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giovedì 18 novembre 2010

Una povertà felice? Considerazioni su un libro postumo

Ci volevano il coraggio e la serenità di un uomo prossimo alla morte come Edmondo Berselli (brillante e poliedrico intellettuale, Direttore per 6 anni della rivista il Mulino) per scrivere il prezioso libro “Economia giusta” pubblicato postumo da Giulio Einaudi editore.

La sintesi del libro, al termine di un serio e conseguente pensiero esplicativo, si trova in queste parole: “ ... Nel frattempo, noi europei proveremo a vivere sotto il segno meno: meno ricchezza, meno prodotti, meno consumi. Più poveri insomma”.

Invito a leggere il libro (che costa poco, € 10,00) per seguire e conoscere il pensiero di Berselli, in questo scritto parto invece dalla sua conclusione.

L’Europa ha di fronte a sé un periodo di povertà, ovvero un periodo in cui non saremo in grado di mantenere l’attuale stile di vita e di consumi.

La crisi attuale durerà ancora anni perché ci aspettano politiche di maggior rigore economico (già assunte a livello “bipartisan” europeo, ma poco conosciute nella pubblica opinione) per ridurre nel giro di pochi anni il livello di indebitamento pubblico, pervenuto a livelli insopportabili a seguito dell’aumento della spesa pubblica intercorso nell’ultimo triennio per sostenere l’economia.

Lo Stato è come una famiglia, non può vivere finanziando i consumi correnti con i debiti, a lungo andare ci si infila in un drammatico e insostenibile tunnel.

Bisogna essere chiari e espliciti, quando aumenta il debito pubblico di uno Stato vuol dire che la società civile nel suo complesso consuma più di quanto produce.

L’Italia sotto questo punto di vista è fra le Nazioni messe peggio.

Scorrendo le statistiche finanziarie dell’ultimo cinquantennio, si può notare come la nostra Patria abbia, dagli anni ’60 del secolo scorso fino ad oggi, una tendenza all’incremento costante del debito pubblico.

Le punte maggiori si sono verificate dalla metà degli anni ’70 fino all’inizio degli anni ’90 quando, per un decennio Ministri dell’economia del calibro di Dini e Ciampi (entrambi ex Banca D’Italia) iniziarono in doloroso percorso di risanamento che ci condusse all’Euro. In quest’ultimo attuale decennio (2001-2010) l’aumento è ricominciato anche, ma non solo, a causa delle crisi finanziarie del 2001 e del 2008.

A chi ha ancora il coraggio di rimpiangere la politica economica della Prima Repubblica ricordo che, nel 1976, l’Italia per scongiurare un fallimento nazionale, dovette chiedere un prestito alla Germania dando in prestito una parte delle sue riserve auree.

Riepilogando, per 50 anni, abbiamo, nel nostro complesso, vissuto consumando in maniera maggiore delle nostre entrate. Ora occorre rimediare.

Un risanamento finanziario reale passa necessariamente attraverso alcune operazioni ben chiare.

In primo luogo occorre aumentare il nostro reddito nazionale e questo lo si può fare solo attraverso un modo: producendo di più.

Questa esigenza chiama in causa tutto il mondo del lavoro.

Gli imprenditori devono avere la forza e la capacità di trovare ed attuare situazioni innovative accettando la competizione in una economia globalizzata e lasciandosi alle spalle vecchi schemi assistenzialistici ormai superati.

Questa sfida riguarda sia le imprese già esistenti sia quelle che nasceranno. I giovani (e i meno giovani) dovranno cambiare la consueta mentalità italiana, uscire dal calduccio delle famiglie e dalla ricerca del posto fisso (magari pubblico), studiare meglio e di più e mettere il bagaglio culturale acquisito e la loro energia al servizio della nascita di nuove idee imprenditoriali.

Ma anche i lavoratori dovranno lavorare di più e meglio, acquisendo un nuovo approccio culturale che, nella ferma difesa della dignità della persona umana sul luogo del lavoro, accetti in pieno la sfida meritocratica e quella della innovazione tecnologica (che comporta la fatica non indifferente di una educazione professionale permanente).

Aumentare la produzione e la produttività vorrà anche dire ripensare profondamente il settore pubblico, puntando a farlo divenire sempre meno burocratico e con il compito primario di sostenere tutte le attività attinenti allo sviluppo della Nazione, anche a costo di sacrificare inutili esuberanti posti di lavoro.

Ancora occorrerà affrontare quella che Benedetto XVI chiama l’emergenza educativa, ristabilire il concetto che a scuola si viene per studiare, un posto cioè dove i meritevoli vengono premiati, i capaci comunque sostenuti come anche gli studenti volenterosi ma problematici, mentre vanno correttamente indirizzati i meno capaci e respinti i non volenterosi. Indispensabile, oltre ad un ripensamento della presenza (talvolta deleteria) delle famiglie nella scuola, anche una riabilitazione della autorità (e non solo della cosiddetta autorevolezza) dei docenti.

Anche sul fronte dei consumi l’operazione di risanamento non potrà essere indolore.

Non è vera innanzitutto l’affermazione (fonte di tante preoccupazioni) che la ricchezza genera felicità). Analisi economiche ormai consolidate hanno evidenziato che, oltrepassato un determinato livello di reddito (superiore a quello di mera sussistenza) ulteriori aumenti dello stesso non comportano proporzionali incrementi della felicità individuale. Quest’ultima appare invece frutto della bontà e della durata di sane relazioni interpersonali.

Se riuscissimo, per un certo periodo di tempo, a resistere ai messaggi pubblicitari (in particolare a quelli nascosti...) che condizionano pesantemente la nostra libertà e conseguentemente le nostre scelte di vita, potremmo forse accorgerci che una passeggiata (o magari una corsa) nel parco con i nostri figli o con amici ci rende più felici e sereni (oltre ad essere gratuita!) di una seduta in una palestra.

Ma questo della pubblicità è un elemento, pure interessantissimo, che esula però dall’ambito di questo scritto. A noi interessa mantenere fermo il concetto che la felicità è frutto, oltre un certo livello di reddito, solamente della bontà delle nostre relazioni. Per dirla con gli studiosi teorici della scuola di “Economia civile”, essa dipende dal nostro consumo di beni “relazionali” piuttosto che di quelli di “posizione” ovvero di quei beni normalmente consumati, il cui consumo o l’impiego da parte nostra limita quello altrui.

Sul fronte dei consumi non si tratta dunque di essere più poveri bensì di cambiare lo stile di vita (qualcuno usa la metafora stile di sprechi) adottando un insieme di consumi che permetta di mantenere inalterata (o di aumentare) la felicità pur in presenza di una diminuzione reale di reddito.

Sarebbe però sbagliato (oltre che falso e ingannevole) raccontare che sia l’aumento della produttività che il cambio dello stile di vita saranno operazioni facilmente sopportabili e poco dolorose. Si tratterà invece di cambiare mentalità, di andare controcorrente, di abbattere l’individualismo cronico nostra caratteristica nazionale.

L’operazione andrà in porto solo se le difficoltà, i disagi, le paure saranno comunque percepite dalla società civile come frutto di una politica equa. Come ha ben dichiarato il premio Nobel per l’economia, l’indiano A. Sen, “il bisogno di equità non è mai così grande come quando si stanno compiendo sacrifici”.

Ecco allora la necessità di affrontare, direi più bruscamente di prendere di petto, tutti insieme classe dirigente e società civile, alcuni elementi che rappresentano il cancro della nostra Nazione.

In primo luogo l’evasione fiscale che, secondo stime attendibili, raggiunge oltre il 20% del reddito nazionale, uno scandalo immenso e vergognoso.

Altro problema da prendere per le corna è quello di una società chiusa dove il potere, quando non è in mano al formazioni malavitose, lo è a lobbies di vario tipo (Ordini professionali, Categorie professionali, Associazioni VIP, poteri forti mediatici....) che incatenano il Paese e impediscono l’emergere delle forze e delle energia (particolarmente giovanili) migliori.

Che dire poi del principio di legalità, incrinato da una continua inosservanza delle regole (anche da parte di coloro che dovrebbero farle rispettare...), da una prassi costante di sanatorie e condoni di vario tipo e modalità che insinuano nei cittadini la persuasione che solo gli sprovveduti si premurano di rispettare le norme giuridiche e quelle di costume?

Non sono problemi che si possono risolvere con leggi o con normative ad hoc, senza che non si sia prima inciso prima in quella che appare la fonte primaria di tutti i mali sociali italiani, il nostro individualismo di massa, quello che ci lascia preferire il raggiungimento del nostro interesse personale a breve termine al conseguimento a medio termine dell’interesse della comunità alla quale apparteniamo (perciò anche nostro).

Occorre tornare a riscoprire principi condivisi (magari quelli scritti nella nostra Costituzione), a ricollegare un tessuto sociale ora frammentato, a individuare i motivi di fondo del nostro stare insieme, in sintesi a riscoprire il senso del bene comune.

In questo cammino i cristiani italiani sono chiamati ad essere in prima fila, ad essere i leader, onesti e capaci (quanta pulizia ancora da fare anche al nostro interno!) di un progetto capace di riunire le nostre energie migliori e di chiamarle, nel nome della fraternità e del bene comune, a portare disinteressatamente il proprio contributo alla costruzione di una Italia e di una Europa in cui il principio del primato della persona umana non sia solo una vuota parola ma una concreta realtà vissuta.

1 commento:

Marisa S. ha detto...

Mi sta bene tutto quello che hai elencato, ma non pensi che sia il caso di riformare sul serio anche le carceri? E' da sempre che sostengo che il loro non far nulla (tranne in pochissimi casi, in cui li si occupa più per impegnarli, che per una utilità reale) sia deleterio sia per loro, sia per la collettività. Partendo dal presupposto che necessita, anche per la loro dignità, un riscatto vero per una riabilitazione effettiva, io creerei delle fabbriche o anche, perchè no, delle società di servizi all'interno delle carceri, proprio nei settori in cui l'Italia ha il nervo scoperto e farei lavorare i nostri cari detenuti senza corresponsione di stipendio o riconoscendogliene una piccolissima parte, versando loro solo i contributi per la pensione, visto che gli offriamo già vitto e alloggio gratis, oltre a tv, possibilità di leggere e laurearsi gratuitamente etc, etc. Vedresti come schizzerebbe il famigerato PIL!
Ma lo sai che alcuni "senza fissa dimora", che noi conosciamo per via del volontariato alla stazione Tuscolana, delle volte si fanno "beccare" volutamente, durante un furtarello, per risolversi il problema di dove andare a dormire e a mangiare, comodamente, per qualche settimana?
Finchè non ci si metterà sul serio "a tavolino" ad affrontare e risolvere, ad uno ad uno, i veri problemi dell'Italia, rimarrà solo il vuoto della retorica e dell'inutilità delle "belle parole".
Un abbraccio,
Marisa