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lunedì 28 dicembre 2009

Una nuova forma di unità politica dei cattolici?

Questo scritto vuole essere, più che una riflessione esauriente e compiuta (servirebbe ben altro spazio e altra mente!), uno spunto, una provocazione per altri interventi, commenti, integrazioni, critiche, che l’autore dichiara di gradire fin d’ora. La riflessione è pubblicata anche sul sito http://www.personaefuturo.it sul quale si prega di inserire gli interventi.

Sono convinto che questo tipo di scritti (brevi per quanto possibili ma argomentati) rappresenti oggi uno strumento efficace di comunicazione per la massa, più di ponderosi articoli e libri.

Una nuova forma per l’unità politica dei cattolici?

In ambito politico le scelte dei cattolici si ispirano al principio del legittimo pluralismo delle opzioni politiche, ferma restando la coerenza con i valori cristiani e con i dettami della Dottrina Sociale Cristiana[1].

Solo eccezionalmente si deroga a questo principio, allorché corrano pericoli la libertà della Chiesa cattolica e/o le libertà civili e religiose. Si perviene in tali casi ad invocare ed a praticare l’unità politica dei cattolici.

Questo è avvenuto in Italia, nello scorso secolo quando, nel secondo dopoguerra (anni 1946 e seguenti), i cattolici in Italia si riunirono nel neo fondato partito della Democrazia Cristiana per porre un argine al marxismo ateo, rappresentato in Italia dal più grande partito comunista dell’occidente. Si trattò di una scelta vitale in grado di salvare l’Italia dalla dittatura e di tutelare le libertà civili e religiose, scelta agevolata dalla formazione culturale alla politica dei giovani cattolici curata personalmente e incisivamente da Mons. Montini, futuro Paolo VI.

Non è un caso che la Democrazia Cristiana, già in declino negli anni ’70 e ’80, per molteplici motivi (non ultimo l’esaurimento graduale ma progressivo della spinta morale iniziale) andò in crisi velocemente a partire dal 1989 (anno della caduta del muro di Berlino e della sconfitta del comunismo) per poi scomparire come partito nei primi anni ’90.

Da allora i cattolici italiani non hanno avuto un grande partito di riferimento ma hanno differenziato le loro scelte lungo tutto l’arco parlamentare.

In pratica un ritorno al normale principio del pluralismo delle opzioni politiche. Contestualmente la Gerarchia cattolica ha assunto un peso maggiore, indicando ai fedeli laici i principi non negoziabili, ponendosi talvolta come interlocutore diretto delle istituzioni e dei partiti politici e suggerendo comportamenti concreti particolarmente nei casi di referendum interessanti ai temi bioetici.

Ci si chiede se non ci troviamo ora in una situazione analoga a quella degli anni ’50 dello scorso secolo e se non sia opportuno riconsiderare le scelte fatte e di ritenere di nuovo ragionevole e auspicabile l’unità politica dei cattolici in Italia.

Ciò potrebbe avvenire a due condizioni:

  1. la presenza di un pericolo mortale quale è stato il marxismo ateo concretizzatosi nel comunismo storico;
  2. l’attitudine e l’efficacia dell’unità politica come strumento per annullare tale pericolo.

Certamente quello che comunemente viene chiamato “relativismo etico”, e che altro non è se non l’ultima versione del nichilismo filosofico, rappresenta un pericolo non solo per il cristianesimo e le altre religioni, ma per tutta l’umanità.

Per relativismo etico si può intendere quella corrente di pensiero che nega non solo la raggiungibilità, bensì la stessa esistenza di una “verità” oggettiva, esterna agli uomini e in grado, una volta conseguita e praticata, di indirizzarlo verso il buono, il bello, il giusto.

Questa corrente culturale di pensiero, pur forse non maggioritaria nell’ambito della cultura occidentale, sta influenzando in maniera massiccia, grazie alla capacità di essere presente sui media, il comportamento concreto, la normale prassi della maggioranza delle persone, non solo in occidente, ma anche in altre parti del mondo (e forse è la con-causa anche di alcune reazioni fondamentalistiche e integralistiche da parte di alcuni settori religiosi).

Il relativismo etico, affermando l’inesistenza di una verità oggettiva come parametro di giustizia per la bontà, la bellezza, la giustizia dei comportamenti singoli o collettivi, porta a considerare la verità un concetto su misura del pensiero o dell’interesse del singolo individuo o del gruppo che agisce, con il solo limite del presunto pensiero o interesse altrui in conflitto. Il problema successivo della composizione di tali conflitti viene risolto in vari (opinabili) modi, fermo restando che, in assenza di parametri assoluti di riferimento (verità), le singole soluzioni sono considerate storicamente contingenti e soggette a mutamenti.

Nella prospettiva del relativismo etico sarebbero difficilmente condannabili anche i genocidi criminali commessi in tempo di guerra qualora supportati dalla maggioranza. Quale potrebbe essere infatti il criterio oggettivo di verità per condannarli? Il rispetto della dignità della persona umana? Ma se lo si ammettesse come verità oggettiva, si verrebbe a erodere le fondamenta stesse del relativismo etico.

In effetti la concretezza della realtà ha fatto emergere che, al di là delle speculazioni teoriche, la “verità” insita in tale visione della vita è la massimizzazione dell’interesse e dell’utile individuale o nazionale, trasformata, a livello economico-finanziario, nella massimizzazione del profitto.

Se tale è la situazione non si può non ragionevolmente vedere come il relativismo etico rappresenti un nemico mortale non solo per il cristianesimo e le altre religioni (in quanto negatore della verità oggettiva) ma anche del progresso umano (in quanto espressione di una libertà individualistica, slegata da ogni riferimento al bene comune, e intrinsecamente foriera di una mentalità e di una pratica conflittuale).

Si capisce come, sotto questo aspetto, abbia abbondanti motivi di ragione la ferma battaglia culturale che sta conducendo la Chiesa cattolica (particolarmente sotto i due ultimi Pontefici) per ribadire l’esistenza e l’accessibilità, tramite la retta ragione umana, di una Verità che coincide, per chi crede, con il Figlio di un Dio, fattosi uomo per amore dell’umanità.

Si può, a questo punto, condividere il giudizio che il relativismo etico costituisca un pericolo mortale forse ben peggiore di quanto il comunismo abbia rappresentato nello scorso secolo.

Ma a livello politico è corretto dire che l’unità dei cattolici italiani in un solo partito sia la soluzione più giusta, adeguata ed efficace per combattere tale pericolo?

Il marxismo materialistico ateo si è concretamente realizzato nel XX secolo a partire dall’esperienza della rivoluzione sovietica e successivamente sviluppato e radicato in altre Nazioni a partire da quelle europee.

In Italia tale realizzazione ha avuto concretezza nella presenza del Partito Comunista più forte dell’intera Europa occidentale. Sarebbe interessante interrogarsi sul perché questo sia accaduto ma l’indagine esula dai confini molto brevi di questa riflessione.

In Italia si è quindi pervenuti ad una contrapposizione frontale, culturale e ideologica, fra la Chiesa cattolica e il marxismo materialistico, alla quale si è affiancata, sul piano politico, la contrapposizione fra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista.

La presenza di un partito di ispirazione cristiana, ma rivendicante la sua piena laicità, come la DC e operante prevalentemente in posizione centrale rispetto agli estremismi di sinistra e a quelli neo-fascisti di destra, ha sortito due effetti largamente positivi.

Innanzitutto ha permesso alla Chiesa cattolica di mantenere una posizione di adeguata distanza dall’agone politico (anche se no sempre...) e di potersi dedicare alla sua missione evangelizzatrice e pastorale con maggiore libertà e godendo di un ampio rispetto da parte della maggioranza degli italiani.

In secondo luogo, tramite l’azione avveduta di politici di grande spessore, presenti sia nella DC che nel PCI (nonché nei partiti loro alleati), si è riusciti ad evitare che lo scontro ideologico e politico sfociasse in quello fisico, confinandolo sempre nell’alveo della normale dialettica politica (e anzi, nei momenti in cui alcune frange estremistiche hanno provato a forzare la situazione, si è rivelata una ampia convergenza politica fra i due blocchi parlamentari contrapposti).

L’unità politica dei cattolici si è dunque rivelata, in tale situazione storica italiana, uno strumento adeguato per difendere sia la libertà della Chiesa che il contestuale sviluppo di una vera democrazia.

Ma è il pericolo rappresentato dal relativismo etico assimilabile, storicamente e in Italia, a quello del marxismo materialistico?

Mentre il marxismo materialistico aveva un preciso punto di riferimento storico, geografico e politico nella Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (storicamente rappresentate con la parola “Mosca”) e, in Italia, nel Partito Comunista Italiano, ciò non è assolutamente vero per il relativismo etico.

Esso ha certamente le sue radici filosofiche nel nichilismo e nel positivismo, è sicuramente figlio della necessità di un pensiero debole comune in grado di facilitare lo sviluppo del modello economico turbo capitalistico di stampo anglosassone, e ha sicuramente la sua massima espressione nel Nord del mondo (basta pensare alle caratteristiche delle società canadese, statunitense e scandinave).

E’ però talmente esteso a livello mondiale che non è possibile individuare un centro geografico propulsore né tantomeno partiti che ne rappresentino l’espressione politica. Anzi si potrebbe azzardare (ma mica tanto) che gode di una presenza politica trasversale sia in ambito conservatore che riformistico.

Nel contesto di questa nuova situazione, forse non avrebbe senso la realizzazione, in Italia, di un partito politico di ispirazione cristiana, che si troverebbe ad affrontare politicamente un problema di natura prevalentemente sociale e culturale, correndo fra l’altro alcuni gravi rischi.

In primo luogo quello dare all’esterno l’immagine di un cattolicesimo italiano sulla difensiva, trincerato dentro una fortezza inespugnabile;

Inoltre la chiusura in un unico soggetto partitico potrebbe offrire un maggior spazio alle correnti più integralistiche e conservatrici, illanguidendo la ricchezza di pensiero politico presente nelle varie correnti culturali italiane di matrice cristiana.

Infine questo arroccamento politico potrebbe causare un atteggiamento di maggior chiusura da parte delle componenti laiche della società civile propense ad un dialogo costruttivo con quelle cattoliche nella prospettiva del bene comune e dell’interesse nazionale.

Sembrerebbe pertanto veramente inutile o eccessivamente rischioso affrontare tali pericoli costituendo un soggetto politico parlamentare unico cattolico in assenza (come invece era nel caso del Partito Comunista Italiano) di un partito contrapposto.

Ma allora è migliore la situazione attuale, con i politici di matrice cattolica sparsi un tutti i partiti presenti nel Parlamento (e fuori) e dove l’unico partito che si richiama espressamente alla matrice cristiana non viene come tale pienamente percepito a causa di rilievi di natura etica e di accuse di mero opportunismo politico?

Quale è oggi l’incidenza reale dei principi della Dottrina sociale cristiana nella realizzazione concreta dei programmi politici dei partiti italiani?

Si riesce, a livello parlamentare, nella attuale configurazione della presenza dei cattolici, a opporre una valido argine alle proposte (non solo nel campo della bioetica, ma anche in quello economico finanziario) di matrice “relativistica”?

La risposta a queste domande è sicura e malinconicamente negativa.

Eppure si sente la necessità, anche in ambito politico, di un metodo e di uno strumento in grado di coordinare le azioni politiche dei fedeli laici presenti nelle istituzioni repubblicane, in modo di incrementarne l’efficacia sia in termini di proposte progettuali condivise che di opposizione a proposte alternative inaccettabili.

Se non è utile e opportuno ricorrere ad un nuovo partito unico dei cattolici né rimanere passivamente nella situazione attuale, la soluzione potrebbe essere ricercata altrove, magari in ambito extra-parlamentare, riflettendo che l’unità politica dei cattolici è concetto diverso dall’unità partitica con la quale spesso è stata confusa.

Perché invece non attivare un luogo, uno strumento (che potremmo definire un “tavolo”), ufficiale (ma non clericale), strutturato (ma non burocratico), nel quale i politici cattolici possano serenamente e con spirito comunitario confrontarsi?

Un tavolo a livello nazionale (con la possibilità di sezioni territoriali) ma anche europeo, tenendo conto dell’importanza che ormai rivestono le norme comunitarie nella produzione legislativa con vigenza dei territori delle singole nazioni.

Un tavolo dove nessuno debba dover rinunciare preventivamente alle proprie appartenenze politiche, dove l’amore reciproco (vero e unico carattere distintivo dei cristiani) sia la base per il (ancora una volta) reciproco rispetto della legittimità delle altrui opinioni politiche e il fondamento di una ricerca serena e costruttiva di soluzioni, il più possibile condivise, dirette al conseguimento del bene comune.

Un tavolo che non sia solo politico ma, prima e soprattutto, ecclesiale caratterizzato da un preciso stile dello stare insieme e dalla comunanza della ispirazione ai principi della Dottrina Sociale Cristiana.

Un tavolo dove non manchi la presenza di Pastori, con la precisa funzione di essere animatori di spirito comunitario e “purificatori” della capacità di ragionare, ma il cui coordinamento sia affidato a fedeli laici e le cui decisioni non compromettano l’autonomia della Chiesa.

Un tavolo da costruire subito, tutti insieme, con la consapevolezza di essere comunque “servi inutili”.

Roma 26 dicembre 2009

Giuseppe Sbardella



[1] “Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa”, nn. 573,574; - Paolo VI “Octogesima adveniens”, n. 50; – Concilio Vaticano II “Gaudium et spes” n. 43 b) e c); – Costante insegnamento della CEI (Documenti finali e interventi dei Papi ai Convegni di Loreto e Palermo).

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