La tirannia, ovvero una forma di oppressione da parte di una persona o di un gruppo sul popolo di una nazione o di un’area territoriale, è un regime che ha le caratteristiche di una presenza continua nella storia dell’umanità e una capacità impressionante di mutare le forme per adattarle alle nuove realtà.
Mi hanno molto impressionato e fatto riflettere le seguenti parole di Papa Francesco, tratte dal paragrafo 56 della “Evangelii gaudium”: “Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova forma di tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile le sue leggi e le sue regole”.
In effetti nella moderna economia globale del libero scambio di merci le imprese competono a livello internazionale cercando di offrire prodotti migliori e prezzi più bassi dei concorrenti, tenendo presente il primato del principio della massimizzazione dei profitti. Non è più sufficiente tenere il bilancio aziendale in attivo ma si rende necessario avere un margine di profitto più alto di quello dei concorrenti, in modo da attrarre investimenti che altrimenti andrebbero altrove. Compito dell’imprenditore diventa quello di tenere più alta possibile la quotazione della propria azienda in Borsa in modo da poter remunerare i propri azionisti con adeguati dividendi e, nel contempo, acquisirne di nuovi.
Si tralascia di proposito la questione di come, in tale situazione, la riduzione dei costi (necessaria per tenere alto il margine di profitto) si esprime, il più delle volte, in una ridimensionamento delle risorse umane o, per dirla in maniera più chiara, in una riduzione del personale.
Con le riflessioni esposte in questo breve testo si vuole considerare un altro aspetto della questione, quello di come la competizione affrontata dalle singole imprese, mediante l’incremento della loro efficienza e della loro efficacia, si ripercuota sulla politica economica e finanziaria dei singoli Stati.
Non possiamo non sottolineare come uno dei punti fondamentali che permette alle imprese di prosperare è quello di avere un sistema normativo nazionale in tema di diritto del lavoro, di procedure amministrative, di gestione fiscale, di risoluzione delle vertenze, che faciliti il loro compito.
Né possiamo dimenticare che, come scriveva Sergio Zavoli in un suo libro della fine degli anni ‘90 “la vera rivoluzione non è più nel cambiamento, bensì nella velocità con il quale questo avviene”.
Il sistema normativo non deve pertanto essere solo efficace in funzione dell’interesse delle imprese ma anche essere sufficientemente flessibile per adeguarsi velocemente al mutare del contesto economico nazionale.
Ciò chiama in causa inevitabilmente il tipo di sistema istituzionale.
La democrazia si basa su tre principi fondamentali, la libertà, l’uguaglianza, la fraternità i quali per essere realizzati presuppongono la possibilità per tutti di partecipare, con uguale dignità e in funzione delle peculiari caratteristiche personali, alla gestione del governo della comunità.
Più la partecipazione è stimolata e diventa effettiva, più le persone si sentono libere, uguali fra di loro e legate da vincoli di fraternità. Maggiore la partecipazione, più le decisioni sono frutto di un libero confronto fra i cittadini in funzione delle diversità delle idee e della tutela dei singoli interessi.
Peraltro è da sottolineare che più la partecipazione è ampia e più complesso è di conseguenza il confronto, più le decisioni vengono prese con lentezza.
In un contesto globale in continua e veloce mutazione, nel quale i Paesi stessi competono nel porre in essere sistemi normativi sempre più efficaci nel sostenere i loro attori economici, occorre avere sistemi istituzionali dotati di flessibilità ed efficacia, capaci di prendere e attuare le decisioni più corrette nel modo più veloce possibile. Teoricamente non appare più possibile sostenere processi decisionali lunghi basati su un’ampia partecipazione.
Anche se è vero che una decisione molto condivisa può essere attuata velocemente è pur vero purtroppo che, molto spesso, i tempi spesi per arrivare alla decisione sono troppo lunghi e la decisione arriva troppo tardi in confronto a quella presa nel contempo da altri Paesi.
Se si pensa ai Paesi che, nel primo decennio del XXI secolo, sono stati all’avanguardia per sviluppo economico o che sono stati i più veloci nel riprendersi da momenti di crisi si può notare come gli stessi siano retti da regimi di governo "decisionisti", persino dittatoriali o comunque fortemente orientati in senso presidenziale o premieristico (Cina, India, USA, Gran Bretagna, Brasile, Russia, Germania)
E’ vero che alcuni Paesi, con regime presidenziale (Francia) o dittatoriale (alcuni Paesi del Sud America o dell’Africa) continuano ad avere difficoltà a mantenere il passo dell’economia globale, ma è pur vero che nessun Paese, a base decisionale con ampia partecipazione, sta in una posizione di avanguardia per sviluppo economico.
Il tutto è aggravato dalla questione del “rating”, ovvero la valutazione che alcune società multinazionali danno alla situazione economica e finanziaria dei singoli Paesi. Il rating è un elemento fondamentale da considerare da parte degli investitori internazionali per indirizzare i propri investimenti, e il rating tende a premiare i Paesi con sistemi istituzionali più flessibili e facilitatori di decisioni veloci.
Di conseguenza si viene a creare una forte spinta nei confronti delle Nazioni a sistema decisionale "consensuale" (ovvero basato su un’ampia partecipazione" per cambiare rapidamente in un senso più autoritario il proprio sistema istituzionale riducendo notevolmente gli spazi di partecipazione e di libero ampio confronto.
L’aspetto più importante e più devastante della situazione appena descritta è proprio in questa tirannia dei meccanismi economici globali, che è possibile (anche se in un modo non esaustivo) esemplificare nella metodologia del rating, “una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole” (per riprendere le parole di Papa Francesco).
Di fronte alla normale tensione esistente, in ogni democrazia, fra esigenze di efficienza e esigenze di partecipazione, non è più il popolo che decide il punto di equilibrio, ma sono i meccanismi del sistema economico globale. E gli stessi meccanismi esautorano i parlamenti nazionali, sotto il ricatto del rating, per imporre misure economiche e finanziarie di loro gradimento ma spesso non volute dalla maggioranza del popolo che è oggetto delle stesse.
Il potere legislativo passa così dai Parlamenti nazionali o transnazionali a istituzioni internazionali non democratiche e a meccanismi finanziari non personalizzabili.
La tirannia finanziaria globale è forse la forma tipica, in aggiunta alle altre tradizionali, che ha assunto la
tirannia nel XXI secolo.
Come resistere, come uscirne?
Certo non si può pensare di uscirne continuando a perseverare in stili di vita e in modelli di sviluppo che sono conformi alle richieste dei mercati finanziari e, il più delle volte, da loro stessi dettati.
Occorre
cambiare paradigma trasformando quello che è il principale principio dell’economia del turbo-capitalismo (come significativamente viene definito da Luttwak): il fine di ogni azienda è la massimizzazione del profitto, il fine di ogni persona è la massimizzazione del guadagno personale.
In questo mutamento non partiamo da zero, ma abbiamo già alle spalle una elaborazione teorica abbondante e qualificata. Facciamo riferimento agli studi di Sen (fra l’altro premio Nobel per l’economia), di Nussbaum, Layard, Latouche, degli italiani Zamagni, Bruni, Becchetti, e alle teorie economiche che hanno assunto diversi nomi (teoria della decrescita, della felicità, dell’economia civile…) avendo peraltro come caratteristica comune quella di
rimettere la persona umana e i suoi effettivi bisogni al centro delle economia.
Fine di quest’ultima, secondo queste teoria, non è la massimizzazione dei profitti o dei guadagni (anche se il profitto o il guadagno rimangono parametri indispensabili di una sana gestione) bensì il
raggiungimento della felicità.
Per felicità si intende non lo stato di piacere momentaneo originato dal soddisfacimento di un bisogno immediato spesso indotto da cause esterne, ma quella forma di benessere duraturo, quella serenità che è originata dalla sensazione di sentirsi realizzati o comunque sulla strada della realizzazione personale anche nonostante i più o meno ardui problemi di ogni giorno.
Studi recenti (ma ormai vecchi di un decennio) hanno dimostrato che la felicità inizialmente cresce in funzione diretta alla crescita del reddito ma che, raggiunta una certa soglia (quella del reddito necessario per vivere una esistenza dignitosa), l’importanza dell’aumento del reddito diminuisce vistosamente mentre aumenta in maniera consistente l’importanza di avere relazioni personali positive e durature. Sembra pertanto che, ai fini del raggiungimento della felicità, l’importanza delle relazioni sia almeno pari, se non superiore, a quella delle risorse monetarie e patrimoniali.
Parafrasando quanto scritto da Kohn (“La fine della competizione” Castoldi editore) alla fine della vita non “vince chi muore più ricco”, bensì “vince chi muore con più amici”.
Ma come percorrere concretamente questa nuova strada?
Studiosi italiani di economia (L. Bruni, B. Gui, L. Becchetti, V. Pelligra) hanno individuato, nell’ambito dei beni (ovvero degli elementi materiali o immateriali in grado di soddisfare un bisogno), la categoria dei
beni relazionali, ovvero quelli in grado di soddisfare un bisogno partendo dalla instaurazione o dal consolidamento di una relazione personale (svolgere una attività in comune in sintonia con altre persone, lavorare in funzioni di assistenza a persone, divertirsi insieme ad altre persone, godere di beni comuni quali l’ambiente o l’acqua, gioire per il sorriso del proprio figlio o di un altro bimbo, avere fiducia negli altri…).
Superato il livello di reddito confacente con una vita dignitosa, più una persona usufruisce di beni relazionali più questa persona è felice.
Questa riflessione non è scevra di conseguenze a livello di stile di vita individuale. Darà più felicità l’acquisto dell’ultimo release del cellulare alla moda (obsoleto dopo 5-6 mesi…) o il consolidamento in amicizia di una conoscenza positiva e ”nutriente”? E’ più felice una persona dopo aver sgobbato per un’ora da solo su una macchina in palestra o dopo aver fatto un’ora di jogging (o una passeggiata) in un parco insieme ad amici? E’ più felice un giovane dopo essere andato a vedere una partita di calcio (magari più per insultare gli avversari che per vedere la partita) o dopo aver fatto un’ora di volontariato sociale?
Con queste riflessioni non si vuole negare l’importanza fondamentale di avere un lavoro e un reddito adeguato alle esigenze proprie e a quelle dei propri cari, si vuole solo sottolineare l’importanza di restituire la giusta importanza all’acquisizione e al consolidamento di una certa quantità di beni personali.
Ciò non è facile.
Cambiare lo stile di vita, andare controcorrente sfidando l’altri giudizio e talvolta anche l’ironia, sottrarsi alle insidie della moda, è estremamente faticoso e presuppone coraggio, ostinazione, costanza derivanti dall’aver gustato la felicità del vivere in modo diverso.
Occorrerà anche acquisire quelli che L. Bruni chiama i valori dell’economia del bene comune quali, ad esempio, le virtù, fuori moda, della sobrietà (ben differente dalla povertà) e della solidarietà.
E’ una vera rivoluzione che non interessa solo gli stili di vita singoli, ma la stessa politica economica di un Paese che dovrà essere ribilanciata sia sul piano della produzione che su quello del consumo di beni relazionali.
Occorre puntare a far crescere sia il reddito, il prodotto nazionale lordo e l'occupazione (da non dimenticare!!) sia il livello di felicità globale dei cittadini.
Maggiore attenzione alla conservazione dei beni comuni, sostegno alla società civile per lo svolgimento di attività di benessere personale, enfasi sui beni naturali, culturali e turistici, devono acquisire importanza nella politica economica e industriale almeno pari a quella sui prodotti di nicchia e di lusso.
Ciò comporterà anche un trasferimento di risorse dai consumi privati superflui a consumi pubblici per la sollecitazione di beni relazionali (es: costruzioni di nuovi teatri, parchi, incentivi ad attività culturali, turistiche, sportive ecc.).
Anche su questo fronte si tratterà di una via non semplice e soprattutto sarà necessaria una attuazione graduale. Resistenze da parte delle strutture finanziarie internazionale e dei loro rappresentati locali (lobby, poteri forti..) non mancheranno in quanto queste percepiranno il pericolo di perdere la loro posizione di predominio sulle scelte delle persone.
Occorrerà, anche da parte dei governanti fermezza, coraggio, uniti alla necessaria flessibilità e all’esigenza di avviare un processo graduale, confortati nella loro azione dalla consapevolezza di costruire un futuro migliore per la felicità dei loro concittadini.
Solo da una forte alleanza fra questi ultimi e i loro governanti sarà possibile uscire dalla tirannia dei mercati finanziari e riacquistare la propria autonomia di popolo indipendenti.
Questo vuole solo essere uno scritto volto a stimolare l’approfondimento di questi temi. Per chi voglia proseguire di seguito una breve bibliografia iniziale.
Bibliografia
Luigino Bruni: “Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni”, 2010 Città Nuova.
Luigino Bruni: “ : “L’economia, la felicità e gli altri. Un’indagine sui beni e benessere”, 2004 Città Nuova.
Martha Nussbaum: “Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL”, 2012 Mulino.
René Layard: “La nuova scienza del benessere comune”, 2005 Rizzoli.
Alfie Kohn: “La fine della competizione”, Castoldi 1998.
S. Zamagni: “L’economia del bene comune”, 2008 Città Nuova.
Serge Latouche: “La scommessa della decrescita”, 2009 Feltrinelli.
Amartya Sen: “Globalizzazione e libertà”, 2002 Mondadori.
Amartya Sen: “Etica ed economia” 2006 Laterza.
Vittorio Pelligra: “I paradossi della fiducia”, 2007 Il Mulino.
Stefano Zamagni – Luigino Bruni: “Dizionario di economia civile”, 2009 Città Nuova.
Edward Luttwak: “La dittatura del capitalismo”, Mondadori 1999.
Lorenzo Becchetti: "Oltre l'homo oeconomicus" Città Nuova 2005.
Lorenzo Becchetti: "Il denaro fa la felicità?, Laterza 2007.