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mercoledì 6 aprile 2016

La rivoluzione della velocità

Spesso mi trovo a riflettere su una considerazione espressa da Sergio Zavoli nel suo libro “C’era una volta la prima Repubblica” pubblicato nel 1999 e che, pressappoco, suonava così: “la rivoluzione non è più il cambiamento, ma la velocità con cui questo avviene”.
Zavoli non faceva altro che vedere la realtà che si era andata sviluppando in quell’ultimo decennio dello scorso secolo. La sempre maggiore diffusione degli strumenti informatici (in primo luogo i computer portatili di grande potenza), la modernizzazione e l’accelerazione dei mezzi di trasporto (aerei e treni superveloci), l’avvento e la veloce diffusione di Internet hanno causato un aumento della velocità delle nostre decisioni e dei nostri comportamenti.
Oggi i computer compiono in nanosecondi operazioni che 20 anni fa costavano minuti di calcolo, il web ci scarica addosso miriadi di informazioni che il più delle volte rischiano di sommergerci, il nostro cervello per far fronte a questa invasione di dati è costretto ad accelerare la propria velocità di elaborazione e a comandare al corpo immediati e rapidi comportamenti conseguenti.
Non è un caso che molti ragazzi soffrano oggi di iperattivismo e comunque non appaiano in grado di dedicare il tempo necessario per considerare esaurientemente un tema complesso. Ricevono così tanti input in brevi periodi di tempo che sono costretti a scelte rapide ma soprattutto approssimative, spesso dettate solo dall’emotività.
Scrive bene Bauman nella sua teorizzazione della “società liquida” che i tempi del cambiamento sono ormai così veloci che spesso, nel momento in cui riusciamo a cogliere l’essenza di un cambiamento, questo è già superato.
L’unica soluzione sembra essere quella di accelerare, rischiando di perdere alcuni elementi indispensabili per una corretta valutazione di un fatto, o di limitarsi a vivere il momento presente assumendo decisioni che non tengono conto del passato e che si limitano ad una prospettiva di breve periodo.
Le persone e i Paesi che non cambiano il modo di vivere, accettando questa accelerazione, si trovano ben presto a correre il rischio di essere emarginati.
Certo occorre, d’altra parte, prendere atto che questa rivoluzione della velocità si è rivelata essere uno dei fattori di sviluppo del mondo attuale.
L’utilizzo dei computer è servito per alleviare il lavoro meccanico di tante persone e per migliorare la qualità della vita (basti pensare ai progressi resi possibili nell’ambito della medicina).
La sempre più ampia possibilità di effettuare veloci viaggi virtuali sul web, o viaggi fisici sui mezzi di trasporto ad alta velocità, quella di poter avviare comunicazioni immediate e a basso costo con persone di Paesi lontani, non ultima quella di avere informazioni in diretta sui fatti che si verificano o sui movimenti di opinione che si stanno sviluppando in tutto il mondo, hanno reso quest’ultimo simile ad un villaggio in cui la vicinanza (seppur solo virtuale) è la regola.
Il formidabile vantaggio di questa vicinanza globale deriva dallo scambio di esperienze, di informazioni e di know-how che permette a tutti di poter crescere nelle proprie capacità personali e professionali (quello che A. Sen, Nobel dell’economia chiama “functionning”), di potersi confrontare, di scegliere le soluzioni più vantaggiose per se stessi, per la propria comunità, per il proprio Paese.
Non si possono d’altra parte, sottovalutare i grossi rischi che il mondo sta correndo inseguendo di corsa questa rivoluzione.
Abbiamo già accennato prima alla grande difficoltà che hanno i ragazzi nella possibilità di elaborare esaurientemente e con frutto tutte le informazioni dalle quali sono investiti. Sono il più delle volte costretti a fare delle scelte, non sulla base di criteri di valore o di reale importanza, bensì sulla base della maggiore emozione che una informazione suscita nella propria struttura psicologica. Le decisioni sono prese sulla base dell’emotività e in una prospettiva di breve periodo, perché non si ha il tempo per una riflessione ponderata e di maggior durata (il rischio è che, mentre si spende tempo per la riflessione, un problema cambi profondamente di consistenza rendendo inutile il tempo speso per rifletterci meglio).
Non è detto che la situazione cambi profondamente nel mondo degli adulti. La necessità di prendere decisioni veloci costringe spesso a valutazioni non approfondite e approssimative basate su assunzioni di rischio (potenzialmente errate) e sul presupposto (che il più delle volte si rivela impossibile da realizzarsi) di approfondimenti in un secondo tempo. Anche in questo caso la prospettiva non può essere che di breve periodo, sulla base del bene immediato di chi prende le decisioni, in assenza di una adeguata valutazione delle conseguenze nel medio e lungo periodo che, invece avrebbero potuto suggerire una ben diversa decisione. L’ interesse personale o di una piccola collettività nel breve periodo viene privilegiato rispetto al bene comune in un periodo più lungo, il cui raggiungimento avrebbe potuto meglio beneficiare la persona o la piccola collettività che invece ha deciso diversamente.
Le conseguenze della rivoluzione della velocità possono essere poi disastrose per gli anziani, nei quali la necessità di una maggiore lentezza nei comportamenti è conseguenza diretta del maggior numero di anni sulle spalle. Inoltre una inevitabile e progressiva diminuzione della flessibilità cerebrale li porta ad affrontare con sempre maggiore difficoltà il cambiamento, incluso quello per attività che ormai stanno divenendo praticamente indispensabili quali l’accesso ad internet o l’utilizzo di strumenti ICT sempre più complessi (basta pensare alle difficoltà incontrate dai nostri genitori o nonni nel passaggio alla TV digitale o a quelle che incontrano quotidianamente nei rapporti con istituti bancari dai servizi sempre più automatizzati). Si rischia concretamente di arrivare ad una piena emarginazione e ad un completo isolamento degli anziani.
Va anche approfondito il rapporto fra istituzioni, finanza ed economia, alla luce della rivoluzione della velocità.
La competizione crescente, non solo fra le singole persone, ma anche fra i Paesi, costringe questi ultimi a dotarsi di sistemi istituzionali più rivolti a favorire la rapidità decisionale rispetto alle esigenze di partecipazione popolare. L’emergere di sistemi di potere “personalistici”, il successo economico di regimi a base totalitaria, il ricorso a Governi di tipo “tecnico” parzialmente svincolati dal controllo parlamentare, possono essere visti come la conseguenza a livello istituzionale della rivoluzione della velocità.
Ma anche a livello aziendale le scelte economiche vanno assunte velocemente e spesso sulla base di informazioni sommarie e approssimative. Questo può comportare, nelle aziende, la trasformazione dei dipendenti da collaboratori a meri esecutori di operazioni dettagliatamente programmate (l’importante diventa non capire cosa si fa o perché la si fa, ma farla in maniera conforme a quanto previsto). Anche nelle aziende, come nei casi prima indicati, la prospettiva non può non essere che di breve periodo. Nell’impossibilità di spendere tempo per valutare tutti gli aspetti del problema e le possibili conseguenze delle decisioni, ci si sofferma su quelli più evidenti e immediati, trascurando altri forse più importanti ma che non impattano il breve periodo (conseguenze sull’ambiente, sulla qualità della vita, sulle relazioni con e tra le persone, dipendenti o meno).
C’è un ulteriore aspetto da considerare.
La velocità nella elaborazione delle informazioni e nella esecuzione di comportamenti è certamente necessaria allorché si è investiti da un numero considerevoli di dati in periodi di tempo spesso minimi.
Ma, in un mondo dove la competizione fra nazioni, aziende, persone, rappresenta l’elemento discriminante, per poter emergere (e talvolta anche solo per sopravvivere) non è necessario solo essere veloci, ma anche saper andare più veloce dell’altro.
Potremmo oggi riformulare la frase di Zavoli “la rivoluzione non è il cambiamento, ma la velocità con cui questo avviene” in “la rivoluzione non è più la velocità del cambiamento, ma l’accelerazione continua di questa velocità”.
Cosa vuol dire tutto questo? Cosa significa per le persone essere costrette ad accelerare sempre più, a spingere sempre al massimo il motore del proprio cervello, dei propri arti?
Come si coniuga questa accelerazione con l’aumento, nel mondo, dei suicidi, di fatti criminali apparentemente inspiegabili, l’incremento di malattie nervose quali depressioni, stress ecc.
Come reagisce la parte spirituale, morale, sentimentale di noi, a queste accelerazioni, alla impossibilità di fermarsi a riflettere, a contemplare, ad amare?
Non si tratta di denigrare il mondo moderno, gli strumenti della tecnica, in particolare quelli della più moderna tecnologia, non si tratta di auspicare un impossibile ritorno indietro, ma certo occorre dare una risposta costruttiva (e forse anche creativa) alle domande appena più sopra formulate.
Ne va della nostra capacità di saper costruire una società in cui la persona umana sia ancora al centro.  

sabato 26 marzo 2016

A domani

Sabato Santo, tutto sembra finito, non si vede nulla all'orizzonte, sembra il trionfo del nichilismo.
Diceva il Cardinal C. M. Martini che l'epoca attuale gli ricordava il Sabato Santo, nessuna prospettiva concreta, nessun segnale nuovo all'orizzonte, solo la Speranza.
Ma domani sarà .... PASQUA!!!! Un evento inatteso (anche se predetto) che cambia tutto.
E allora aspettiamo anche noi la Pasqua per la nostra epoca attuale, lavorando affinché si verifichi presto.
A domani!!!!

mercoledì 23 marzo 2016

A chi faccio del male?

Chissà se qualche volta vi è capitato di chiedere a chi butta della cartaccia per terra (magari laddove è presente un cestino ad una decina di metri di distanza) o a chi sale sull’autobus dalla porta vietata (anche se il mezzo è semivuoto) o a chi parcheggia in duratura seconda fila (anche se c’è un posto libero venti metri più davanti): “perché lo fai?”.
La risposta esplicita è sempre la stessa: “ma a te che interessa, mica ti sto facendo del male, a chi sto facendo del male?”, la risposta implicita e inespressa è: “ma quanto rompi….”
Questo atteggiamento apparentemente così semplice e insignificante denota una profonda convinzione culturale e una chiara visione della società, una società nella quale sono presenti un insieme di interessi individuali tra loro confliggenti senza che sia presente anche un interesse collettivo a loro sovraordinato.
Questa concezione culturale e questa visione sociale prevedono che affinché una azione venga considerata quantomeno inopportuna ci deve essere un individuo fisicamente presente un cui interesse visibile deve essere danneggiato dall’azione che si sta per compiere.
Nel caso di una carta gettata per terra, di una salita sbagliata sull’autobus, di un parcheggio in seconda fila, il più delle volte l’individuo non c’è e pertanto l’azione è considerata pienamente legittima.

Se poi si cerca di spiegare al vostro interlocutore che sta ledendo l’interesse di tutti (ovvero collettivo) ad un ambiente pulito, ad un più rapido afflusso e deflusso su gli autobus, ad una circolazione automobilistica più scorrevole, vi guarderà sconcertato e, spesso, vi renderete conto che state usando la categoria mentale dell’interesse collettivo perfettamente incomprensibile da chi vi sta ascoltando.
Non vi azzardate poi a spiegare che l’interesse collettivo non è la somma totale degli interessi individuali, ma l’interesse della collettività come agente autonomo e che, quasi sempre, la soddisfazione dell’interesse collettivo permette, nel medio termine, di realizzare anche i singoli interessi individuali meglio di come sarebbero realizzati tramite una azione illegittima nel breve termine. Vi guarderà come se veniste da Marte pensando “questo non solo è un rompiscatole, ma chissà da dove viene?

Il problema diventa più grande quando questo atteggiamento si applica anche a fenomeni più complessi quale, ad esempio il pagamento delle tasse: “se evado le tasse a chi faccio del male? Quale interesse di una persona fisicamente presente ledo?”.
Ma lo stesso ragionamento si applica tutte le volte che il cittadino deve rispettare delle regole di comportamento stabilite “a chi faccio del male se riesco ad evitare una fila?” e così via.

Ma perché è così difficile spiegare che esiste un interesse collettivo (non parliamo per carità di bene comune che è un concetto ancora più difficile) sovraordinato ai singoli interesse individuali la cui realizzazione è conveniente per tutti nel medio termine?
La discussione è aperta ma una idea può essere proposta.
Ci troviamo in un contesto globale in cui gli imput culturali del “qui ed ora” e dell’ “usa e getta” sono spinti da una industria che ha sempre più bisogno di consumatori pronti a stufarsi dei prodotti comprati e ad acquistarne di nuovi, e da forze finanziarie che hanno bisogno di massimizzare il profitto delle loro operazioni nel più breve tempo possibile investendo e disinvestendo rapidamente su prodotti o su monete, a prescindere completamente dalle conseguenze che tali operazioni avranno sul destino delle singole persone.
Questi soggetti industriali e finanziari devono assolutamente evitare che gli individui possano porsi il problema delle conseguenze di una loro azione per se stessi e per gli altri in un periodo appena più lungo di quello sul quale sono abituati (spinti….) ad agire. Ciò causerebbe un ritardo e un intralcio incompatibile con il buon funzionamento di questo modello di sviluppo economico.
Forse se ne esce solo se gli individui riscopriranno la loro dignità di persone, ovvero di essere umani pensanti e ontologicamente connessi gli uni agli altri.

Mi fermo qui perché mi pare di aver messo già molta carne al fuoco, mi aspetto interventi per poter riprendere il confronto.

sabato 16 gennaio 2016

Non scholae sed vitae discimus

Ho riflettuto a lungo sui tre 30 e lode presi negli esami di questo mio ritorno universitario (Storia moderna, Sociologia, Storia delle dottrine politiche).
A parte l'indubbia benevolenza dei docenti verso uno studente "diversamente giovane" e il mio impegno personale nello studio dei libri di testa (peraltro con grossi limiti di memoria) penso che il motivo del successo sia dovuto altro.
Dopo la laurea in Giurisprudenza (conseguita nel marzo 1971), sono stato borsista di Diritto parlamentare a Scienze politiche a Firenze nell'anno accademico 1972 e 1973 e successivamente, dal 1974 al 1978, impiegato IBM a Milano.
In quel periodo (i miei 20 anni!!) avevo molto tempo libero e ho letto molto sia frequentando la biblioteca di Facoltà (il mitico Istituto C. Alfieri di Firenze), sia utilizzando parte dei risparmi della borsa di studio e, poi, dello stipendio per acquistare (e leggere!) libri sulle materie che mi interessavano (politologia, storia, economia, sociologia).
Questi libri e questi autori (Sartori, Salvemini, Friedman, Samuelson, Mosca,
Salvatorelli, Chabod, Fisichella, Montesquieu, Constant, Rousseau, De Felice, Scoppola, Mounier, Maritain.....) sono tuttora presenti nella mia biblioteca e, soprattutto, le loro linee portanti sono tuttora fisse nella mia mente...
Ed ecco allora l'invito ai miei amici più giovani. Non limitatevi allo studio dei libri di testo, coltivate i vostri interessi culturali, navigate su Internet (io non potevo farlo, voi si...) e approfondite e ampliate quello che apprendete a lezione o sui libri di testo.
L'importante non è solo superare bene l'esame quanto ampliare la vostra mente e la capacità di pensiero e di pensiero autonomo.
Come dicevano i latini "non scholae sed vitae discimus" (non per la scuola ma per la vita studiamo).

venerdì 4 dicembre 2015

Fiducia o catena?



Ci sono alcuni “segni” che sono da considerare come dei simboli significativi che richiamano direttamente delle realtà. Seguire la storia dei segni equivale a raccontare la storia delle realtà sottostanti.
Illuminante può essere l’esempio degli anelli nuziali (altrimenti dette “vere”).
Per anni l’ambiente nel quale trascorrevo la maggior parte del mio tempo è stato l’azienda presso  la quale lavoravo,  una grande azienda multinazionale con migliaia di dipendenti diversi per età, per origine, per cultura, un microcosmo sì ma in grado di dare una rappresentazione abbastanza fedele, quasi fotografica, della realtà sociale.
Per anni è stato normale vedere le vere al dito anulare dei dipendenti, ben grosse quelle dei dirigenti e della persone comunque agiate, un po’ più piccole per gli altri. Comunque la vera era portata dalla grande maggioranza dei dipendenti.
In questo atteggiamento giocava la sua parte anche una certa sorta di conformismo. L’azienda, di origine americana, era nota anche per una certo puritanesimo che faceva vedere di malocchio le coppie non formalmente sposate. Ricordo la rabbia di una nostra collega (e il nostro sconcerto) per non essere stata invitata, lei convivente da anni di un dirigente, ad un ricevimento formale al quale tutte le mogli erano state invitate.

Con il passar del tempo (diciamo da metà degli anni ’80 dello scorso secolo) ho notato un calo progressivo, prima lento poi sempre più accelerato, delle vere presenti sui diti dei miei colleghi.
Quando lasciai l’azienda, nel 2005, la grande maggioranza dei dipendenti, sia che fossero sposati o conviventi, non portava più la vera.
Negli anni successivi il mio ambiente di riferimento, da pensionato e studioso, è cambiato ma è rimasta intatta la mia voglia di osservazione e ho notato che il calo dell’uso della vera è stato costante. Basta fare un esercizio, salite una volta su un bus pubblico o su una metropolitana, constaterete che ormai solo un 10% dei passeggeri porta l’anello nuziale.

Ma quale è il senso profondo del segno della vera?
Non è senza  significato la circostanza che questo segno sia chiamato oltre che vera o anello nuziale, anche “fede”.
Fede richiama fiducia e forse proprio la fiducia è il significato, profondo, sostanziale, connaturato all’anello nuziale.
Fiducia in un altro che si è scelto come compagno di viaggio.
Fiducia che è un rischio perché una persona non è una cosa quantificabile, non è un oggetto, è un soggetto che può avere idee e comportamenti molto diversi dai nostri.
Fiducia che vuol dire capacità di osare verso questa persona, ricominciando ogni giorno nonostante difficoltà e problemi.
Fiducia che vuol dire uscire da noi stessi, dalle nostre sicurezze, dalle nostre idee, per andare verso un altro, per affrontare con questa persona un viaggio completamente diverso (e forse meno sicuro) da quello che avremmo fatto da soli.
Fiducia che ci mette in discussione ma che ci fa anche crescere perché ci fa camminare con un altro che per noi non sarà mai pienamente comprensibile ma invece sempre nuovo, una persona non raggiungibile con la sola ragione ma che necessita di quel sentimento sublime che è l’amore.
Possiamo dire ch la fiducia è un elemento essenziale affinché un essere umano possa essere definito “persona”.
L’anello nuziale richiama essenzialmente la scelta fondamentale e fiduciosa  di una persona di condividere pienamente la propria esistenza con un’altra, ricominciando da capo ogni giorno, nella prospettiva che questa unione sia anche in grado di garantire il futuro della società attraverso strumenti quali la procreazione (naturale ovvero artificiale) e la adozione.
Ma è anche possibile un’altra interpretazione dell’anello nuziale.
La vera può anche essere vista come l’ anello di una catena, ovvero il simbolo di un legame formale tra persone e segno ufficiale di un reciproco patto di convivenza, un vero e proprio contratto sottostante.
Appare di tutta evidenza il minor respiro vitale di questa visione che si basa non sulla fiducia ma sulla logica contrattuale e che vede nella fede non l’espressione di un amore verso un’altra persona ma solo il segno di un legame, seppur volontario.

Sembra anche chiaro come la prima concezione sia connaturale ad una società basata su una cultura che si potrebbe definire personalistica, dove vige la convinzione che non ci sia crescita personale se non nell’ambito di una apertura verso l’altro e verso una crescita globale della società, e dove è diffusa l’opinione che l’interesse individuale non possa essere perseguito se non attraverso la ricerca contemporanea del bene comune.
Non è allora un caso se, dagli anni ’80 dello scorso secolo ad oggi, l’uso della vera ha subito questo vero e proprio tracollo.
La cultura maggioritaria corrente è una cultura di matrice prettamente individualistica, nella quale il diritto e l’interesse del singolo vengono vissuti come elementi principali e inviolabili anche di fronte alle esigenze del bene comune.
E’ una cultura che misconosce l’aspetto della fiducia, del dono, della gratuità (se non in ambiti molto ristretti) e che si basa sulla logica contrattuale del do ut des.
L’anello nuziale non viene più visto come segno di una fiducia nell’altro (e negli altri….) ma solo come legame che comprime i nostri interessi individuali. L’unione fra due persone non viene più vista come un rapporto normalmente a tempo indeterminato, in quanto basato sulla fiducia e sulla voglia di reiniziare ogni giorno,  ma piuttosto come una relazione che è conveniente per entrambi in quanto realizzatrice di interessi sentimentali, fisici e magari patrimoniali. Come tale questa relazione dura finché questi interessi vengono soddisfatti e può tranquillamente terminare quando si ritiene che un’altra persona possa soddisfarli meglio.
In questa ultima ottica la vera è vista proprio come l’anello di una catena e appare chiaro che a nessuno venga la voglia di portarlo.

Ma può un sistema sociale vivere e svilupparsi solo basandosi sull’idea dello scambio contrattuale e misconoscendo o lasciando in secondo piano tutto ciò che richiama gli elementi della fiducia, del dono, della gratuità?
Sono sempre di più gli economisti e i sociologi che ritengono la fiducia come uno essenziale virtù sociale.
In Italia possiamo ricordare Stefano Zamagni, Lorenzo Becchetti, Luigino Bruni ma soprattutto gli studi che a questo aspetto ha dedicato Vittorio Pelligra (“I paradossi della fiducia”, Mulino 2007).
Ma anche oltre oceano possiamo citare l’opera di un grande studioso che già nel 2006 sottolineava l’importanza della fiducia per lo sviluppo coerente e integrale della società (F. Fukuyama “Fiducia. Come le virtù sociali contribuiscono alla creazione della prosperità” Rizzoli 1996).
Chi volesse approfondire l’argomento, appena accennato in questo scritto può ben leggere gli autori citati.

domenica 8 novembre 2015

Appunti per una biografia...




Degli amici, alcuni dell'infanzia poi ritrovati negli ultimi anni, altri appena conosciuti, mi chiedono notizie della mia vita fino ad oggi.
Cerco di accontentarli.
Nasco a Roma nell'agosto del 1948.
Conseguo nel 1966 la maturità classica, con un anno di anticipo avendo saltato la II elementare e con la votazione di 7/10 (senza mai essere stato bocciato né rimandato).
Nell'anno accademico 1966/67 mi iscrivo a Giurisprudenza (Università La Sapienza) e mi laureo nell'anno accademico 1969/70 con tesi in Diritto penale e votazione 110/110.
Negli anni 1972 e 1973 Vinco una borsa di studio in Diritto parlamentare a alla Facoltà "Cesare Alfieri di Scienze politiche a Firenze (trasferendomi per 9 mesi in questa meravigliosa città).
Nel frattempo frequento il Centro Fides dei Salesiani di Roma e svolgo pratica legale e notarile.
Nel 1974 vengo abilitato come Procuratore legale all'esercizio della professione forense.
Sempre nel 1974 vengo assunto a Milano (dove passo 4 splendidi e irripetibili anni) in IBM Italia e vivo presso il Pensionato universitario S. Filippo Neri (da lì belle amicizie che tuttora permangono).
Dal 1974 al 2005 lavoro in IBM Italia, a Milano e poi a Roma presso i servizi amministrativi e poi legal-contrattuali di questa azienda, come impiegato quindi come quadro e infine, dal 2001, dirigente.
Il 1978 è l'anno del primo dei 5 viaggi in Terrasanta che hanno segnato la mia vita e nel corso del viaggio conosco Padre Ugo Vanni SJ, per decenni mio Direttore Spirituale.
Nel 1982 divento membro laico ("volontario") del Movimento dei Focolari, anche se rimango fortemente legato all'Azione Cattolica e al pensiero spirituale e culturale di Giuseppe Lazzati.
Dal 1983 al 1986 presiedo il Consiglio Pastorale della Parrocchia del Sacro Cuore a Roma e, con il sostegno dell'allora Parroco, organizzo diverse iniziative per la riqualificazione del territorio intorno alla Parrocchia.
Nel 1993 fondo con alcuni amici Riscatto democratico, circolo politico legato al Patto di Mario Segni.
Nel 2001 divento Dirigente di azienda in IBM
Nel 2002 mi sposo con la mia dolce moglie Patrizia, iniziando un bello e felice rapporto coniugale. 
Nel  luglio 2005 "esodo" dall'IBM e dal gennaio 2006 sono in pensione.
Nel 2007 conseguo il titolo di Avvocato e i diplomi di Mediatore familiare (dopo un master biennale post universitario) e Conciliatore commerciale.
Sempre nel 2007 fondo con alcuni amici mediatori l'AICOM (Associazione Italiana Conciliatori e Mediatori) e divento docente di Mediazione familiare e Mediazione in generale.
Ancora nel 2007 (annus felix) con amici e conoscenti fondo Persona è futuro, laboratorio politico culturale ispirato al personalismo di Mounier e Maritain.
Nel 2008 viene pubblicato il mio libro "Controcorrente - la mia storia di cristiano e di manager" (Edizione Città Nuova) ispirato al lavoro nelle aziende multinazionali.
Nel 2012 accetto la candidatura nella lista alla Camera di Scelta civica con Monti per l'Italia, ponendo come condizioni l'inserimento negli ultimi posti della lista e l'assenza nella stessa di persone dalla condotta etica non macchiata.
Nel 2014 mi iscrivo a Scienze politiche all'Università La Sapienza, collezionando tre 30 e lode, due 30 e un 27. Nel 2019 interrompo questi studi perché mi accorgo che le capacità memoniche non mi supportano più come prima.
Nel 2018 aderisco alle CVX (Comunità di Vita Cristiana) ispirantesi alla spiritualità di S. Ignazio di Loyola.
Nel 2019 costituisco "Rifondiamo Castro Pretorio" volto alla riqualificazione culturale e sociale di questo storico quartiere di Roma.
Nel marzo 2024 partecipo al Corso intensivo sulla Mediazione penale e la Giustizia riparativa tenutosi all'Università Gregoriana di Roma.
Nel giugno 2024 completo la mia adesione alla CVX italiana, assumendo gli "impegni permanenti" e il servizio di coordinatore del Gruppo Berit.
Il 7 giugno 2025 ho completato con profitto la partecipazione al seminario sulle "Abilità di Counseling" tenutosi presso l'Università Gregoriana di Roma.
Se siete arrivati alla fine, complimenti!!! grazie.

mercoledì 14 ottobre 2015

Una nuova forma di tirannia e come uscirne

La tirannia, ovvero una forma di oppressione da parte di una persona o di un gruppo sul popolo di una nazione o di un’area territoriale, è un regime che ha le caratteristiche di una presenza continua nella storia dell’umanità e di una capacità impressionante di mutare le forme per adattarle alle nuove realtà.

Mi hanno molto impressionato e fatto riflettere le seguenti parole di Papa Francesco, tratte dal paragrafo 56 della “Evangelii gaudium”: “Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova forma di tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile le sue leggi e le sue regole”.

In effetti nella moderna economia globale del libero scambio di merci le imprese competono a livello internazionale cercando di offrire prodotti migliori e prezzi più bassi dei concorrenti, tenendo presente il primato del principio della massimizzazione dei profitti. Non è più sufficiente tenere il bilancio aziendale in attivo ma si rende necessario avere un margine di profitto più alto di  quello dei concorrenti, in modo da attrarre investimenti che altrimenti andrebbero altrove. Compito dell’imprenditore diventa quello di tenere più alta possibile la quotazione della propria azienda in Borsa in modo da poter remunerare i propri azionisti con adeguati dividendi e, nel contempo, acquisirne di nuovi.
Si tralascia di proposito la questione di come, in tale situazione, la riduzione dei costi (necessaria per tenere alto il margine di profitto) si esprime, il più delle volte, in una ridimensionamento delle risorse umane o, per dirla in maniera più chiara, in una riduzione del personale.

Con le riflessioni esposte in questo breve testo si vuole considerare un altro aspetto della questione, quello di come la competizione affrontata dalle singole imprese, mediante l’incremento della loro efficienza e della loro efficacia, si ripercuote sulla politica economica e finanziaria dei singoli Stati.
Non possiamo non sottolineare come uno dei punti fondamentali che permette alle imprese di prosperare è quello di avere un sistema normativo nazionale in tema di diritto del lavoro, di procedure amministrative, di gestione fiscale, di risoluzione delle vertenze, che faciliti il loro compito.

Né possiamo dimenticare che, come scriveva Sergio Zavoli in un suo libro della fine degli anni ‘90, “la vera rivoluzione non è più nel cambiamento, bensì nella velocità con il quale questo avviene”.

Il sistema normativo non deve pertanto essere solo efficace in funzione dell’interesse delle imprese ma anche essere sufficientemente flessibile per adeguarsi velocemente al mutare del contesto economico nazionale.
Ciò chiama in causa inevitabilmente il tipo di sistema istituzionale.

La democrazia si basa su tre principi fondamentali, la libertà, l’uguaglianza, la fraternità i quali per essere realizzati presuppongono la possibilità per tutti di partecipare, con uguale dignità e in funzione delle peculiari caratteristiche personali, alla gestione del governo della comunità.
Più la partecipazione è stimolata e diventa effettiva, più le persone si sentono libere, uguali fra di loro e legate da vincoli di fraternità. Maggiore la partecipazione, più le decisioni sono frutto di un libero confronto fra i cittadini in funzione delle diversità delle idee e della tutela dei singoli interessi.
Peraltro è da sottolineare che più la partecipazione è ampia e complesso è di conseguenza il confronto, più le decisioni vengono prese con lentezza.

In un contesto globale in continua e veloce mutazione, nel quale i Paesi stessi competono nel porre in essere sistemi normativi sempre più efficaci nel sostenere i loro attori economici, occorre avere sistemi istituzionali flessibili, capaci di prendere e attuare decisioni nel modo più veloce possibile. Teoricamente non appare più possibile sostenere processi decisionali lunghi basati su un’ampia partecipazione. Anche se è vero che una decisione molto condivisa può essere attuata velocemente è pur vero purtroppo che, molto spesso, i tempi spesi per arrivare alla decisione sono troppo lunghi e la decisione arriva troppo tardi in confronto a quella presa nel contempo da altri Paesi.
Se si pensa ai Paesi che in questi anni sono stati all’avanguardia per sviluppo economico o che sono stati i più veloci nel riprendersi da momenti di crisi si può notare come gli stessi siano retti da regimi di governo dittatoriali o fortemente orientati in senso presidenziale o premieristico (Cina, India, USA, Gran Bretagna, Brasile, Russia, Germania, la stessa Spagna negli ultimi due anni).
E’ vero che alcuni Paesi, con regime presidenziale (Francia) o dittatoriale (alcuni Paesi del Sud America o dell’Africa) continuano ad avere difficoltà a mantenere il passo dell’economia globale, ma è pur vero che nessun Paese, a base decisionale con ampia partecipazione, sta in una posizione di avanguardia per sviluppo economico.

Il tutto è aggravato dalla questione del “rating”, ovvero la valutazione che alcune società multinazionali danno alla situazione economica e finanziaria dei singoli Paesi. Il rating è un elemento fondamentale da considerare da parte degli investitori internazionali per indirizzare i propri investimenti, e il rating tende a premiare i Paesi con sistemi istituzionali più flessibili e facilitatori di decisioni veloci.
Di conseguenza si viene a creare una forte spinta nei confronti delle Nazioni a sistema decisionale basato su un’ampia partecipazione per cambiare rapidamente in un senso più autoritario il proprio sistema istituzionale riducendo notevolmente gli spazi di partecipazione e di libero ampio confronto.
L’aspetto più importante e più devastante della situazione appena descritta è proprio in questa tirannia dei meccanismi economici globali, che è possibile (anche se in un modo non esaustivo) esemplificare nella metodologia del rating, “una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole” (per riprendere le parole di Papa Francesco).
Di fronte alla normale tensione esistente, in ogni democrazia, fra esigenze di efficienza e esigenze di partecipazione, non è più il popolo che decide il punto di equilibrio, ma sono i meccanismi del sistema economico globale. E gli stessi meccanismi esautorano i parlamenti nazionali, sotto il ricatto del rating, per imporre misure economiche e finanziarie di loro gradimento ma spesso non volute dalla maggioranza del popolo che è oggetto delle stesse.
Il potere legislativo passa così dai Parlamenti nazionali o transnazionali a istituzioni internazionali non democratiche e a meccanismi finanziari non personalizzabili.

La tirannia finanziaria globale è forse la forma tipica, in aggiunta alle altre tradizionali, che ha assunto la tirannia nel XXI secolo.
Come resistere, come uscirne?

Certo non si può pensare di uscirne continuando a perseverare in stili di vita e in modelli di sviluppo che sono conformi alle richieste dei mercati finanziari e, il più delle volte, da loro stessi dettati.
Occorre cambiare paradigma trasformando quello che è il principale principio dell’economia del turbo-capitalismo (come significativamente viene definita da Luttwak): il fine di ogni azienda è la massimizzazione del profitto, il fine di ogni persona è la massimizzazione del guadagno personale.
In questo mutamento non partiamo da zero, ma abbiamo già alle spalle una elaborazione teorica abbondante e qualificata. Facciamo riferimento agli studi di Sen (fra l’altro premio Nobel per l’economia), di Nussbaum, Layard, Latouche, degli italiani Zamagni e Bruni, e alle teorie economiche che hanno assunto diversi nomi (teoria della decrescita, della felicità, dell’economia civile…) avendo peraltro come caratteristica comune quella di rimettere la persona umana e i suoi effettivi bisogni al centro delle economia.
Fine di quest’ultima, secondo queste teoria, non è la massimizzazione dei profitti o dei guadagni (anche se il profitto o il guadagno rimangono parametri indispensabili di una sana gestione) bensì il raggiungimento della felicità.
Per felicità si intende non lo stato di piacere momentaneo originato dal soddisfacimento di un bisogno immediato spesso indotto da cause esterne, ma quella forma di benessere duraturo, quella serenità che è originata dalla sensazione di sentirsi realizzati i comunque sulla strada della realizzazione personale anche nonostante i più o meno ardui problemi di ogni giorno.

Studi recenti (ma ormai vecchi di un decennio) hanno dimostrato che la felicità inizialmente cresce in funzione diretta alla crescita del reddito ma che, raggiunta una certa soglia (quella del reddito necessario per vivere una esistenza dignitosa), l’importanza dell’aumento del reddito diminuisce vistosamente mentre aumenta in maniera consistente l’importanza di avere relazioni personali positive e durature. Sembra pertanto che, ai fini della felicità, l’importanza delle relazioni sia almeno pari, se non superiore, a quella delle risorse monetarie e patrimoniali.
Parafrasando quanto scritto da Kohn (“La fine della competizione” Castoldi editore) alla fine della vita non  “vince chi muore più ricco”, bensì “vince chi muore con più amici”.

Ma come percorrere concretamente questa nuova strada?
Studiosi italiani di economia (L. Bruni, B. Gui, V. Pelligra) hanno individuato, nell’ambito dei beni (ovvero degli elementi materiali o immateriali in grado di soddisfare un bisogno), la categoria dei beni relazionali, ovvero quelli in grado di soddisfare un bisogno partendo dalla instaurazione o dal consolidamento di una relazione personale (svolgere una attività in comune in sintonia con altre persone, lavorare in funzioni di assistenza a persone, divertirsi insieme ad altre persone, godere di beni comuni quali l’ambiente o l’acqua, gioire per il sorriso del proprio figlio o di un altro bimbo, avere fiducia negli altri…).
Superato il livello di reddito confacente con una vita dignitosa, più una persona usufruisce di beni relazionali più questa persona è felice.

Questa riflessione non è scevra di conseguenze a livello di stile di vita individuale. Darà più felicità l’acquisto dell’ultimo release del cellulare alla moda (obsoleto dopo 5-6 mesi…) o il consolidamento in amicizia di una conoscenza positiva e ”nutriente”? E’ più felice una persona dopo aver sgobbato per un’ora da solo su una macchina in palestra o dopo aver fatto un’ora di jogging (o una passeggiata) in un parco insieme ad amici? E’ più felice un giovane dopo essere andato a vedere una partita di calcio (magari più per insultare gli avversari che per vedere la partita) o dopo aver fatto un’ora di volontariato sociale?
Con queste riflessioni non si vuole negare l’importanza fondamentale di avere un lavoro e un reddito adeguato alle esigenze proprie e a quelle dei propri cari, si vuole solo sottolineare l’importanza di restituire la giusta importanza all’acquisizione e al consolidamento di una certa quantità di beni personali.

Ciò non è facile. Cambiare lo stile di vita, andare controcorrente sfidando l’altrui giudizio e talvolta anche l’ironia, sottrarsi alle insidie della moda, è estremamente faticoso e presuppone coraggio, ostinazione, costanza derivanti dall’aver gustato la felicità del vivere in modo diverso.
Occorrerà anche acquisire quelli che L. Bruni chiama i valori dell’economia del bene comune quali, ad esempio, le virtù, fuori moda, della sobrietà (ben differente dalla povertà) e della solidarietà.
E’ una vera rivoluzione che non interessa solo gli stili di vita singoli, ma la stessa politica economica di un Paese che dovrà essere ribilanciata sia sul piano della produzione che su quello del consumo di beni relazionali.
Occorre puntare a far crescere sia il reddito e il prodotto lordo nazionale (da non dimenticare!!) sia il livello di felicità globale dei cittadini.
Maggiore attenzione alla conservazione dei beni comuni, sostegno alla società civile per lo svolgimento di attività di benessere personale, enfasi sui beni culturali e turistici, devono acquisire importanza nella politica economica e industriale almeno pari a quella sui prodotti di nicchia e di lusso.
Ciò comporterà anche un trasferimento di risorse dai consumi privati superflui a consumi pubblici per la sollecitazione di beni relazionali (es: costruzioni di nuovi teatri, parchi, incentivi ad attività culturali, turistiche, sportive ecc.).

Anche su questo fronte si tratterà di una via non semplice e soprattutto sarà necessaria una attuazione graduale. Resistenze da parte delle strutture finanziarie internazionale e dei loro rappresentati locali (lobby, poteri forti..) non mancheranno in quanto queste percepiranno il pericolo di perdere la loro posizione di predominio delle scelte personali.
Occorrerà, anche da parte dei governanti fermezza, coraggio, uniti alla necessaria flessibilità e all’esigenza di avviare un processo graduale, confortati nella loro azione dalla consapevolezza di costruire un futuro migliore per la felicità dei loro concittadini.
Solo da una forte alleanza fra questi ultimi e i loro governanti sarà possibile uscire dalla tirannia dei mercati finanziari e riacquistare la propria autonomia di popolo indipendenti.
Questo vuole solo essere uno scritto volto a stimolare l’approfondimento di questi temi. Per chi voglia proseguire di seguito una breve bibliografia iniziale.

Bibliografia

Luigino Bruni: “Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni”, 2010 Città Nuova.
Luigino Bruni: “     : “L’economia, la felicità e gli altri. Un’indagine sui beni e benessere”, 2004 Città Nuova.
Martha Nussbaum: “Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL”, 2012 Mulino.
René Layard: “La nuova scienza del benessere comune”, 2005 Rizzoli.
Alfie Kohn: “La fine della competizione”, Castoldi 1998.
S. Zamagni:  “L’economia del bene comune”, 2008 Città Nuova.
Serge Latouche: “La scommessa della decrescita”, 2009 Feltrinelli.
Amartya Sen: “Globalizzazione e libertà”, 2002 Mondadori.
Amartya Sen: “Etica ed economia” 2006 Laterza.
Vittorio Pelligra: “I paradossi della fiducia”, 2007 Il Mulino.
Stefano Zamagni – Luigino Bruni: “Dizionario di economia civile”, 2009 Città Nuova.
Edward Luttwak: “La dittatura del capitalismo”, Mondadori 1999

Giuseppe Sbardella

sabato 30 maggio 2015

Amare la croce? amare il dolore?

Amare la croce? ma come si fa ad amare il dolore, la sofferenza, come si fa ad amare il male, il negativo? No, è sbagliato amare la croce.
Neppure Gesù ha amato la croce ("Padre fa che passi da me questo calice"), ma l'ha accettata e ha vinto il male con la sua Resurrezione.
Allora amare la croce no, bensì amare Gesù sulla croce, amare il positivo che Lui, nell'imminenza della vittoria sulla morte e sul male con la Risurrezione, rappresenta.
Accettare i momenti di dolore amando il "positivo" per eccellenza, Gesù sulla strada della Risurrezione.
Lui non sapeva che sarebbe risorto (altrimenti non avrebbe gridato "Dio mio perché mi hai abbandonato?"), noi lo sappiamo e possiamo amare Lui sulla croce in quanto massimo emblema di positività.
Sto dicendo, per qualcuno, delle eresie? non mi importa, se una eresia mi aiuta a vivere meglio un momento difficile.... forse non è una eresia.

venerdì 29 maggio 2015

Un Paese è come una famiglia

Un Paese è come una famiglia; non può, per un periodo non breve, produrre e guadagnare 90 e consumare 100.
Il 10 di differenza va saldato o chiedendo un prestito (che poi va però restituito) o, se il Paese ha una valuta autonoma, svalutandola in maniera da incrementare le esportazioni.
Ma attenzione, ogni SVALUTAZIONE comporta un impoverimento reale della popolazione (con gli stessi soldi si acquistano minori beni) e con un incremento dell'ingiustizia sociale (le persone a reddito fisso ci rimettono con la svalutazione).
L'USCITA DALL' EURO non è una soluzione, sarebbe solo un ulteriore problema.
L'unica vera soluzione consiste nel produrre e guadagnare stabilmente 100 e consumare non più di 100.
Così torno a quello che dico da anni: produrre di più, consumare meglio (liberandosi il più possibile dai condizionamenti degli status symbols) e, indispensabile, studiare di più (perché, senza un aumento delle conoscenze non si riesce, nell'attuale contesto competitivo, a produrre di più).

lunedì 6 aprile 2015

Buona settimana (un senso alla vita..)

Carissimi, ho passato buona parte della settimana santa ad Assisi.
In quel luogo meraviglioso,  in quell’aria che profuma di eternità, ho ritrovato il piacere di riscoprire e ridare un senso alla vita.
Dare un senso alla vita permette di “volare alto”, di mettere tutti gli elementi nella loro corretta priorità, di dare alle difficoltà la loro giusta dimensione, di vedere tutto in una prospettiva unificante e perfezionante.
Le difficoltà permangono ma sono superate più facilmente, i momenti di gioia vengono vissuti con maggiore intensità perché vissuti come un passo ulteriore verso il senso della vita.
Volete provare? Vedrete che funziona!
Buona settimana