Mi è sempre rimasta impressa la riflessione che sviluppò il caro amico biblista Padre Ugo Vanni sul percorso seguito da Gesù Cristo per l’annuncio della Buona Notizia, l’avvento del Regno di Dio e la necessità, per potervi accedere, di una conversione del nostro cuore.
Cercherò di ripercorrere quella riflessione, integrandola con delle mie povere
considerazioni.
Innanzitutto due premesse.
La prima riguarda il fatto che, in funzione della sua doppia natura
divina e umana, Gesù era sì figlio di Dio ma era anche pienamente uomo, con
tutti i pesi, i dubbi, le incertezze che gli derivavano dalla sua natura umana e che doveva di volta in volta sciogliere,
decidendo che cosa fare.
La seconda riguarda il fatto che la strada per scioglierli non potesse
essere altro che la ricerca faticosa, e soggetta a possibili errori di
valutazione, della volontà del Padre, attraverso il dialogo fiducioso, nella
preghiera, nella meditazione, nel discernimento personale seguendo la
coscienza.
Gesù inizia il suo percorso di annunciatore del
Vangelo con i suoi grandi discorsi (chi non ha mai letto almeno una
volta il “discorso della montagna?), insiemi articolati di indicazioni chiare e
concrete per vivere la volontà di Dio ed entrare nel Suo Regno.
Si accorge ben presto però che questi discorsi rimangono sulla superficie di
chi lo ascoltava, non penetravano nel cuore di chi, pieno di distorsioni
cognitive, si aspettava come Messia un re guerriero in grado di cacciare i
romani e ripristinare il regno di Israele.
Forse i suoi ascoltatori rigettavano inconsciamente oppure non erano in grado
di elaborare e di fare proprie delle indicazioni, (comunicate a loro e pertanto
a loro solo esterne), tanto in contrasto con quella che era la mentalità
corrente?
Gesù allora comincia a raccontare delle parabole,
piccoli racconti di vita quotidiana che, se fatti propri e successivamente
elaborati personalmente da coloro che li
ascoltavano, erano in grado di far sorgere direttamente nel loro cuore quelle
indicazioni già trasmesse nei grandi discorsi e non accolte.
Si tratta di chiedere ai suoi ascoltatori una sorta di mediazione culturale fra
la realtà del messaggio divino e la realtà della vita umana concreta.
Anche con questa modalità Gesù non riesca a fare breccia nel cuore e nella
mente di chi lo ascolta.
Allora passa ad una modalità più concreta.
Attraverso i miracoli, segni del suo essere figlio di Dio, attraverso la
sua vita di tutti i giorni, l’attenzione preferenziale agli ultimi (i malati, i
poveri, le vedove, gli accecati dalla ricchezza) cerca di mostrare con
chiarezza la sua statura di pastore mite e umile di cuore, non di re guerriero
e superbo.
La salvezza, la liberazione che Lui annuncia non passa attraverso la forza e la
violenza ma attraverso la debolezza e la misericordia.
Nonostante tutti questi suoi tentativi, anche quello
estremo di annunciare la sua morte e la sua resurrezione, nonostante l’ingresso
in Gerusalemme sul dorso di un’asina (invece che su un cavallo bianco o
su un carro trionfale), i suoi ascoltatori (anche i suoi discepoli che lo
seguivano da anni) non capiscono e dubitano (qualcuno dubiterà anche dopo la
Resurrezione…!).
Nella mente di Gesù, nel suo dialogo continuo con
il Padre, si fa strada quella che è la via giusta, non basta amare i suoi
ascoltatori, facendo loro grandi annunci, raccontando parabole, mostrando la
sua intima personalità, deve donare la vita come massimo gesto di amore per
loro.
A mio parere il dramma patito da Gesù nel Getsemani è proprio questo, nel
rendersi conto che la liberazione dell’umanità dal peccato, la salvezza, la
capacità, per ogni uomo, di entrare in una dimensione divina, passano
attraverso l’accettazione piena della volontà di Dio, nel donare la vita per
amore di tutti gli uomini (nessuno escluso, neppure chi lo ha tradito).
Finora Gesù è stato attivo, ha parlato, ha annunciato, ha fatto miracoli, ora
ha capito che deve essere passivo e che attraverso questa passività (“Passione”…)
si attua la volontà di Dio.
Gesù dona la vita per amore, senza sapere nel momento prima della morte, che
risorgerà (altrimenti perché griderebbe “Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?”), muore nell’incertezza ma anche con un atteggiamento di fede (altrimenti
perché direbbe “tutto è compiuto” e “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”?).
Sulla Croce Gesù appare realmente come uomo che dubita (natura umana) ma che
si affida alla fede (natura divina).
Cosa dice a me, a noi, questa ricostruzione della
missione di Gesù?
Ci dice forse che i grandi discorsi, le accurate meditazione servono a poco
perché difficilmente infrangono la durezza del cuore e le distorsioni cognitive
della mente?
Ci dice forse che spesso è inutile ricorrere alle mediazioni culturali per
incapacità di essere elaborate o perché le loro logiche conseguenze sono
deviate dalla nostra grande capacità di non accettare conseguenze pratiche che
vanno contro le nostre abitudini?
Ci dice forse che anche un nostro comportamento concreto di sequela di Gesù si
infrange contro le difficoltà anzidette?
Ci dice forse, infine, che l’unica via giusta è quella di donare, ogni
giorno, ogni attimo, la nostra vita per amore, con pazienza, perseveranza, accettando
gli errori e ricominciando sempre?
Alcuni aspettano sempre la Croce (talvolta incoscientemente la invocano),
non si accorgono che occorrerebbe soltanto seguire la volontà di Dio di ogni
giorno, con tanti dubbi, sapendo di passare attraverso il sacrificio, ma con la
fiducia di arrivare alla Resurrezione.
Roma 17/09/2021 Giuseppe Sbardella
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