiziona fortemente. Benché si mantenga il principio che ogni debito legittimamente contratto dev’essere saldato, il modo di adempiere questo dovere, che molti Paesi poveri hanno nei confronti dei Paesi ricchi, non deve portare a compromettere la loro sussistenza e la loro crescita.

127. Senza dubbio, si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità. È possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne. Perché la pace reale e duratura è possibile solo «a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana».

martedì 20 agosto 2024

Considerazioni sparse in tema di Direttiva Bolkenstein

 



 Solo dopo essermi informato sul contenuto della direttiva detta Bolkenstein (approvata nel 2006 dalla UE) e del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (che ha recepito in Italia tale direttiva) mi accingo a fare alcune considerazioni in proposito.


Questa Direttiva regolamenta la fornitura/prestazione di servizi nell’ambito del mercato europeo comune stabilendo il principio basilare della libera concorrenza e della possibilità per un prestatore di servizi  di fornire i propri in qualsiasi Paese della UE sulla base della normativa vigente nel proprio Paese di origine.
Sono stabilite, oltre ad altre minori, due importante eccezioni:

1.     Sono esclusi dalla applicazione della normativa alcuni servizi ritenuti di interesse nazionale non negoziabile (trasporti, luce gas e acqua, servizi all’infanzia…).

2.     Sono esclusi dalla applicazione della normativa vigente nel Paese d’origine materie quali il diritto del lavoro onde evitare il rischio di possibili pratiche di dumping sociale.

Per approfondimenti più dettagliati sul contenuto della Direttiva suggerirei di leggere direttamente il testo della Direttiva UE 2006/123/CE e del D. lgs 26 marzo 2010, n. 59, facilmente reperibili su internet.

L’applicazione integrale in Italia della Direttiva e del relativo decreto tarda ad attuarsi e per alcuni tipi di servizi (come ad esempio le licenze di taxi, le licenze dei venditori nei mercati rionali, le concessioni balneari, ma anche alcune attività di tipo professionale sanitario …) sono oggetto di aspro dibattito politico e di forte opposizione da parte delle categorie interessate.

Quali sono le principali obiezioni che vengono poste ai principi di fondo e alla normativa fissata nelle Direttiva?

In primo luogo viene evidenziato il forte rischio di una decisa penalizzazione degli imprenditori e degli artigiani nazionali di fronte al libero ingresso nel mercato di concorrenti provenienti da altri Paesi i quali, magari in virtù di innovazioni organizzative o tecnologiche già presenti nel loro mercato nazionale, si potrebbero permettere di praticare prezzi più bassi di quelli praticati dagli imprenditori e artigiani locali, ponendo questi ultimi in seria difficoltà finanziaria e nell’impossibilità di mantenere la forza lavoro occupata. Senza pensare che i prezzi più bassi potrebbero anche derivare dall’uso di materiali di livello scadente o ecologicamente meno sostenibili.

In secondo luogo particolarmente gli imprenditori che svolgono la loro attività sulla base di una licenza o di una concessione pubblica (es: tassisti, imprenditori balneari, piccoli venditori nei mercatini rionali…) sottolineano che il dover rimettere periodicamente in gioco la loro licenza / concessione o il dover affrontare nuovi concorrenti abbassa in maniera rilevante il valore della loro licenza o concessione annichilendo inoltre gli investimenti fatti per prestare un servizio sempre migliore.
Tutto questo aggravato dalla circostanza che la prassi consolidata in Italia del rinnovo pressoché automatico di tali licenze / concessioni ha generato il convincimento che fossero quasi assimilabili a diritti di proprietà privata e, come tali, traferiti a parenti o ceduti a titolo oneroso a terzi.

Si potrebbe replicare efficacemente punto su punto ma lo si può fare anche a partire da un ragionamento più generale.

Pare evidente che la UE abbia scelto, in vista dello sviluppo economico dell’insieme dei Paesi ubicati nel suo territorio, di affidarsi ad una politica che vede il suo fondamento in una economia mi mercato nella quale la libera concorrenza svolga un ruolo preminente.
Non ci può essere economia di mercato senza una base ampia di libera concorrenza.
L’analisi economica ha messo da tempo a punti sia gli aspetti positivi che quelli negativi della libera concorrenza.

Fra i primi quelli principali sono:

1.     la necessità, per le aziende di investire in processi produttivi caratterizzati da una forte innovazione al fine di tenere sotto controllo i costi e la qualità dei materiali, migliorare la rete di distribuzione e la soddisfazione dei clienti, in una parola aumentare l’efficienza delle singole aziende e, come conseguenza diretta, anche quella del sistema nazionale produttivo.

2.     La possibilità per i consumatori di tenere sotto controllo l’andamento dei prezzi e l’inflazione in quanto, teoricamente, a parità di condizione, scelgono i prodotti che hanno il prezzo inferiore.

Questi due aspetti positivi si realizzano solo in un quadro teorico di concorrenza perfetta che è peraltro sostanzialmente irrealizzabile (soprattutto per quegli elementi di vischiosità che la teoria economica conosce bene e che non è possibile qui approfondire) Per questo motivo spesso è necessaria una normativa che rimuova, nei limiti del possibile e della tutela del superiore interesse collettivo, gli ostacoli al libero svolgimento della attività economica sia da parte degli imprenditori che dei consumatori.  
Mi piace sottolineare che l’art. 41 della Costituzione italiana si muove proprio lungo questa linea: “L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute,
all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”


Gli aspetti principali che possono definirsi negativi in un sistema di libera concorrenza sono invece:

1.     la fuoruscita dal mercato e/o il fallimento delle aziende che non riescono a tenere il passo delle concorrenti in tema di ampiezza di investimenti, di know how tecnologico, di innovazione nei processi produttivi, particolarmente se le concorrenti provengono da un contesto produttivo estero magari più progredito o attrezzato.
Si deve sottolineare che la conseguenza immediata e dolorosa di questi fallimenti è la perdita del posto di lavoro da parte delle persone colà occupate.

2.     l’ampliarsi di un fenomeno, che si potrebbe chiamare, di ansia da “precariato imprenditoriale”, per quegli imprenditori che operano sul mercato sulla base di licenze e concessioni pubbliche (prima ritenute, per prassi consolidata, a durata illimitata) e che si trovano periodicamente a entrare in gara per mantenere le licenze (caso degli stabilimenti balneari) o quantomeno per evitare l’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti (caso dei tassisti. Quello che prima era un equivalente del titolo di proprietà diventa una concessione soggetta a obblighi e a limiti di tempo.

Non è difficile notare che i due aspetti negativi evidenziati appartengono alla stessa tipologia delle obiezioni sollevate da alcune categorie economiche nei confronti della Direttiva Bolkenstein.
Come si può rispondere a queste obiezioni e come si possono attenuare gli effetti negati della implementazione di un regime di libera concorrenza come quello previsto dalla Direttiva Bolkenstein?

Innanzitutto, se si presuppone di voler restare nello schema di riferimento del capitalismo democratico, basato sui principi di libertà di iniziativa economica e di libera concorrenza inseriti in un regime politico-costituzionale di liberaldemocrazia rappresentativa, la teoria economica è quasi unanime nell’affermare che i vantaggi della libera sono nettamente superiori agli svantaggi conseguenti ad essa.
Peraltro nemmeno si può prescindere, nel valutare l’efficienza di un sistema o di uno strumento economico, da considerazioni di tipo sociale, economico ed anche emotivo-psicologico.
In un Paese come l’Italia nel quale

1.     sicuramente il rischio di impresa non è un elemento caratterizzante della mentalità comune;

2.     un livello economico stabile ma medio- basso è quasi sempre preferito ad  un livello più alto ma con minori probabilità di stabilità nel tempo,

3.     un sistema corporativo diretta emanazione di una determinata visione del cattolicesimo sociale e della teoria economica del fascismo prevale nettamente su visioni più orientate alla competizione e alla meritocrazia;

non è difficile comprendere perché il capitalismo democratico (anche nella versione edulcorata della economia sociale di mercato di ispirazione tedesca) e il principio di libera concorrenza non godano di particolare favore e, anzi, suscitino più di una opposizione.
E’ pertanto ben comprensibile (ma non condivisibile) che larghi strati delle categoria produttive (liberi professionisti, possessori di licenze e di concessioni, aziende operanti in regime di semi-monopolio…) siano estremamente ostili ai princìpi e alla applicazione della Direttiva Bolkenstein e usino tutti gli strumenti a disposizione (non ultimo il ricatto elettorale verso le parti politiche che rappresentano i loro interessi) per ritardarne se non addirittura bloccarne l’applicazione.

A mio sommesso parere non si possono condannare a priori tali posizioni, bensì tentare di capire, provare empatia e stimolare i pubblici poteri a implementare azioni in grado di attenuare, in casi specifici, gli effetti negativi della introduzione di una maggiore concorrenza.
Ad esempio nei casi di licenze o concessioni perché non condividere con le categoria interessate (penso soprattutto ai tassisti e ai concessionari degli stabilimenti balneari) un percorso di liberalizzazioni con tappe e scadenze ben fissate e vincolanti nella vista dell’apertura alla previsione di un maggior numero di licenze o alla messa in gara quelle presenti?
Occorre peraltro sempre tener presente che, per la Costituzione italiana (art. 41), il diritto di proprietà e quello di libera iniziativa economica non sono illimitati ma hanno comunque una funzione sociale e sono anche essi soggetti ai doveri inderogabili di solidarietà sociale ed conomica di cui all’art. 2 della Costituzione stessa.

Quello che assolutamente non è possibile fare, se si vuole rimanere nel contesto politico della Unione Europa è cedere sul principio della libera concorrenza (anche temperata, me non bloccata, da provvedimenti correttivi).
L’alternativa, pienamente legittima in un regime democratico rappresentativo è quella di uscire, se una maggioranza parlamentare fosse d’accordo, dalla Unione Europea. Fermo restando che con una Costituzione come la nostra sarebbe comunque oltremodo difficile, se non impossibile uscire da un sistema di capitalismo democratico.

Roma 21/08/2024                                                                Giuseppe Sbardella

 

venerdì 9 agosto 2024

Ma la tensostruttura alla Stazione Termini è un reale problema?

 L’idea dell’Amministrazione comunale di Roma (in particolare dell’Assessorato delle politiche sociali) di installare a Piazza dei Cinquecento una tensostruttura (ovvero un tendone attrezzato) per l’accoglienza di persone senza fissa dimora e di immigrati più o meno regolari, ha suscitato diverse perplessità soprattutto (ma non solo) fra la maggioranza dei residenti e dei commercianti dei due rioni coinvolti (Castro Pretorio ed Esquilino.

La prima e fondamentale perplessità nasce dalla ubicazione scelta per l’installazione della tensostruttura, nel piazzale prospiciente la Stazione Termini e proprio davanti a due sedi del complesso culturale del Museo Nazionale Romano (il Palazzo Massimo e le Terme di Diocleziano).
Non pare una scelta ponderata quella di far trovare i turisti o i pellegrini giubilari (il 2025 sarà l’anno del Giubileo!) che volessero accedere alle due sedi museali, di fronte a povere persone sbandate, spesse volte fuori di senno o ubriache che creerebbero ostacoli di tipo psicologico o anche fisico alla visita di due bellissime strutture che arricchiscono Roma.
Vero è che le autorità politiche comunali coinvolte obiettano che la tensostruttura è stata pensata proprio per accogliere queste persone che vagabondano sbandate dentro e fuori la Stazione Termini e che, in presenza di locali attrezzati per accoglierle, sarebbero ben liete di lasciare la strada e i marciapiedi come luogo per mendicare cibo, dormire e, purtroppo,… fare anche i propri bisogni fisiologici!

Ma questa obiezione sollevata dalle autorità comunali dà origine alla seconda perplessità. L’esperienza concreta dei residenti e commercianti del territorio (a cominciare da chi sta scrivendo queste considerazioni) è che la maggioranza delle persone senza dimora e degli sbandati non hanno particolare voglia di essere “accolti” in queste strutture predisposte per loro.
Magari accettano anche di mangiare alle mense preparate per i loro bisogni di nutrimento ma difficilmente accettano di dormire in queste strutture, particolarmente quando questa accoglienza è subordinata a pratiche ufficiali di riconoscimento.
Non posso dimenticare quando, durante il periodo immediatamente post Covid, l’Hub vaccinale di Piazza dei Cinquecento venne trasformato un centro per l’accoglienza delle PSD (così d’ora in poi chiamerò le persone senza fissa dimora). Passando lì davanti, a sera inoltrata, insieme ad una albergatrice della zona, non potemmo fare a meno di notare che, all’interno dello hub, pochi letti erano usati mentre parecchie PSD dormivano (o si preparavano a farlo) dentro sacchi a pelo o sotto coperte di fortuna.
La verità è che la gran parte di queste sfortunate persone perde gradualmente la loro capacità di intendere e volere e preferisce conservare il loro livello di “libertà” (!!!???) continuando a vivere per strada e accettando il panino e la coperta offerta loro quotidianamente dalle varie associazioni di volontariato piuttosto che accettare di accedere in una struttura organizzata di accoglienza dove sia obbligatoria la loro identificazione o comunque la soggezione a regole di comportamento fissate a tutela del bene comune (sia igienico che psicologico).

Non è dunque ragionevolmente sostenibile che una tensostruttura aggiuntiva (questo aggettivo verrà motivato più avanti) non sia un fattore di attrazione di PSD ma che, anzi, serva a toglierle dalla strada.

E qui sorge la terza perplessità.
Già nei dintorni della Stazione Termini sorgono, per iniziativa della Caritas e di associazioni quali Binario 95, diversi luoghi chiusi adibiti ad ostelli e a mense che fungono da punti di attrazione per PSD e sbandati di ogni genere.
E’ certamente vero che la maggior parte di queste persone tende a radunarsi, specialmente nelle ore serali, intorno alle Stazioni soprattutto perché hanno maggiori possibilità di dormire per strada ma comunque al coperto delle grandi tettoie generalmente presenti intorno alla stazioni e vicino alle uscite delle linee metropolitane. In questi stessi posti la sera agiscono diverse associazioni di volontariato per portare cibo e coperte a questi poveri sbandati.
Si crea così un circolo vizioso, le associazioni fanno il loro servizio di volontariato in questi posti dove si radunano le PSD, queste ultime si radunano lì perché sanno che potranno essere sfamate e provviste di beni a loro utili (coperte, vestiario ecc.).
Con il crescere della povertà (immigrazione massiccia più o meno irregolare, disoccupati, padri soli separati, tutti quelli che Papa Francesco chiama vittime di una economia che si fonda anche sullo “scarto” delle persone che non reggono il ritmo produttivo o lo sviluppo tecnologico….) aumenta il numero delle persone da soccorrere e tende sempre più ad accentrarsi la massa di queste persone intorno a luoghi tipici quali la Stazione Termini (ma non solo…).
Sembra chiaro che una tensostruttura aggiuntiva rispetto alle strutture già esistenti in loco non risolve il problema, anzi lo aggrava perché l’aumentare di queste strutture non fa altro che aumentare il numero delle persone che viene attratta nei territori dove sorgono.

Si è cercato di far passare per “razzisti” i residenti e i commercianti di Esquilino e Castro Pretorio che si sono opposti fermamente alla installazione della tensostruttura a Termini, ma la realtà è ben diversa.
Forse sarebbero da chiamare invece “razzisti” quegli uomini politici e quegli esperti di politiche sociali che hanno l’intenzione di trasformare il territorio di Castro Pretorio, Esquilino e, in parte, di S. Lorenzo in quello che viene definito “Distretto della solidarietà” ovvero un territorio nel quale gruppi di diversa estrazione etnica e sociale possano condividere pacificamente e costruire insieme quello che potrebbe essere rappresentare l’esempio e l’embrione di una nuova società civile multietnica, multireligiosa e multiculturale per la Roma di domani.
Procedere a dare inizio e attuale un progetto del genere senza preventivamente assegnare al territorio coinvolto strutture, personale e risorse adeguate e senza estenderlo ad altre zone della città (ad esempio intorno alle stazioni Tuscolana, Ostiense, Tiburtina) vuol dire non tenere conto della complessità della realtà e dell’ampiezza del problema (che, peraltro, si svilupperà sempre più negli anni/decenni futuri) vuol dire creare, invece che “Distretti della solidarietà”, “Ghetti degli scarti sociali”. E’ questo il reale razzismo.

Circa 3 anni fa scrivevo sul mio blog alcune considerazioni su questo tema, potrebbe essere interessante rileggerle perché, in larga parte, sono tuttora attuali. Il link per leggerle è il seguente: Seminare positivo: Quel mendicante privo di gambe... (considerazioni a partire dai Senza Fissa Dimora) (giuseppesbardella.blogspot.com)
Sintetizzando al massimo quello che ci è scritto, si possono sottolineare queste frasi riprese dal testo.
“Occorre, prima di tutto, rendersi conto che non sono a disposizione soluzioni gratuite o comunque a basso costo.
Per dare una svolta alla soluzione duratura di questo problema si renderà necessario investire risorse non scarse in:

1.    Strutture attrezzate adeguatamente per l’accoglienza;

2.    Residenze sanitarie di recupero;

3.    Reclutamento di medici, infermieri, assistenti sociali;

4.    Corsi di riqualificazione e indirizzo professionale;

il tutto inquadrato in una legge che, oltre ad autorizzare le risorse, contempli anche la possibilità, in maniera più semplificata di quella attuale, di forme di obbligatorietà nel ricovero, nel recupero e nell’avvio alla riqualificazione professionale.
La collaborazione e l’interazione, sullo stesso campo, con forme di volontariato religioso e laico, aventi già esperienza pluriennale nel settore, rappresenterebbe una condizione indispensabile per una risposta plurale, tempestiva ed efficace
.

Certo, questo è un piano che presuppone impiego ingente di risorse.
Come non comprendere però che il nostro modello di sviluppo economico fondato:
A) sulla velocità,
B) sulla interconnessione,
C) sull’innovazione tecnologica (basti pensare a tutto il mondo nella Intelligenza Artificiale), causerà 1) l’espulsione dal mondo del lavoro di molti che sono ora occupati, 2) difficoltà sempre maggiori per chi cerca lavoro, ma non ha la formazione sufficiente, 3) immigrazioni sempre più numerose originate da situazioni sociali disumane?
Tutte queste persone, in assenza di un nuovo vasto programma di recupero sociale, come quello sopra delineato, si troveranno, in quantità impensabile, per strada a fare compagnia alle PSD.
Non può essere negato che l’attuazione di un tale programma di recupero comporterebbe costi per chi ora si trova ora al “calduccio” di una comoda situazione finanziaria e che sarebbe costretto, non neghiamo l’evidenza, a cambiare il proprio livello di vita rivedendo le proprie scelte in materia di consumi, con attenzione minore a beni materiali non necessari e maggiore invece a relazioni interpersonali aperte e costruttive.
L’alternativa è uno società e uno Stato che dovrebbe ricorrere alla forza e alla violenza formalmente legittima per reprimere le richieste delle persone più povere, ovvero uno Stato autoritario.
L’attuazione di un programma di recupero e reindirizzo sociale sarebbe pesante (in termini di incidenza sullo stile di vita) nel breve-medio periodo, ma potrebbe comportare un forte rilancio nel medio-lungo periodo, una volta che il programma sia andato a regime e il recupero / reindirizzo in larga misura completato.

Aggiungerei oggi che, forse, per sostenere lo sviluppo economico sociale di queste zone candidate ad essere esempi-embrionali di una nuova convivenza multietnica, multiculturale, multireligiosa, potrebbe essere interessante, sulla scorta della esperienze delle ZES (Zone Economiche Speciali), prefigurare delle normative ad hoc per delle ZIS (Zone di Interesse Sociale) attribuendo ai territori interessanti risorse finanziarie mirate per la implementazione di progetti di integrazione e di recupero delle persone in difficoltà.

Una cosa è chiara, la presenza o l’assenza di una tensostruttura a Termini rappresenta un falso problema.
Quella che viene richiesta è una visione più ampia del problema da parte sia della società civile che dalla classo politica locale e nazionale.
 

Roma 9/08/2024






martedì 18 giugno 2024

Camminare intorno alla Stazione Termini a Roma

                                                     


Chi conosce mia moglie Patrizia concorderà con il mio giudizio ovvero che lei è la persona più mite e più dolce mai conosciuta.

Ieri pomeriggio lei ed io stavamo camminando su via Castelfidardo (Castro Pretorio, Roma) su un marciapiede completamente libero.

Abbiamo visto arrivare di fronte a noi una giovane persona di etnia presumibilmente non europea, apparentemente tranquilla.
Giunto nelle nostre vicinanze, ha emesso un urlo bestiale e, facendo un salto, si è piazzato davanti a noi; poi ha fatto un altro salto di lato e ha continuato il percorso.
Io sono rimasto basito, senza il tempo di reagire, Patrizia senza fiato, profondamente colpita e impietrita da quel gesto e da quell'urlo imprevedibili e terrorizzanti.

Patrizia, lo ripeto, è una persona mite, io, anche per le mie condizioni di invalido, sono una persona pacifica e dialogante, siamo entrambi sani, mi chiedo che cosa sarebbe accaduto se, al posto nostro, ci fosse stata una coppia più anziana di noi, magari con problemi cardiaci, o una coppia più giovane e magari pratica di arti marziali.
Commenti su quanto è accaduto? Solo uno, non si può andare avanti così!!!
Se un giorno o l'altro ci scappasse il morto, le istituzioni politiche, civili, religiose non potranno dichiararsi innocenti.😡


sabato 25 novembre 2023

Aggressioni alle donne, solo una soluzione penale?

                                                     



Per piacere, piantantela di colpevolizzare tutti i maschi!! Rischiate l'effetto contrario!!

Noto con preoccupazione che il legittimo sdegno civile per l'ennesimo femminicidio sta trasformandosi in una indegna espressione di protesta radical-femminista, dai contorni politici (che c'entra l'antipatia verso Israele con i femminicidi?) nei confronti di tutto il genere maschile, gestita dalla solita minoranza chiassosa di uomini e donne sempre pronti/e a scendere in piazza.

Attenzione ci sono femmine e femmine, ci sono maschi e maschi!

Bisogna saper distinguere (e qui parafraso una famosa frase di Norberto Bobbio) fra maschi e femmine pensanti e maschi e femmine non pensanti.

Per maschi non pensanti inserisco quelli i cui ideali si riducono al far soldi (magari con il minimo sacrificio possibile), ad avere un bel fisico, a far colpo sull'altro genere per farlo proprio...

Per femmine non pensanti inserisco quelle i cui ideali si riducono al far soldi (magari con il minimo sacrificio possibile), ad avere un bel corpo, a far colpo sull'altro genere per essere oggetto di ammirazione.

Fate attenzione, i colpevoli di femminicidio sono, nella massima parte dei casi quelli che ho definito maschi non pensanti, le vittime di femminicidio o di aggressione sono, nella maggiore parte (non nella totalità...) dei casi, quelle che ho definito femmine non pensanti. 

Certo il comportamento dei maschi è da considerare più grave di quello delle femmine ma l'attaccare indiscriminatamente, come si sta facendo, tutto gli uomini, comporta il rischio grave che gli uomini pensanti (ovvero quelli che hanno valori diversi e più profondi del solo far soldi, o avere un buon fisico, o possedere più donne possibile) si ribellino a questo attacco insensato.

Ormai è acclarato, la soluzione del reato autonomo di femminicidio o l’aggravamento delle pene non funziona.
Di fronte ad un problema che ha la sua origine in un contesto valoriale errato non è sufficiente ricorrere al diritto penale e nemmeno ad una educazione sessuale nelle scuole.
 
Qui si tratta di rieducare tutti gli italiani (uomini e donne) ai valori fondamentali della nostra Costituzione quelli che mettono al centro la tutela della persona umana, di ogni persona umana, al di là delle differenze di sesso, di lingua, di razza, di religione, di opinione politica, di condizioni sociali.  

E questa opera di rieducazione deve essere portata avanti con determinazione dalle poche e fatiscenti agenzie di socializzazione rimaste (famiglia, scuola, comunità ecclesiali) in un contesto di collaborazione reciproca e sulla base di valori condivisi ricavabili dalla Costituzione.
Per piacere, lo ripeto, no ad attacchi indiscriminati, no a lasciare questo argomento in mano a maschi e a femmine non pensanti.

Roma 25/11/2023

mercoledì 16 agosto 2023

Serve una campagna mediatica popolare di messaggi positivi

 



Mi ricordo quando, durante un corso di mediazione civile, uno psicologo ci spiegò che una emozione negativa vale TRE VOLTE di più di una emozione positiva.

Vi spiegate allora perché i politici, per ottenere i voti, puntano ad aumentare le paure delle persone piuttosto che a stimolare un loro atteggiamento costruttivo.
O perché molti agenzie di marketing, per vendere i prodotti da esse sponsorizzate, puntano soprattutto a mettere in evidenza il timore delle cose che vi potrebbero accadere se non comprate i loro prodotti.
O perché i siti di meteorologia privati cercano di catturare click (e di aumentare il loro guadagno vendendo spazio inserzionistico sul loro sito) enfatizzando in tutti i modi (anche attribuendo nomi fantasiosi mitici) le tempeste fredde o le bolle di caldo in arrivo.
D fronte a questa calcolo non basta reagire con 1 messaggio positivo a 1 messaggio negativo che vale per 3. Occorre implementare una campagna di MESSAGGI POSITIVI.
Qui sotto un esempio. I siti di meteo enfatizzano l'impatto della bolla di calore nell'Italia del Centro Sud ma sottacciono completamente che, con un tasso di umidità relativamente basso, il caldo sarà più sopportabile.
E allora la parola d'ordine è: SEMINARE POSITIVO!🙂👍

domenica 28 maggio 2023

Due meditazioni (su Pentecoste e su Maria) che spiazzano.



Vana credulità
 
di

Alberto Maggi 

Il cammino e la crescita del credente verso una sempre maggiore consapevolezza della realtà divina che lo circonda e lo abita non consistono certamente nel “demolire, ma nel portare a compimento” la sua adesione a Gesù e al suo messaggio (Mt 5,17). Perché questo diventi realtà occorre continuamente mettere il vino nuovo della buona notizia dentro otri nuovi, “altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti” (Mt 5,17). “Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente” (Ef 4,23) invita Paolo, e questo rinnovarsi non significa essere fuori dalla Chiesa ma, al contrario, esserle fedeli e seguirla nei suoi insegnamenti. Ma c’è un mese all’anno in cui questo rinnovarsi sembra come svanire. Per tutto maggio, il tempo tradizionalmente dedicato alla Madonna, si riesumano tradizioni, devozioni, culti, processioni, preghiere che si sperava ormai poste sotto naftalina, collocate con il dovuto riverente rispetto nel museo delle religiosità appartenenti al passato e incompatibili con la spiritualità della Chiesa odierna. Queste devozioni, ormai obsolete, hanno avuto origine in una cultura patriarcale, ormai definitivamente tramontata, quando tra genitori e figli non vi erano i rapporti attuali improntati sull’affetto. Il padre rappresentava l’autorità, la severità e il castigo e la sua era una presenza che incuteva timore; la madre era l’amore e la tenerezza, colei che si frapponeva tra il marito e il figlio sia per rivolgere richieste che questi non avrebbe mai osato fare direttamente al padre, sia per parare le punizioni del genitore. Questa cultura patriarcale fu proiettata nella sfera divina, dove Dio è il Padre di cui si ha timore e che non si osa affrontare direttamente. Soprattutto è colui che castiga (“Ho meritato i vostri castighi”). In questa prospettiva Maria svolgeva la funzione della madre sia per accogliere le richieste e i bisogni degli uomini, sia per proteggerli dal castigo divino. Così, in breve, da creatura fu trasformata in un sostituto della divinità, persino più sicura e affidabile di Dio. Ora fortunatamente la società è profondamente cambiata: i figli si rivolgono direttamente al papà senza alcun timore e la mamma non deve più esercitare la sua funzione di mediatrice e protettrice. Per questo non è possibile seguitare a rivolgersi alla Vergine usando queste formule che risentono pesantemente di una teologia e di un linguaggio ormai superati, che non possono più esprimere il sentimento di una Chiesa sempre in cammino e mai immobile. Nei vangeli l’unico soccorritore è il paraclito (Gv 14,16), lo Spirito di verità che non ha bisogno di essere invocato e tantomeno supplicato in quanto la sua presenza è garantita sempre, non solo nel momento del bisogno, come segno della protezione divina. 2 Quale Maria? Purtroppo, per un malinteso teologico, in passato Maria è stata presentata partendo dal compimento in lei del disegno di Dio. Da questa pienezza si è poi considerato in maniera retrospettiva ogni momento della sua esistenza, trasformandola così in una creatura privilegiata che già all’inizio della sua esistenza era più che perfetta, pienamente cosciente di tutto quel che l’aspettava nella vita. I vangeli non partono dalla compiutezza di Maria ma dai suoi inizi, difficili, drammatici, travagliati. Gli evangelisti non esitano a presentare una madre che non solo non comprende il figlio (Lc 2,18-19. 33), ma che addirittura si merita da lui un aspro rimprovero (Lc 2,49). Marco, l’evangelista più antico, la descrive addirittura unita al clan familiare deciso a catturare Gesù ritenuto ormai in preda alla sua follia (“Allora i suoi, sentito questo, uscirono per impadronirsi di lui; poiché dicevano: È fuori di sé”, Mc 3,21). Ma lei, a differenza degli altri, anche se non comprende l’agire di Gesù non lo rifiuta e riflette (Lc 2,50-51). Cresciuta nella pratica della Legge, ritenuta unica espressione della volontà di Dio, Maria si apre gradualmente alla parola del Figlio, che come una spada le attraverserà la vita, costringendola a scelte tanto drammatiche quanto coraggiose (Lc 2,35). Come all’annuncio dell’angelo la giovanetta di Nazaret si era detta disposta a compiere la volontà del Signore e a diventare madre del “Figlio dell’Altissimo” (Lc 1,32), ora Maria accoglie la parola del Figlio che la condurrà a divenire sua discepola: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,35). La fedeltà al cammino della Chiesa nella conoscenza sempre più grande della figura di Maria come gli evangelisti l’hanno voluta presentare, impone pertanto di rivedere modi e formule delle devozioni. Per questo la Chiesa invita “i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione, come pure dalla grettezza di mente nel considerare la singolare dignità della Madre di Dio” (Lumen Gentium, 67), e Paolo VI mise in guardia dalla “vana credulità, che al serio impegno sostituisce il facile affidamento a pratiche solo esteriori” (Marialis cultus, 38). È pertanto più che mai attuale il dovere di rivedere quelle forme che, “soggette all’usura del tempo, appaiono bisognose di un rinnovamento che permetta di sostituire in esse gli elementi caduchi, di dar valore a quelli perenni…” (MC 24). Maria, la temeraria audace galilea antimonarchica che osa affermare che il suo Signore è quello che “ha rovesciato i potenti dai troni” (Lc 1,52) in casa dei suoi parenti della Giudea, regione notoriamente filomonarchica, per un paradosso della storia è stata poi raffigurata su troni sempre più maestosi. I devoti, pur chiamandola “la mamma celeste”, non le si rivolgono come a una madre, ma la supplicano prostrati, come fanno i sudditi per essere ascoltati dai potenti e richiedere la loro protezione. Di fronte ai rischi che la vita comporta, un credente maturo non cerca di mettersi sotto la protezione della Madonna, ma nelle avversità si rafforza e diventa sempre più capace di camminare con le sue gambe. È questo che lo rende una persona adulta, proprio come Maria di Nazaret, l’intrepida donna dei vangeli che invita a mettere in pratica il messaggio di Gesù (“Tutto quello che vi dice, fatelo”, Gv 2,5), perché lei per prima ha creduto che “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37). Pertanto Maria non è la mamma-chioccia sotto il cui manto cercare protezione, ma, come intuirono molti Padri della Chiesa, da Atanasio a Efrem e ad Agostino, è una sorella nella fede, la “vera nostra sorella”, come scrisse Paolo VI (MC 56), la donna coraggiosa che fieramente e a testa alta è andata avanti nella sequela del Cristo, facendosi compagna di viaggio di ogni credente che cammina verso il raggiungimento della pienezza della vita. Per questo la vera devozione a Maria non consiste “in una vana credulità, ma procede dalla fede vera, dalla quale siamo spinti all’imitazione delle sue virtù” (LG 67). E la virtù per eccellenza, quella che ha reso grande la Madonna, è la fede con la quale ha accolto e vissuto il 3 progetto che il Padre ha su ogni creatura, cioè quello di “essere santi e immacolati” (Ef 1,4). In lei il Creatore non ha trovato ostacoli e ha realizzato così il suo disegno d’amore. Questo cammino di Maria verso la pienezza della volontà di Dio, se è stato indubbiamente immediato nell’accoglienza (“Eccomi! Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”, Lc 1,38), ha poi richiesto tempo per la sua realizzazione. Un itinerario, il suo, difficile, irto di ostacoli e sofferenze, che però ha saputo percorrere crescendo e maturando nel suo divenire discepola perfetta del Cristo, disposta a condividerne la sorte (“Stavano presso la croce di Gesù sua madre…”, Gv 19,25). E Maria si è posta coraggiosamente a fianco del giustiziato contro chi lo ha crocifisso, schierandosi così per sempre a favore degli oppressi, dei poveri, dei disprezzati e mai dei potenti che opprimono

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Pentecoste, festa difficile 
di
Don Tonino Bello
 

…… la Pentecoste è una festa difficile. Ma non perché lo Spirito Santo anche per molti battezzati e cresimati è un illustre sconosciuto. È difficile, perché provoca l'uomo a liberarsi dai suoi complessi. Tre soprattutto, che a me sembra di poter individuare così: Il complesso dell'ostrica. Siamo troppo attaccati allo scoglio. Alle nostre sicurezze. Alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l'intimità del nido. Ci terrorizza l'idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci sul mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno. Di qui, la predilezione per la ripetitività, l'atrofia per l'avventura, il calo della fantasia. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama alla novità, ci invita al cambio, ci stimola a ricrearci. C'è poi il complesso dell'una tantum. È difficile per noi rimanere sulla corda, camminare sui cornicioni, sottoporci alla conversione permanente. Amiamo pagare una volta per tutte. Preferiamo correre soltanto per un tratto di strada. Ma poi, appena trovata una piazzola libera, ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini, dei nostri comodi. E diventiamo borghesi. Il cammino come costume ci terrorizza. Il sottoporci alla costanza di una revisione critica ci sgomenta. Affrontare il rischio di una itineranza faticosa e imprevedibile ci rattrista. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama a lasciare il sedentarismo comodo dei nostri parcheggi, per metterci sulla strada subendone i pericoli. Ci obbliga a pagare, senza comodità forfettarie, il prezzo delle piccole numerosissime rate di un impegno duro, scomodo, ma rinnovatore. E c'è, infine, il complesso della serialità. Benché si dica il contrario, noi oggi amiamo le cose costruite in serie. Gli uomini fatti in serie. I gesti promossi in serie. Viviamo la tragedia dello standard, l'esasperazione dello schema, l'asfissia dell'etichetta. C'è un livellamento che fa paura. L 'originalità insospettisce. L 'estro provoca scetticismo. I colpi di genio intimoriscono. Chi non è inquadrato viene visto con diffidenza. Chi non si omogeneizza col sistema non merita credibilità. Di qui la crisi della protesta nei giovani e l'estinguersi della ribellione. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama all'accettazione del pluralismo, al rispetto della molteplicità, al rifiuto degli integralismi, alla gioia di intravedere che lui unifica e compone le ricchezze della diversità. La Pentecoste vi metta nel cuore una grande nostalgia del futuro


lunedì 20 marzo 2023

Merito... non solo. Appunti sulla meritocrazia

 



Parte 1

Come valutare il merito?

Tutto parte dalla seguente domanda birichina che mi sono posto da solo: “Meritocrazia. E' più degno di apprezzamento (e meritevole…) un manager che alza del 2% il profitto della propria azienda farmaceutica o il medico, della medesima azienda, che scopre un farmaco per una malattia rara (dal quale non si prevede pertanto un grosso ritorno in termini di profitto per l'industria farmaceutica)?”
La risposta non è facile, e forse neppure è possibile darne una definitiva. Conviene procedere con ordine.

Il termine meritocrazia viene dal greco, significa letteralmente “potere al merito” e identificando quel tipo di modalità di riconoscimento caratterizzato dal premiare le persone più meritevoli nei campi più vari (aziende, scuole, mondo della finanza, sanità, sport ecc.).
Meritevole è la persona che contribuisce al successo di un ente, dal più piccolo come una famiglia, ai più grandi, come un’azienda o addirittura una nazione.

E qui cominciano i problemi.

Quali sono i criteri per misurare il successo di un ente e come paragonare le storie di successo nell’ambito dei vari enti per premiare le migliori?

E’ più meritevole il manager che alza del 5% l’utile della propria azienda in Borsa, premiando così gli azionisti ma mandando a casa 10.000 dipendenti, o il manager che l’alza solo del 2% ma evita ogni tipo di licenziamento?
E ancora (e qui la risposta sembra a prima vista più facile) è più meritevole lo scienziato che mette a punto il vaccino per una influenza pandemica (che salva milioni di persone e che fornisce un grosso ritorno in termine di profitto) o lo scienziato che scopre un farmaco per le malattie rare (che salva migliaia di persone con un ritorno di profitto ovviamente molto inferiore al precedente)? La vita di più persone vale più della vita di meno persone? ponetevi, prima di rispondere, nei panni di una di queste ultime...

Sembra chiaro che la risposta a queste domande non possa prescindere dall’individuazione di criteri oggettivi atti a misurare il contributo dei singoli al successo e, pertanto, dal tipo di società che si vuole costruire.

Se si vuole costruire una società fondata su valori quali la massimizzazione della ricchezza individuale, del profitto aziendale, del PIL nazionale, saranno considerati meritevoli i cittadini che, con la loro attività, avranno meglio contribuito all’accrescimento quantitativo di questi valori.
Se invece la meta è quella di una società in cui si possa vivere meglio, in cui sia distribuita comunque una base di ricchezza sufficiente per una vita dignitosa, e si punti ad uno sviluppo rispettoso delle esigenze ambientali e della necessità di un solido contesto relazionale interpersonale, allora saranno considerati meritevoli i cittadini che maggiormente si saranno impegnati sul fronte della salute, dell’ambiente e di tutto quant’altro consente alle persone di avere solide e realizzanti relazioni umane.

Pertanto solo se si ha chiaro il modello di sviluppo da implementare e il tipo di società da costruire si potrà meglio capire cosa si intenda effettivamente per merito. Di qui la prima conclusione che non può esistere una concezione di merito condivisa da tutti ma che tale concezione dipenda in maniera molto rilevante dai valori sociali che i singoli cittadini professano.

E non è l’unica questione che si presenta.

E’ comune esperienza (sia pratica che scientifica) che le prestazioni individuali (professionali, sportive, relazionali) dipendono in gran parte da fattori che prescindono dall’impegno individuale. A titolo di esempio possiamo individuare alcuni di questi:

·       il quoziente di intelligenza (Q.I.);

·       l’ambiente familiare e sociale da cui si proviene;

·       il percorso di studi (spesso obbligato) portato (o non) a termine;

·       le doti fisiche e psichiche (talento) naturali.

Come valutare i meriti di due lavoratori di cui uno, con Q.I. superiore alla media, completa un incarico in pochi minuti e senza eccessiva fatica, e l’altro, con Q.I. inferiore alla media, in un’ora ma con grande impegno? Certo il primo avrà del tempo disponibile per portare a termine altri lavori e il secondo forse no, ma chi dei due è stato più meritevole?

Certo, se ci si basa solo sul criterio del profitto, il primo risulterà necessariamente vincente, ma abbiamo visto che il successo materiale non può essere il solo criterio. Magari il secondo lavoratore, più lento ma maggiormente impegnato, potrebbe essere più capace di integrarsi in un efficace lavoro di team.
E ancora, per tornare ad una domanda iniziale, come valutare, in termini di merito, lo scienziato che predispone il vaccino per milioni persone e quello invece che, magari con maggior impegno, scopre una medicina per una malattia rara? Valuteremo il merito in termini di ritorno di profitto, di numero di potenziali persone (pesandone l’importanza individuale in funzione del numero), o invece misureremo la quantità di impegno profuso da ciascuno dei due nel loro lavoro?
Come valutare l’insegnante, dotata di carisma personale, in grado di tenere la classe in termini di disciplina ma con scarsa capacità di trasmettere conoscenze e valori, con un’altra, magari meno esuberante, talvolta schiacciata dagli studenti, ma intenta, con grande impegno, a veicolare in loro sia le conoscenze tecniche che i principali valori sociali? Certo la prima arrecherà meno fastidio al Dirigente scolastico (che potrà limitare i suoi interventi di tipo disciplinare) ma dovrà essere considerata più meritevole dell’altra?

E non sono finiti gli interrogativi da porre sulla questione della meritocrazia.

Come comportarsi sui periodi di valutazione? Dovremo considerare più meritevole il ricercatore che, annualmente, produce singoli risultati di rilevanza normale, o un altro ricercatore, impegnato in un lavoro più complesso e con necessità di maggior tempo di analisi, che raggiungerà un risultato molto più importante ma dopo più anni? Generalmente si è portati a considerare il breve periodo, ma è giusto, non ci limiteremo così a premiare gli sforzi brevi e a disincentivare gli studi lunghi e complessi?

Riepilogando,

·       scopo ultimo del lavoro,

·       importanza dei fattori individuali predeterminati,

·       rapporto fra risultato e impegno,

·       lunghezza del periodo di valutazione

sono (e forse ce ne saranno anche altri) quattro elementi che mettono a dura prova la fondatezza e la ragionevolezza del motto “potere al merito”.

L’impressione netta è, che in questa come in altre questioni sociali, occorra evitare ogni fondamentalismo, ogni presunzione che problemi complessi siano risolvibili con soluzioni semplici, che ci possano essere, in ogni caso, scorciatoie in grado di evitare la indispensabile fatica del discernere, comprendere e solo alla fine decidere.

Il reale merito dovrà essere valutato tenendo conto non solo del contributo al profitto, al guadagno finanziario o al PIL, ma anche di fattori diversi quali l’impegno individuale, il contributo al bene comune e l’importanza del lavoro in rapporto al tempo impiegato. Solo in una ottica così allargata diventerebbe possibile avviare una concreta e giusta politica di riconoscimento del merito.

 

Parte 2

Ma è vero merito?

Ma, nel sostenere il principio meritocratico, siamo certi che veramente stiamo riconoscendo il merito delle persone che premiamo?
Non sarà necessario, prima di ogni cosa, mettere tutte le persone in condizione di godere delle medesimo opportunità? Ovvero garantire quella che viene definita come l’uguaglianza delle condizioni di partenza, di uguaglianza garantita come pari opportunità per arrivare al successo nel proprio campo?
Una volta che fossero definite ed implementate delle sane e positive politiche in campo scolastico, sociale, sanitario, culturale per potenziare i soggetti più deboli e consentire loro di dedicarsi alla attività desiderata perché non innescare, a questo punto, il principio meritocratico e riconoscere il valore dei più meritevoli?

Forse perché il talento del quale siamo dotati e che ci permette di raggiungere o meno determinati risultati di successo non può essere considerato solo “nostro” ma è frutto di un dono o della sorte.
Ogni essere umano nasce infatti con un determinato patrimonio genetico, con determinate doti caratteriali che vengono affinate e potenziate dall’ambiente familiare e sociale nel quale viviamo e che ci offre (ci dona) precise possibilità di crescita.
il DNA genitoriale, il contesto culturale e professionale delle nostre amicizie, la possibilità di accedere a strutture formative adeguate, le risorse finanziare necessarie per viaggiare e conoscere ambienti diversi, sono tutti elementi che giocano a favore (o a sfavore…) di ciascuno di noi nella via verso il successo.
Chi ha avuto la sorte di vivere in un contesto favorevole,  di aver goduto di una istruzione adeguata, di aver frequentato stimolanti ambienti nazionali e internazionali, ha davvero pochi meriti personali in più rispetto a chi ha avuto una sorte sfavorevole per poter pretendere e rivendicare un riconoscimento maggiore nel raggiungimento di determinati risultati.
Se si preferisce, invece di sorte, si può parlare (per chi è credente) di dono di Dio, ovvero di benevolenza divina gratuita, ma in questo caso chi ne è beneficiario non se ne può assolutamente gloriare.

Sane positive sociali in campo scolastico, sociale, sanitario, scolastico potrebbero parzialmente livellare le condizioni di partenza ma non potrebbero mai annullarle e alcune condizioni favorevoli (come il DNA, le amicizie del proprio ambiente sociale, l’influsso culturale familiare) contribuirebbero sempre ad agevolare il cammino dei più rispetto ai meno fortunati.
Si potrebbe forse affermare che, anche se non è certo che ci sia del merito a raggiungere determinati risultati in condizioni di privilegio, si potrebbe però pur sempre riconoscere e premiare l’impegno di chi ha saputo mettere a frutto il talento consegnatogli gratuitamente dalla sorte o dalla grazia divina. Si potrebbe arrivare a teorizzare una meritocrazia dell’impegno.

Siamo certi che almeno l’impegno (visto come capacità di concentrare, anche con sacrificio, i propri sforzi per raggiungere un risultato degno di riconoscimento) sia il frutto autonomo di una nostra scelta?
Non sarà anche l’impegno frutto del nostro peculiare DNA, dell’educazione che abbiamo ricevuto nel nostro contesto familiare e sociale?
La maggior parte di noi conosce ragazzi capaci tranquillamente di impegnarsi in una attività e altri molto meno capaci. Se poi andiamo ad approfondire il loro contesto familiare e sociale di questi ultimi, ci rendiamo conto che è difficile per loro acquisire capacità di impegno e di sacrificio se, intorno a loro, nessuno li sprona in questa direzione o ha dato loro un esempio di vita significativo in tal senso.

Ma allora, se il merito è frutto in maggior parte della sorte o di un dono di Dio, che senso ha parlare di meritocrazia e della necessità di riconoscere i più meritevoli? Non è meglio, se si vuol essere realisti e, allo stesso tempo, equi, rinunciare ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base del merito?


Parte 3

Che succede se rinunciamo al merito?

Rinunciare ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base di un merito che si riconosce esistente altro non vuol dire che passare da una forma di giustizia distributiva che attribuisca a ciascuno secondo i suoi meriti (tenendo conto di alcuni trattamenti minimi non comprimibili) ad un'altra che attribuisca a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Nessuno, in migliaia di anni di storia del genere umano, è riuscito nell’applicare integralmente, in un contesto di rispetto della libertà personale, il secondo criterio se non all’interno di singole piccole comunità o sette ad alta e condivisa tensione ideale.
Il criterio si è rivelato inapplicabile e dissolto nella misura in cui la dimensione di queste comunità è cresciuta, o che la tensione ideale sia fortemente diminuita.
Vuol forse dire che qualche problema di realismo e di compatibilità esiste ed è insuperabile?

Ma la rinuncia ad ogni forma di valutazione e di riconoscimento sulla base di un merito porrebbe problemi anche di normale carattere pratico.
Come eserciteremmo, in una democrazia parlamentare, in una libera associazione, in un condominio, il nostro diritto di voto per scegliere una persona per un incarico? Dovremmo pur sempre valutare i comportamenti e le capacità dei singoli candidati e scegliere quella persona che, a nostro parere,… meriterebbe il nostro voto! Magari le daremmo il nostro voto sulla base dei criteri più disparati (l’età, il livello di istruzione, il genere, il colore dei capelli, il ceto, la residenza…) ma, in ogni caso, dovremmo darle una preferenza e decidere sul perché merita la mia preferenza rispetto ad un’altra persona!

Non vorrei essere semplicistico ma mi sembra che la soppressione tout court del “merito” come criterio di valutazione non sia realisticamente possibile.
Diversa è la soluzione sul come valutare il merito, su quali criteri utilizzare. Come già accennato in precedenza, il reale merito dovrebbe essere valutato tenendo conto di vari fattori quali la competenza personale, l’impegno individuale, il contributo al bene comune, l’importanza del lavoro in rapporto al tempo impiegato, non solo pertanto di fattori solo finanziari quali il contributo al profitto o alla crescita economica.
Solo in una ottica così allargata diventerebbe possibile avviare una concreta e giusta politica di riconoscimento del merito.
Questa ottica postula necessariamente un discernimento serio e il più possibile oggettivo e condiviso.
Se la valutazione personale non appare basata su dati oggettivi e misurabili nonché effettuata senza una sufficiente condivisione, diventa inevitabile che possa venire contestata da chi non si ritenga (magari a torto) inferiore a colui il quale è stato riconosciuto un merito maggiore.
A livello socio-politico certi fenomeni populistici vanno proprio ascritti a questa motivazione, la sensazione di essere stati trattati ingiustamente per una non corretta valutazione del merito personale.
Più sono trasparenti e pubblici sia i criteri per la valutazione del merito sia gli strumenti di misurazione dello stesso, più diventa difficile contestare le valutazione e i conseguenti riconoscimenti (fermo restando che l’unanimità non si potrà mai verificare).

Per chi vorrà approfondire l’argomento appena accettato in queste considerazioni, potrà leggere con profitto:

1.     Carlo Cottarelli – All’inferno e ritorno – Feltrinelli 2021

2.     Michael J. Sandel – La tirannia del merito – Feltrinelli 2021

Luca Ricolfi - La rivoluzione del merito - Rizzoli 2023

 

Roma 20 marzo 2023