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mercoledì 17 marzo 2010

Alternanza di governo o qualcosa di diverso?

L’alternanza al governo da parte di due coalizioni in competizione rappresenta, secondo la maggior parte dei politologi uno dei punti di forza delle democrazie parlamentari. Infatti il potere del popolo di poter cambiare la coalizione al governo si esprime al massimo, in occasione di competizioni elettorali, con il voto e con il conseguente diritto di valutare l’operato dei partiti al governo e, in caso negativo, di poterli sostituire. Sempre secondo i politologi il timore di un giudizio negativo da parte del corpo elettorale è lo sprone migliore per spingere le coalizioni a governare nel migliore dei modi.

In effetti, tenendo a mente ciò che è accaduto, negli ultimi 20 anni, in Italia e in Europa, tale teoria non convince del tutto ad una serena valutazione obiettiva.

In Italia, dopo “tangentopoli” e il caotico periodo del passaggio dalla I alla II Repubblica, dal ’94 ad oggi, ad ogni competizione elettorale è stata cambiata la coalizione al governo, con un succedersi ininterrotto di centrodestra e centrosinistra. Al governo Berlusconi (a prescindere dalla esperienza “presidenziale” Dini) è succeduto quello Prodi (con l’appendice di D’Alema e Amato), quindi è tornato al potere Berlusconi, di nuovo disarcionato da Prodi e ora al governo c’è nuovamente Berlusconi.

Anche negli altri Paesi , contrariamente a quanto avveniva nel cinquantennio precedente, caratterizzato da lunghi periodi di governo omogeneo (è sufficiente pensare alle esperienze di Mitterrand in Francia e di Brandt o Kohl in Germania), negli ultimi 20 anni la alternanza ha assunto un ritmo accelerato, anche senza raggiungere il caso italiano che vede la prevalenza della coalizione di opposizione ad ogni tornata elettorale.

Quali sono i motivi alla base di questo strano rovesciamento di situazioni?

Negli anni ’80 si è verificata una svolta di cui solo in futuro gli storici sapranno evidenziare l’importanza: l’ascesa al potere, per un discreto numero di anni, di M. Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli USA, entrambi sulle ali di una linea socio-economica neoconservatrice e neoliberista.

Fino ad allora tutti i governi delle repubbliche democratiche occidentali avevano seguito una politica economica ispirata al deficit spending, propugnata, negli anni ’30 e ’40 dall’economista inglese J.M. Keynes. Base di tale politica era il sostegno alla domanda dei beni, in momenti di ristagno economico, attraverso l’utilizzo della spesa pubblica anche in situazione di forte disavanzo di bilancio.

Pochi si rendevano conto che i governi, una volta terminata la fase di ristagno, non riuscivano a rientrare (come avrebbero dovuto e come lo stesso Keynes raccomandava) nei vincoli di bilancio, sia perché si sarebbe trattato di porre in essere misure impopolari, sia perché era estremamente comodo soddisfare, con l’aumento della spesa pubbica e il ricorso spregiudicato al deficit spending, le richieste del corpo elettorale e le promesse allo stesso fatte.

Questa politica, a lungo andare, ha portato a costi economici insostenibili, quali periodi di contemporanea inflazione e disoccupazione massiccia, ma anche a costi sociali più sottili ma altrettanto importanti, quali il disincentivo alla voglia individuale di intraprendere, di produrre, di studiare.

Reagan e la Thatcher, giunti al potere sulla scia di una rivolta contro questi costi e sostenuti a livello teorico dalla scuola economica di Chicago, posero in essere quella che, all’epoca, poteva essere considerata una rivoluzione copernicana.

In primo luogo misero le mani ad una revisione della curva delle aliquote fiscali, diminuendo in maniera massiccia le tasse ai più ricchi, nell’assunto che il risparmio, messo nuovamente nelle mani dei privati sarebbe stato investito e speso meglio che se fosse rimasto nelle mani pubbliche.

Secondo la teoria dei Chicago boys, l’aumento di produttività globale avrebbe fatto rientrare, nel medio periodo, le entrate fiscali perse con le modifiche alle aliquote. A parte la circostanza che ciò non avvenne, si rese necessario, nel breve periodo ridurre la spesa pubblica per spese sociali per compensare la diminuzione delle entrate tributarie.

In secondo luogo i due leaders USA e Britannico rivalutarono ampiamente la funzione del mercato quale regolatore più efficiente e giusto della attività economica, eliminando tutti i possibili intralci di natura legislativa all’azione delle imprese private.

Lentamente, sotto la pressione congiunta della politica Statunitense e Britannica e delle teorie neoliberiste della scuola di Chicago, anche le Nazioni europee si allinearono al questa posizione (teorica e concreta insieme) e iniziarono a porre in essere politiche di forte restrizione della spesa pubblica.

Una grande spinta in questo senso la diedero anche l’adesione al trattato di Maastrischt (che imponeva severi limiti di bilancio) e la costituzione dell’Euro quale moneta unica europea, misure che entrambe limitavano seriamente l’autonomia delle singole Nazioni nel porre in essere politiche economiche monetarie differenziate.

Pochi si rendevano conto che questo nuovo disegno di linea economica e sociale avrebbe dovuto provocare, anche nei partiti, un ripensamento ed una conversione in un nuovo modo di fare politica. In un momento storico in cui la spesa pubblica andava posta sotto controllo, compito dei partiti non era più quello di soddisfare (finanziandole con il deficit spending) le richieste degli elettori nel breve periodo (sicuramente incompatibili con i vincoli di bilancio) bensì quello di elaborare e proporre al corpo elettorale, programmi e proposte in grado di soddisfare, nel medio – lungo periodo, l’interesse collettivo e compatibili con una sana politica economica.

Ciò non avvenne e si verificarono invece tre fenomeni paralleli.

Da una parte si andò sempre più perdendo la differenza di linea politica ed economica fra coalizioni di diverso orientamento, conservatore o riformista, convergendo entrambe su un pensiero unico che propugnava il sostegno al liberismo economico e una forte riduzione della spesa pubblica.

Dall’altra parte si è accentuata una difficoltà del corpo elettorale, nelle Nazioni europee, ad accettare una inevitabile riduzione dello stile di vita compensabile solo in parte con una forte ripresa della iniziativa individuale in campo economico, andata però quasi completamente persa nel periodo precedente (laddove la forte fiducia popolare nelle virtù benefiche della spesa pubblica aveva posto i cittadini in una posizione di attesa spegnendo le capacità imprenditoriali).

In terzo luogo i partiti, invece di svolgere un lavoro educativo spiegando ai loro elettori il cambiamento avvenuto e la necessità di un mutamento delle abitudini civili di comportamento, hanno preferito non sfidare l’impopolarità e continuare invece a procacciarsi favore e voti attraverso promesse che sapevano non essere in grado di mantenere.

L’insieme di questi elementi ha fatto sì che le coalizioni vincenti, in ogni tornata elettorale, non si sono rivelate in grado di mantenere le promesse fatte o, anche in assenza di tali promesse, di soddisfare le attese popolari di uno sviluppo lineare dello stile di vita in atto.

Appare normale conseguenza di tale situazione che i partiti di governo hanno sempre perso (particolarmente in Italia) le elezioni al termine del loro periodo di governo. Come appare altresì normale conseguenza che l’opposizione vinca le elezioni successive promettendo di soddisfare le attese del corpo elettorale (ben sapendo peraltro che non ne sarà capace).

Altro che sana alternanza di governo, qui si tratta di un circolo vizioso che occorre necessariamente rompere per evitare una spirale di perverso degrado sociale, civile, ed economico.

Come fare? Qualche modesta proposta in un prossimo articolo.

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