La spesa pubblica crea felicità?
Le popolazioni Europee, in particolare quelle del Sud Europa, non possono più aspettarsi la soddisfazione delle proprie aspettative attraverso l’aumento della spesa pubblica. Abbiamo visto nel precedente articolo "alternanza di governo o qualcosa di diverso?"(http://www.personaefuturo.it/2010/03/16/alternanza-di-governo-o-qualcosa-di-diverso.shtml) come la grave situazione dei bilanci pubblici non permetta più ai governi di agire tramite la leva del deficit spending (ovvero l’aumentare la spesa pubblica finanziandola con il deficit di bilancio).
Eppure, ad ogni tornata elettorale, la maggior parte dei partiti formula promesse che sa di non essere in grado di mantenere e il corpo elettorale, dopo aver punito i partiti al governo colpevoli di non aver tenuto fede agli impegni presi, tende a premiare le opposizioni sulla base di altre promesse formulate ma non sicuramente mantenibili.
C’è un’altra linea economica in grado di aumentare il benessere economico senza ricorrere all’incremento della spesa pubblica?
Gli economisti che si richiamano alla scuola liberale classica ne sono certi e sostengono con convinzione che la linea è una sola: studiare di più, lavorare di più, produrre di più, il tutto con maggiore velocità e minori costi delle Nazioni concorrenti.
Solo in questo modo si può creare vera ricchezza di beni materiali da poter distribuire in maniera equa puntando ad una maggiore giustizia ma senza punire i più meritevoli.
Dal punto di vista teorico quanto sopra funziona benissimo. Il problema contro cui si naufraga è la realtà di un mondo globale, nel quale la maggior parte delle Nazioni (in particolare quelle emergenti) segue questa linea.
In tale sistema, tutti i fattori di produzione (capitale, risorse umane, imprenditorialità) sono in grado di spostarsi rapidamente da una Nazione all’altra stabilendosi in quella che offre le maggiori occasioni di guadagno e di profitto.
Non c’è chi non può notare come questa ricerca di competitività sfrenata porti inequivocabilmente a porre l’efficienza e il profitto al centro della attività sociale (non solo economica). In questa visione tutti i corpi intermedi (famiglia, scuola, università, aziende ...) sono visti soltanto come strumenti funzionali all’aumento della produttività.
La dimensione del lavoro acquista la assoluta preminenza sulle altre dimensioni umane.
In altri termini, l’uomo cessa di essere “persona” e diventa “arma” per poter vincere la competizione economica.
Non solo, ma è sotto gli occhi di tutti come si allarghi sempre più fra le diverse Nazioni e, all’interno di essere fra le classi sociali, la forbice fra chi ha di più (e avrà sempre di più) e chi ha di meno (e avrà sempre di meno).
Alcuni economisti (e uomini di governo) affermano che sarebbe necessario predisporre una normativa internazionale in grado di regolare questi fenomeni dannosi se lasciati a se stessi.
Bello ma utopistico, anche la recente crisi finanziaria ha ampiamente dimostrato come i “poteri forti” internazionali economico-finanziari non accettino tali misure, se non in maniera minima come palliativo e “contentino” mediatico, e anzi richiedano allo Stato l’aumento della spesa pubblica (sic!!) per rimediare ai disastri da loro causati e dalle cui conseguenze vogliono restare indenni.
Quest’ultimo è un paradosso che chiarisce senza ombra di dubbio che non è questa la strada giusta da proporre alle popolazioni per tornare ad una crescita economica reale e umanamente sostenibile.
Nessuno forse ha una ricetta teorica già bella che pronta ma certe linee di soluzione sono già individuabili.
Perché ad esempio, invece di proporre di studiare, lavorare e di produrre di più non si riflette sull’esigenza di lavorare e di produrre meglio? Sullo studiare di più, oltre che meglio, non ci sono dubbi, talmente palese è l’emergenza educativa.
In altri termini perché, per quali fini si lavora e si produce? Per aumentare il possesso di beni materiali, incrementare il prodotto e il reddito lordo, quello che Adam Smith chiamava la “ricchezza nazionale?
O non invece per aumentare la felicità nazionale?
Gli ultimi studi in materia economica (anche, ma non solo, di studiosi italiani come Zamagni, Bruni, Pelligra ecc.) hanno messo in evidenza tre elementi:
1. la felicità non è un termine astratto, ma un modo concreto e reale di essere, perfettamente misurabile dal punto di vista quantitativo;
2. raggiunta una certa soglia di reddito (tale da permettere una vita non solo a livello minino, ma realmente degna di essere vissuta) il livello e lo stato di felicità rimangono stabili anche in presenza di incrementi del reddito individuale o nazionale;
3. il livello di felicità aumenta con il dispiegarsi di una propria crescita spirituale (acquisizione di maggiori capacità intellettuali e culturali) e di relazioni interpersonali più appaganti (un ambiente familiare sereno, amicizia salde, costruttive e durature, una rete di protezione sociale partecipativa e percepita come amichevole).
Se ciò è vero, il lavorare meglio e il produrre meglio dovrebbero equivalere a lavorare per produrre quei beni che permettono di conseguire, oltre che un aumento di reddito, soprattutto un ampliamento della categoria di quelli che dalla dottrina economica più recente sono definiti beni relazionali (servizi alla persona, creazione di luoghi di incontro, occasioni culturali, difesa e promozione dei dati naturali e del territorio...).
Questo beninteso con gradualità e ribadendo inequivocabilmente la necessità di alzare il livello di vita delle persone povere anche attraverso una redistribuzione del reddito (stimolandole, quando necessario, ad una maggiora capacità e volontà lavorativa).
In questa ottica i corpi intermedi e le agenzie sociali (scuola, famiglia, associazioni, aziende) diventano strumenti essenziali al servizio della felicità comune.
Qualcuno dei lettori, o molti? diranno che si tratta di un’utopia, di un sogno.
No, si tratta di un progetto faticoso, pesante ma realizzabile come dimostrano gli studi più recenti (vedi allegata bibliografia).
Il nocciolo del problema è passare da una cultura che mette al centro l’individuo teso al guadagno e al profitto individuale ad un’altra che mette al centro la persona umana rivolta a raggiunge la felicità propria e quella degli altri.
Ma non è questo uno dei motivi, se non il principale, per il quale è nata Persona è futuro?
Bibliografia essenziale sull’argomento
S. Zamagni – L. Bruni (a cura di) – Dizionario di Economia civile – Città Nuova 2009
R. Layard – Felicità. La nuova scienza del benessere umano – Rizzoli 2005
L. Bruni, P.L. Porta (a cura) – Felicità ed economia – Guerini e Associati 2004
Autori vari – Umanizzare l’economia – Cacucci 1999
S. Zamagni – L’economia del bene comune – Città Nuova 2007
F. Fukuyama – Fiducia – Rizzoli 1996
J. Rifkin – Il sogno europeo – Mondadori 2004
A. Kohn – La fine della competizione – Buchini e Castaldi 1999
A. Sen – Lo sviluppo è libertà – Mondatori 2000
G. Manzone – Il lavoro dal volto umano – Lateran University Press 2003
E. Chiavacci – Lezione brevi di etica sociale – Cittadella editrice 1999
S. Latouche – Breve trattato sulla decrescita serena – Bollati Boringhieri
G. Sbardella - Controcorrente, la mia storia di cristiano e di manager - Città Nuova 2007