Sul portone dell’Istituto scolastico romano da me frequentato in gioventù campeggiava il motto “Non scholae sed vitae discimur” ovvero, in una traduzione non letterale ma comunque fedele, “non studiamo soltanto per ottenere un diploma, ma per diventare persone e cittadini consapevoli, informati, attivi”.
Quel motto esprimeva in latino quelli che, a mio parere dovrebbero essere le due funzioni essenziali e imperiture di una scuola.
In primo luogo, dare informazioni valide e aggiornate per poter mettere gli studenti in condizioni di avere strumenti di conoscenza e di approfondimento della realtà, nonché per poter svolgere una attività lavorativa al servizio della propria famiglia e del bene comune.
Contemporaneamente, formare cittadini consapevoli dei propri doveri e diritti, fieri di far parte di una comunità locale e nazionale, abituati a concorrere con metodo democratico a determinare le scelte collettive.
La scuola si poneva essenzialmente come una comunità guidata dal preside e dai docenti in cui gli studenti venivano abituati, oltre che a studiare, ad avere rapporti positivi e civili fra di loro, nonché a rispettare le persone preposte alla loro formazione, fermo restando il rispetto dei loro diritti inalienabili di giovani persone umane.
La meritocrazia era l’unico metodo per verificare il profitto degli alunni, i migliori venivano promossi, quelli bisognosi di approfondimenti venivano rimandati a successivi esami, i meno meritevoli venivano bocciati.
In questo contesto, scuola e famiglia erano pienamente alleate nella formazione dei giovani.
Sembrava un modello perfetto ma conteneva, nella sua presunzione virtuale, un difetto essenziale, quello di ritenere tutti gli studenti pienamente uguali ai punti di partenza, a prescindere sia dalle capacità individuali sia dal contributo formativo e informativo che avrebbero potuto ricevere dalle famiglia di origine. In effetti ognuno di noi ha caratteristiche, peculiarità culturali, attitudini personali specifiche e può godere o meno di aiuti per il proprio studio in famiglia, sia in termini finanziari sia in termini più pratici di nozioni ricevute o per osmosi culturale o per impegno specifico di genitori e altri parenti.
Questa corretta obiezione ha eroso profondamente, negli anni ’70 e successivi, il principio della meritocrazia, arrivando a proporre strumenti specifici di sostegno agli studenti volenterosi ma meno capaci, ma anche pervenendo, al limite, ad abbassare i livelli di istruzione pur di ampliare il numero degli studenti promossi o diplomati (magari con l’attribuzione dei 6 o dei 18 politici).
A mio parere non esiste persona ragionevole che non possa accorgersi come, mentre sia giusta l’ipotesi di forme di sostegno ai meno capaci, sia socialmente devastante l’abbassamento del livelli di istruzione che porta, in prospettiva, ad una diminuzione della capacità professionale globale nazionale (sia dei lavoratori manuali e di quelli professionali, che delle figure manageriali e imprenditoriali, per non parlare di quelle intellettuali e politiche).
Ad una normativa legislativa che poneva forti limiti ad una meritocrazia spinta si è andata aggiungendo una visione della scuola come istituzione più o meno gerarchica, quella di una comunità cogestita in maniera praticamente paritaria da docenti, famiglie e studenti, in cui fra l’altro si andava sempre più allentando il controllo su un aumento dei costi (anche per iniziative futili) a scapito della necessaria oculatezza finanziaria.
I Consigli (di Istituto, di Classe), i Collegi (di docenti), le Assemblee, gradualmente, da sani strumenti di formazione alla partecipazione democratica, sono diventati sempre più strumenti per imporre un astratto e astruso egualitarismo giungendo, in alcuni casi, a scambiare la democrazia con l’anarchia.
D’altra parte la cultura dominante in Italia, dagli anni ’90 sino ad oggi, ha lentamente, ma progressivamente, enfatizzato l’importanza della astuzia e della capacità non “manageriale” ma “maneggiona” nel raggiungimento dei risultati, riportando in auge il pensiero machiavellico del fine che giustifica i mezzi. Fra i ragazzi ormai è maggioritario il pensiero di ritenere “figo” chi riesce ad essere promosso a conseguire il diploma studiando il meno possibile.
I modelli di successo e di guadagno proposti ai giovani (e ai loro genitori) sono i giocatori di successo, i vincitori di competizioni canore, le veline e le modelle, per finire con i vincitori di migliaia di euro ai giochi televisivi sulla base della fortuna e a prescindere completamente dalla cultura personale. In pratica tutti modelli di persone che pervengono ad un successo (prevalentemente finanziario) a prescindere dalla fatica dello studio e del lavoro.
Questa cultura, invadente la maggior parte della società italiana ha portato nella scuola ad una inedita alleanza tra famiglie e studenti nel ritenere sempre la classe docente come responsabile del cattivo profitto e della indisciplina degli alunni e nel considerare la promozione o il diploma come diritti inalienabili da conseguire.
Questo delle mancate bocciature è un altro cancro da denunciare.
Di fronte all’esigenza di limitare la spesa pubblica per l’istruzione si è instaurato un modello dove la scuola viene prefigurata soprattutto come una azienda laddove il vecchio Preside (il primo e più importante dei docenti) si è trasformato in un Dirigente scolastico, i docenti come suoi collaboratori e gli studenti (con le rispettive famiglie) come clienti. In tale modello, assimilabile a tutti quelli aziendali, il primato spetta chiaramente alla soddisfazione del clienti, in pratica garantendo agli studenti una sicura promozione (salvo casi veramente eccezionali).
La promozione è in pratica una garanzia anche di natura economica per la scuola in quanto le consente di avere una base sicura di studenti anche per l’anno successivo. Un eccessivo (??!!) uso di bocciature porta ad una diminuzione del numero di studenti, ad una conseguente diminuzione delle classi e al rischio di perdita di posto di lavoro per i docenti.
Chi scrive ha notizia di Dirigenti scolastici (i vecchi Presidi) che iniziano alcuni Consigli di classe (particolarmente turbolente in termini di disciplina e di profitto) ammonendo i docenti ad essere molto sobri nelle bocciature perché, in tal caso potrebbero trovarsi nella situazione di doversi trovare un altri posto di lavoro. Esecrabile, distruttivo, vergognoso, devastante sotto il punto di vista etico e culturale.
Forse non sarebbe sbagliato tornare al vecchio modello del “Non scholae sed vitae discimur” opportunamente aggiornato.
Sui seguenti punti andrebbe forse aperta una riflessione in chiave autocritica per evitare un ulteriore peggioramento di quella che è stata definita l’emergenza educativa:
- ripristino di una sana meritocrazia, temperata dall’impiego di adeguati (e se necessario, anche robusti) interventi di sostegno agli studenti volenterosi ma in difficoltà;
- restituzione ai docenti della necessaria autorevolezza nei confronti sia degli studenti che delle relative famiglie;
- instaurazione di un sistema di reclutamento docenti sulla base del reale fabbisogno del territorio a prescindere dal livello di bocciature e di promozioni;
- ripristino di una alleanza fra famiglia e scuola nel rispetto dell’autonomia dei rispettivi ambiti formativi;
- abbandono sia di una visione meramente aziendalistica della scuola che di quella antagonista di una istituzione autoreferenziali senza controllo sui costi;
- riscrittura dello “statuto degli studenti” accompagnando ai diritti anche l’elenco dei relativi doveri con le rispettive sanzioni.
- revisione dei momenti consiliari e assembleari per restituire loro una funzionalità democratica.
Sul tema in generale (affrontato in modo volutamente provocatorio) e sulla proposte formulate sarei lieto se si aprisse un confronto sul sito http://www.personaefuturo.it/2010/04/11/non-scholae-sed-vitae-discimur-non-per-la-scuola-ma-per-la-vita-studiamo.shtml
Cari saluti