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giovedì 16 luglio 2020

Appunti liberi (ma seri...) in tema di omosessualità



La questione degli LGBT (Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender) è stata per me oggetto di un lungo ed irto cammino, al termine del quale ho raggiunto alcune conclusioni, alcune delle quali rappresentano dei punti fermi, altre semplici opinioni soggette a possibili modifiche. Il tutto alla luce di quel pensiero “personalistico” (Mounier, Maritain, La Pira…) al quale cerco di restare fedele.


In primo luogo mi sono convinto che un punto fermo, una conquista irreversibile di una società civile consista del dovere inderogabile del rispetto dell’orientamento sessuale di una persona al quale dovere sta di fronte un diritto inviolabile della stessa persona al rispetto del proprio orientamento sessuale. Tale diritto deve essere tutelato sia civilmente che penalmente.


Ultimamente ho notato che sono cadute alcune mie precedenti perplessità sulla possibilità di configurare come “matrimonio” anche l’unione tra due LGBT. Se l’orientamento sessuale è un diritto inviolabile di una persona umana, perché porre limiti alla possibilità di una forma giuridica di piena condivisione?
Certo, sono consapevole che attualmente questa possibilità non è contemplata dalla nostra Carta costituzionale, ma le Costituzioni non possono essere cambiate per adeguarle al comune senso civile?


Dove, a mio parere, la faccenda si fa più complessa è sul tema della possibilità di adottare.
Trovo nel mio intimo delle difficoltà ad accettare che una coppia di LGBT possa adottare un essere già nato, sia figlio di un precedente matrimonio di uno dei due (la cosiddetta “adozione del figliastro”) o adottato dall’esterno secondo le normali procedure.
Mi sono reso però conto che le mie difficoltà erano soprattutto di origine culturale, non riuscendo ad accettare che un bambino potesse non avere, come nel passato, un padre e una mamma, ma semplicemente due genitori.
Forse devo abituarmi a vivere, nel prossimo futuro, in una società molto diversa da quelle precedenti, molto più diversa di quanto si poteva immaginare e che pretenderà da noi meno giovani o anziani una grande capacità di adattamento (anche dal punto di vista culturale e psicologico).
Il futuro sarà sempre diverso dal passato e mi piace qui ricordare una bellissima frase delo scrittore cattolico, sacerdote gesuita Theillard de Chardin: “l’avvenire è sempre migliore del passato”.


Lascio per ultimo il tema più delicato e sul quale conservo appieno le mia perplessità, per non dire la mia contrarietà, ovvero la possibilità, per una coppia di LGBT, di “avere un figlio” mediante l’acquisizione di un seme maschile e/o l’affitto di un utero per la fecondazione e la successiva crescita.
Non riesco a superare il timore che non si possa prescindere dal rischio che la scelta del seme e dell’utero possa avere delle forti valutazioni di carattere discriminatorio (“voglio un seme perfetto” o “voglio una donna giovane, perfetta e bella”) e non riesco a superare neppure il timore di una probabile operazione di “mercificazione” del seme o dell’utero.
Anche su questo argomento sto ancora riflettendo, ma vedo molto difficile un ripensamento.


Ultimo punto, ma non certo meno importante, è il riconoscimento del diritto di ognuno a esprimere liberamente la propria opinione sul tema, fermo restando che sul primo punto sopra indicato (dovere inderogabile al rispetto e diritto inviolabile al proprio orientamento sessuale) la fermezza deve essere d’obbligo.


Quello che mi sento di auspicare è che il dialogo continui con discrezione e pacatezza, rinunciando, da una parte a outing chiassosi e clamorosi, dall’altra a condanne violente magari condite anche di considerazioni religiose.





martedì 7 luglio 2020

Appunti su pedofilia, Chiesa, democrazia

 


Introduzione

Era il Venerdì Santo del 2005 allorché il Cardinal  Joseph Ratzinger (di lì a poco eletto Papa con il nome di Papa Benedetto XV) scrisse, nella sua meditazione per la via Crucis al Colosseo “quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!”.

 
Non si sa bene se Ratzinger si riferisse ai casi di pedofilia già presenti sulla sua scrivania della Congregazione per la dottrina della Fede (già S. Uffizio) ma, secondo i commentatori, il riferimento è assai probabile.

In effetti la questione della pedofilia è esplosa, in maniera eclatante, nel corso dei 13 anni seguenti, senza interruzione in un crescendo di coinvolgimento di sacerdoti, di vescovi e di cardinali di Santa Romana Chiesa.



Alcuni (di cultura progressista) hanno ricercato l’origine di questo fenomeno nell’obbligo del celibato sacerdotale, altri (di cultura tradizionalista) nell’azione ininterrotta del diavolo.
Di seguito alcune considerazioni che cercano di spostare il ragionamento su un altro livello, non tanto su quello della ricerca delle responsabilità quanto su quello, strettamente collegato, del capire i motivi della mancata punizione dei colpevoli, per non parlare dell’insabbiamento dei casi.

Questo ragionamento alternativo permetterà peraltro anche di affrontare un’ altra tematica, forse pure più importante, quella del rapporto fra Chiesa cattolica e (liberal)democrazia


E’ utile premettere all’analisi  un presupposto di carattere sostanziale da non perdere mai di vista allorché si affrontano tematiche riguardanti l’universo ecclesiale.

La Chiesa, nella sua prudenza secolare, non ammette (quasi) mai di essersi sbagliata, ricorre bensì all’artificio di superare una verità ormai obsoleta ma sempre proclamata mediante l’enunciazione di una verità più piena che accoglie quanto c’era prima procedendo ad una sua attualizzazione. Tale artifizio nella sostanza si traduce spesso non tanto in un superamento quanto in un reale annullamento della concezione  precedente (seppure mai formalmente rinnegata).





Il Concilio Vaticano II, una discriminante



Non si può affrontare l’argomento della ricerca senza previamente parlare del Concilio Vaticano II.

Esso, svoltosi dall’ottobre 1962 al dicembre 1965, è stato uno degli eventi più significativi degli ultimi secoli perché le sue decisioni e, soprattutto, i suoi cambiamenti di prospettiva, hanno portato radicali innovazioni, non solo all’interno della Chiesa, ma anche nei rapporti tra quest’ultima e il mondo esterno.
Uno dei più importanti cambiamenti ha proprio riguardato la auto-comprensione della Chiesa, quella che viene di solito definita come il campo della ecclesiologia.


Fino al Concilio la Chiesa ha avuto una auto-comprensione di se stessa come una “societas perfecta”, ovvero come una comunità che, in quanto fondata da Gesù Cristo (figlio di Dio) e assistita dallo Spirito Santo (terza persona della divina Trinità), era sostanzialmente esente da imperfezioni (peccati, insufficienze, errori ecc.) e maestra di verità.

Eventuali fatti che evidenziavano errori, insufficienze, carenze, venivano considerati, in questa impostazione, semplicemente come “incidenti di percorso” che non intaccavano assolutamente la correttezza di questa auto-comprensione.
Quali erano le caratteristiche fondanti di questa societas perfecta?


A) In primo luogo l’assunzione che la Chiesa fosse l’unico luogo nel quale e tramite il quale l’uomo potesse salvarsi. Per questo motivo la Chiesa ha sempre strenuamente difeso la libertà religiosa dei suoi figli mentre, al massimo, si era limitata ad affermare la “tolleranza” nei confronti dei riti e delle opinioni dei fedeli di altre confessioni religiose. 
Questa ristretta visione della libertà religiosa era all’origine della indifferenza della Chiesa nei confronti delle altre libertà di espressione  (di pensiero, di stampa, di associazione..) considerate perlopiù come conseguenti alla libertà religiosa dei credenti, ma non ontologicamente degne di autonoma valutazione.



B) In secondo luogo il postulato che la Chiesa, nel suo deposito della Fede, avesse il monopolio della verità, perlopiù strutturata in dogmi accuratamente formulati e considerati validi e chiari di per se stessi, resistenti ai mutamenti che normalmente intervengono nella cultura umana.
Dalla coscienza del possesso della verità all’idea di avere diritto di imporla agli altri, per il loro stesso bene, il passo è stato spesso breve e ha avuto diverse applicazioni nel corso dei secoli.



C) In terzo luogo la sua struttura gerarchica, basata sul primato dei Vescovi e in particolare del Papa successore di Pietro, vicario di Gesù Cristo in terra provvisto del dono della infallibilità quando si pronuncia ex cathedra (ovvero formalmente e solennemente) in materia di fede o di morale.

Corollario giuridico e politico di questa struttura gerarchica  è la configurazione come Monarchia assoluta (ma elettiva) dello Stato del Vaticano, con un Papa che decide, un episcopato e un clero che consiglia, con la gran massa dei fedeli laici che non partecipa in alcun modo al potere decisionale ma ne subisce le conseguenze supinamente ubbidendo.



D) Infine, in quarto luogo, la Chiesa quale societas perfecta si auto assegna un livello di superiorità rispetto alle altre società esistenti nella realtà umana (Stati, Confessioni religiose…).
La Chiesa ha tutto da insegnare e nulla da apprendere.



Il Concilio Vaticano II, seguendo peraltro un cammino non sempre lineare e comunque contrastato, ha tracciato un netto cambiamento di linea.


E’ da mettere subito in evidenza che la configurazione della Chiesa come societas perfecta, anche se non formalmente abiurata, viene superata dalla concezione della Chiesa come “Popolo di Dio” in cammino (assistito dalla presenza dello Spirito Santo) verso una piena realizzazione del Regno di Dio, così come annunciato da Gesù Cristo. Se la Chiesa è Popolo di Dio, e il popolo è fatto di persone umane fallibili, ne consegue che l’errore è possibile e contemplato (e anche perdonato…).
Da questa assunzione fondamentale derivano alcune conseguenze importanti.


1) In primo luogo la Chiesa cattolica non è  più l’unico luogo della salvezza; la misericordia e l’onnipotenza del Padre vanno ben oltre il perimetro della Chiesa cattolica e lo Spirito “soffia dove vuole”. Se questo è vero, è anche vero allora che esiste un diritto di ogni persona a cercare Dio e la verità, e la Chiesa deve rispettare questo diritto; si passa dalla tolleranza delle altre confessioni a proclamare la libertà religiosa, ovvero il diritto naturale di cercare Dio senza alcuna imposizione dall’esterno.
Viene proclamato il primato della coscienza della dignità di ogni persona umana e del suo diritto intangibile alla libertà.



2) In secondo luogo, nel Concilio, sulla base della spinta di teologi e vescovi particolarmente dell’Europa centrale (tedeschi, belgi e olandesi), oltre che degli americani, viene emergendo la consapevolezza che non sia tanto la Chiesa a possedere la verità quanto la verità a possedere la Chiesa. In particolare la verità, che si sostanzia nella persona di Gesù Cristo (Via, Verità, Vita) non può essere intesa come un concetto da significare o un dogma da formulare, bensì come un cammino relazionale di amore sia reciproco che verso Dio. Da questa concezione più ampia della verità trae le sue mosse il dialogo ecumenico verso le altre confessioni religiose, nonché il dialogo (ancora più ampio) verso l’umanità intera.


3) In terzo luogo, pur non modificandosi, se non lievemente, la configurazione costituzionale della Chiesa come monarchia assoluta, vengono emergendo caratteri che cominciano ad assumere un aspetto di cammino verso una maggiore (se non ancora piena)  democrazia: l’istituzione delle Conferenze episcopali nazionali e dei Sinodi dei Vescovi, l’uso della lingua volgare nelle celebrazioni (che permette una maggiore comprensione delle stesse), l’accesso più ampio alla lettura dei sacri testi della Bibbia (prima riservata al clero).
Questi ultimi aspetti (uso della lingua volgare e pieno accesso alla Bibbia) non sono  da sottovalutare in quanto consentono una maggiore partecipazione e consapevolezza dei fedeli laici. Né è da sottovalutare che i laici sono fatti (finalmente) oggetto di una particolare attenzione e viene anzi espressamente affermato che tocca ad essi la animazione cristiana delle realtà temporali (in questo consiste la propria specifica “indole”)

Sotto questo punto di vista particolare rilievo va dato alla enunciazione delle autonomia proprio delle realtà temporali (politica, economia, arte..) che hanno proprie leggi che anche i cristiani devono rispettare e seguire.    
Last but not least, viene anche affermato il punto molto importante che tra il clero e i laici esiste solo una differenza di funzione e non di dignità all’interno della Chiesa, addirittura attribuendo anche ai laici una compartecipazione (seppur non di tipo ministeriale ma solo spirituale), al sacerdozio di Cristo.



D) In quarto luogo la Chiesa, non più societas perfecta, non si pone in un mero livello di superiorità rispetto alle altre società ma inaugura lo strumento del dialogo nel quale le parti, nel rispetto reciproco, si ascoltano e si aprono ad una verità più piena.





Il pontificato di Paolo VI



Il Concilio vaticano II fu inaugurato dal Pontefice Giovanni XXIII nell’ottobre del 1962 e concluso nel dicembre 1965 dal Pontefice Paolo VI.

La nuova visione ecclesiale, della quale più sopra sono stati delineati alcuni punti fondamentali, non fu approvata senza problemi, anzi fu oggetto di aspri dibattiti e gli stesse documenti conciliari non sono esenti da oscurità, incertezze e faticosi compromessi.

La figura e l’opera di Paolo VI (nato Giovan Battista Montini) fu indispensabile per riportare il confronto ad un alveo costruttivo, trovare una sintesi e finalmente chiudere il Concilio.

Paolo VI era un fine intellettuale abbeverato alla cultura del personalismo cristiano di Maritain e Mounier, con un passato (durante il periodo fascista) di vicinanza ai giovani universitari cattolici.

Aveva lavorato in Segreteria di Stato Vaticano e nel 1954 fu nominato Arcivescovo della Diocesi di Milano, la più grande d’Italia, forse proprio per accrescere le capacità di fine intellettuale ed esperto diplomatico con una esperienza significativa di tipo pastorale.
Non fu pertanto assolutamente sorprendente la sua elezione a Sommo Pontefice nel giugno del 1963.
Erano molto note le simpatie progressiste dell’uomo, la sua visione della democrazia come regime istituzionale nel quale meglio potevano essere espressi il valore umano e  cristiano del primato della dignità della persona umana, la sua attenzione ai problemi del mondo del lavoro e alla questione sociale, la sua apertura a relazioni più estese e più intense con il mondo internazionale.
La sua elezione suscitò pertanto quelle che, con linguaggio politologico, vengono definite “aspettative crescenti” presso i cattolici progressisti e anche presso il mondo laico non affetto da anticlericalismo.

Nell’agosto 1964 pubblico l’enciclica Ecclesiam suam nella quale evidenziò l’importanza del dialogo (del quale enumerò e spiegò i caratteri essenziali) con il mondo contemporaneo.
Nel marzo 1967 pubblicò l’Enciclica Populorum progressio con la quale affrontava la questione sociale nel contesto del mondo globale.

Inoltre toccò proprio a lui, maestro e amico di molti politici democristiani, rompere definitivamente con il postulato della unità politica dei cattolici e proclamare la legittimità di una diversità di opzioni politiche per i cristiani.

Importante sotto l’aspetto del rapporto tra Fede e politica l’assunzione che non ci fosse un assoluto nesso deterministico fra le due realtà bensì che fra le stesse fosse necessaria una “mediazione culturale” (la Fede dà origine non ad una sola ma a più impostazioni culturali e quest'ultime, seppure sempre ad ispirazione cristiana, a più opzioni politiche, tutte legittime).

Il Concilio Vaticano II aveva aperto le finestre di una Chiesa, fino allora molto introversa e autoreferenziale, verso il mondo intero e aveva suscitato molte speranze dando fiato a innumerevoli iniziative in campo liturgico e sociale nonché a idee innovative nel campo della teologia morale e dogmatica.

Questo fervore inatteso creò opposizione netta nell’ambiente ecclesiastico conservatore ma anche disagio nell’area che aveva sostenuto le aperture del Concilio alimentando una reazione restauratrice.
Lo stesso Paolo VI si rese conto degli eccessi che si stavano manifestando e più volte cercò di far valere la sua autorità papale, di precisare posizioni e di porre argini alle iniziative più eterodosse.
Questa frenata di Paolo VI suscitò quelle che politologicamente vengono definite “frustrazioni crescenti” e portò ad una insofferenza della parte più progressista del mondo cattolico nei confronti dell’azione di PaoloVI considerata troppo prudente.
Il culmine del dissenso cattolico si verificò nel luglio 1968 allorché  il Papa, con l’Enciclica Humanae vitae, confermò la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica in materia di procreazione responsabile, nonostante il parere difforme anche della maggioranza della Commissione di esperti che lui stessa aveva nominato per approfondire la problematica.

La morte di Paolo VI, nell’agosto del 1978, trovò la Chiesa cattolica nel pieno del travaglio tra dissenso e tentativo di restaurazione.



La “gelata” 
 

Perché è stato così difficile consolidare le innovazioni sul piano dottrinale e su quello dogmatico emerse nel Concilio Vaticano II?
I motivi sono molteplici.
In primo luogo va ricordato che la Chiesa che entrava nel Concilio Vaticano II era una Chiesa fortemente dominata ideologicamente  dall’episcopato e dal clero italiano, presenti in maniera massiccia nella Curia Vaticana.

L’episcopato italiano, era fermo, nella sua grande maggioranza su posizioni tradizionaliste. Tra i vari Vescovi titolari nelle principali città italiane, gli unici che potevano distinguersi per posizioni progressiste erano il Card. Montini (futuro Paolo VI) e Milano e il Card. Lercaro a Bologna.

Non deve pertanto stupire se, con tale schieramento di Vescovi, nei seminari italiani venisse studiata la teologia classica, quella che, poi venne superata dall’evoluzione dell’assise conciliare.
Il clero che usciva dai seminari, durante il Concilio (e anche dopo…) restava intriso della visione della Chiesa societas perfecta, gerarchica, in possesso della pienezza della verità.
E’ vero che, durante il pontificato di Paolo VI, i cattolici del dissenso fecero notizia per il clamore delle loro opinioni e delle loro manifestazioni, spesso animate da sacerdoti coraggiosi, ma è pur vero che la maggioranza del clero e, soprattutto dell’episcopato, si mostrava freddo, se non addirittura ostile, alle innovazioni conciliari.
Anche l’azione riformatrice di Paolo VI, seppur continua e tenace, si scontrò con tale freddezza che la rese molto meno efficace di quanto potesse essere.


La parte progressista dei Vescovi presenti al Concilio proveniva dal Centro europa (in particolare dal Belgio, dall’Olanda e dalla Germania) e, parzialmente, dagli altri continenti.
Se, nell’ambito dell’assemblea conciliare, la posizione innovatrice riuscì ad emergere (ma non ad imporsi con nettezza), nel dopo Concilio, la Curia romana, dominata da tendenze nettamente conservatrici ebbe in mano la gestione pratica delle questioni e mitigò di molto, quando addirittura non spense sul nascere, le spinte innovative, nonostante gli stimoli del Papa.


Un altro motivo del mancato consolidamento delle innovazioni conciliari va anche ricercato nella falsa rappresentazione delle stesse.  
Da parte dei gruppi conservatori presenti nella Chiesa cattolica si cercò in tutti i modi di rappresentare quelle che erano state innovazione conciliari mantenutesi nel pieno rispetto dei cardini della Fede cattolica, come tradimenti dei principi della tradizione e come una resa (ricorrente nella storia della Chiesa) al modernismo e al relativismo etico.

Questa falsa rappresentazione ebbe larga presa nella maggioranza della base popolare della Chiesa, culturalmente impreparata ad accettare, digerire, e vivere le nuove impostazioni.



Nell’agosto 1978, il Conclave successivo alla morte di Paolo VI, dominato dalla corrente dei cardinali conservatori italiani (ancora una volta guidati dal Card. Siri, Arcivescovo di Genova) elesse come Papa il Patriarca di Venezia Albino Luciano, salito al soglio pontificio con il nome di Giovanni Paolo I, esponente di punta, seppure con un carattere mite e accogliente, della corrente conservatrice.

Il pontificato di Giovanni Paolo I durò poco più di un mese e fu seguito da un altro Conclave, peraltro dominato dalla stessa maggioranza.
In presenza di un forte e non appianabile contrasto fra i porporati italiani (incerti se appoggiare la candidatura del Card. Siri o del Card. Benelli) l’assise elesse al soglio pontificio uno straniero, il polacco Card. Woytila, che prese il nome di Giovanni Paolo II.
Questo lungo pontificato (dall’ottobre 1978 all’aprile 2005) fu caratterizzato da una forte impronta restauratrice.
Il Papa proveniva dalla cultura cattolica polacca, che era stata in minima parte intaccata dalla ventata del Concilio Vaticano II e che si era creata e sviluppata non tanto nel dialogo quanto in una netta contrapposizione alla parte di società laica fortemente contrassegnata dalla ideologia e dal regime comunista.
Giovanni Paolo II è stato (al contrario di Paolo VI) un gran maestro della comunicazione ma, dal punto di vista teologico, ha provveduto ad un forte ridimensionamento delle innovazioni conciliari e ad una decisa rivalutazione di molti dei punti fermi della Chiesa pre-conciliare.



A) In primo luogo, con la Enciclica “Veritatis splendor” (pubblicata nel 1993) il Papa ristabiliva il primato della verità come insieme di dogmi posseduti dalla Chiesa cattolica e riduceva drasticamente gli spazi di autonomia precedentemente riconosciuti alla coscienza individuale.
Sotto questo punto di vista diventò molto più faticoso il cammino ecumenico che era stato iniziato con il Concilio Vaticano II e che aveva avuto momenti anche clamorosi con Paolo VI, quali l’abbraccio al Patriarca Atenagora  e la visita alla Sinagoga di Roma.


B) In secondo luogo anche procedendo alla sostituzione di autorevoli personaggi vicini alle posizioni espresse da Paolo VI, (il Card. Ballestrero alla Presidenza della CEI, Padre Sorge alla direzione di Civiltà cattolica, il Prof. Monticone alla presidenza dell'Azione Cattolica)  reintrodusse la visione di una Chiesa fortemente gerarchica e guidata in maniera ferma dai Vescovi, riducendo gli spazi di autonomia operativa (e praticamente annullando quelli di pensiero) dei fedeli laici.

 
C) In terzo luogo veniva cancellata quella importante concezione della “mediazione culturale” e del dialogo come strumento di confronto con il mondo dei non credenti per assumere la visione di una Chiesa come “forza sociale” dei credenti impegnati a portare nella società i cosiddetti “valori non negoziabili” della Fede.



Su queste linee Giovanni Paolo II aveva il pieno conforto teologico del Card. Joseph Ratzinger, raffinato intellettuale da lui nominato alla Congregazione per la Dottrina della Fede.



E’ vero che Giovanni Paolo II si battè costantemente per il principio della libertà dei popoli (in particolare a partire dalla sua terra natia) ma tale difesa della libertà si riferiva in particolare a quella religiosa e agli altri tipi di libertà solo come una conseguenza diretta della prima.
Così come aveva represso il dissenso all’interno della Chiesa cattolica, limitando o depotenziando i pochi spazi di democrazia aperti con Paolo VI, nella stessa maniera non ebbe alcun timore di incontrare alcuni dittatori dell’America Latina, per nulla impressionato del successo di immagine che a loro proveniva dall’incontro con il Papa di Roma.
I successi di folla delle Giornate mondiali della gioventù e del Giubileo del 2000 nascondevano le difficoltà di una Chiesa autoreferenziale e chiusa nel proprio dogmatismo.
Quanto nel 2005 Giovanni Paolo II “tornò alla casa del Padre” gli successe il suo fedele collaboratore Joseph Ratzinger (sconfiggendo nel Conclave un rivale di nome Bergoglio..) e nessuno dubitò che il nuovo Papa Benedetto XVI avrebbe continuato nell’opera iniziata da Giovanni Paolo II.
E questo avvenne, pur senza le capacità comunicative di Woytila, ma certamente con una maggiore raffinatezza intellettuale ed una efficace (all’interno della Chiesa) capacità comunicativa.

Eppure non dimentichiamo che era stato proprio il Card. Ratzinger, nel Venerdì Santo del 2005 a parlare di “sporcizia nella Chiesa”!

Come è potuto avvenire che Benedetto XVI, lucido intellettuale, pur consapevole dei problemi, non fosse intervenuto in maniera chiara ma, soprattutto, trasparente?

 
Una ipotesi



Abbiamo già notato come il pontificato di Paolo VI, non eccessivamente lungo e profondamente contrastato all’interno, non sia stato in grado di sviluppare nella misura massima le innovazioni pastorali, teologiche e liturgiche emerse dal Concilio Vaticano II.
L’azione di rinnovamento fu poi ridimensionata, e in alcuni casi (ad esempio il dialogo ecumenico e l’autonomia dei fedeli laici) bloccata dalla azione pastorale di Giovanni Paolo II nel corso del suo lungo pontificato.

Nei seminari i giovani candidati al sacerdozio continuarono ad essere formati, seppure con alcuni mutamenti migliorativi, sulla base delle idee teologiche e delle prassi pastorali del periodo pre-conciliare.
Non deve apparire strano che questi sacerdoti, successivamente diventati anche Vescovi abbiano introiettato in se stessi la visione classica della Chiesa quale societas perfecta e, particolare importante, cercassero di nascondere all’esterno eventuali carenze interne, sulla base  della considerazione che si trattasse di “incidenti di percorso” e che comunque ci si dovesse comportare secondo il vecchio aforisma ecclesiale che “i panni sporchi si devono lavare in famiglia”.


Non sarà stato questo il motivo di fondo per cui i Vescovi interessati hanno preferito nascondere i casi emersi di pedofilia, al limite segnalandoli, in gran segreto, alla Congregazione per la dottrina della Fede?


E non sarà stato questo il motivo per cui il Card. Joseph Ratzinger, Prefetto di tale Congregazione, pur consapevole di quanta “sporcizia” si stesse accumulando all’interno della Chiesa cattolica continuò ad operare per pulire questa sporcizia ma sempre nella massima riservatezza e profondo nascondimento?



E non sarà stato questo il motivo per cui Joseph Ratzinger, divenuto Papa Benedetto XVI, una volta accortosi, da grande uomo di pensiero e fine intellettuale quale egli era, che la strada intrapresa  non era quella giusta, rassegnò, l’11 febbraio 2013, le dimissioni da sommo pontefice della Chiesa cattolica?
Forse Joseph Ratzinger, intellettuale e teologo di grande spessore, ma con scarse inclinazioni pastorali e politiche , si rese conto di non essere in grado di gestire un problema così grande e così nuovo per la Chiesa di Roma (anche perché circondato da collaboratori non sempre pienamente affidabili) e prese la lucida decisione di dimettersi ben consapevole che, sulla base dell’ordinamento della Chiesa di Roma, la decadenza del Papa avrebbe comportato automaticamente la decadenza di tutti gli incarichi dei suoi collaboratori.

La sua uscita di scena avrebbe aperto una nuova fase, anche se forse della stessa lo stesso Benedetto non prevedeva bene gli sviluppi.
Il nuovo Conclave avrebbe eletto Papa, con grande sorpresa di tutti i  commentatori l’argentino Card. Jorge Bergoglio, che prese il nome, anche esso sorprendente, di Francesco.





La “sorpresa” Bergoglio
    

Come è stato possibile che un Conclave, composto in larghissima parte di cardinali, di orientamento tradizionalista, scelti da Giovanni Paolo II e Benefetto XVI, abbia potuto eleggere al soglio pontificio un cardinale notoriamente progressista come Bergoglio?
Alcune considerazioni.
In  primo luogo è da notare che, già nel precedente conclave del 2005, nel corso del quale venne eletto Benedetto XVI, il cardinal Bergoglio raccolse ampi consensi e si piazzò secondo per numero di voti dopo il cardinal Ratzinger.
Viene da pensare che la sua persona godeva di una stima trasversale tra gli schieramenti presenti in Vaticano, forse anche per le sue capacità pastorali e comunicative che lo ricollegavano a Giovanni Paolo II e che mancavano a Benedetto XVI.

In secondo luogo, se è vero che Bergoglio passava per un prelato molto attento alle questioni sociali, è pur vero che la sua fedeltà alla dottrina (in particolare a quella riaffermata nel Concilio Vaticano II) era fuori discussione.
In terzo luogo è da considerare che, contrariamente ai conclavi precedenti (in particolare fino a quelli del 1978 che elessero i due Giovanni Paolo), in questo conclave non solo la componente italiana,  ma anche quella europea,  era in netta minoranza rispetto al numero dei cardinali provenienti dai Paesi extraeuropei.
Tutti questi cardinali, anche se di orientamento tradizionalistico, erano tuttavia immuni dai difetti della maggior parte di quelli europei, in larga parte coinvolti o cointeressati alle trame della Curia vaticana.

Anzi l’ostilità alla Curia e l’intenzione di procedere ad una seria e incisiva riforma della stessa, si è dimostrata come una formidabile spinta unitiva anche fra cardinali che magari avevano visioni pastorali diverse su altri punti.
In quarto luogo occorre anche tener presente l’elevato livello culturale dei Cardinali ai quali (anche grazie al sostegno di loro autorevoli collaboratori) non manca la capacità di capire le dinamiche e i movimenti della società ecclesiale e di quella civile intorno a loro, nonché le nuove istanze che queste società esprimono.
Last but not least quello che potrebbe sembrare un pettegolezzo e che invece è una cosa estremamente seria, la questione del Gruppo di San Gallo.

Il card. Danneels, Arcivescovo (ora emerito) di Bruxelles ha tranquillamente ammesso, in una sua autobiografia, che l’elezione di Bergoglio fu preparata dal cosiddetto “Gruppo di San Gallo” che si riuniva ogni anno, dal 1996, a San Gallo in Svizzera e che aveva tra i componenti più importanti, oltre allo stesso Danneels, anche l’italiano gesuita card. Carlo Maria Martini.
Tutta questa serie di fattori portò, il 13 marzo del 2013, alla (quasi) sorprendente elezione di Papa Francesco.





Papa Francesco in azione


Dopo pochi mesi (il 24 novembre 2013) il Papa emanò quello che si può considerare il documento programmatico del suo Pontificato: l’Esortazione apostolica “Evangelii gaudium”.
Ai fini della nostra riflessione due punti sono particolarmente da sottolineare.
Nel paragrafo 33 il Pontefice scrive :”
La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità”.
E’ un invito, impensabile solo pochi mesi prima,  a mettere in discussione i metodi pastorali fino allora seguiti e a individuarne di nuovi dopo aver preso atto dei mutamenti avvenuti nella realtà ecclesiale e civile.
Ancora più impressionante è quanto è scritto nel paragrafo 40: “
in seno alla Chiesa vi sono innumerevoli questioni intorno alle quali si ricerca e si riflette con grande libertà. Le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola. A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo”.

Se solo si pensa allo sforzo intrapreso sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI per uniformare la pluralità di correnti di pensiero emerse nel post Concilio, non si può non notare questo netto rovesciamento, laddove addirittura si invita a riflettere con grande libertà.

Del resto è importante sottolineare che, nella misura in cui si parla della necessità di rinnovare metodi pastorali superati e di usare la massima libertà nel trovare nuove vie per meglio evangelizzare, si arriva inesorabilmente ad un radicale superamento della concezione della Chiesa “Societas perfecta” nell’ottica di una visione alternativa di “Ecclesia semper reformanda”.
Non deve stupire che, sulla base di queste premesse e del continuo invito di Papa Francesco a usare la “parresia” nei rapporti interpersonali, i veli di segretezza che avevano nascosto e coperto fatti esecrabili come quelli relativi alla pedofilia sono stati sempre di più sollevati facendo venire in evidenza l’ampiezza e la gravità del fenomeno.
Il superamento della concezione della Chiesa società perfetta e l’assunzione del paradigma della Chiesa società in continua riforma ha fatto da volano a quella che, mutuando un termine usato per identificare un carattere della Russia post-comunista, potremmo chiamare la “glasnost” vaticana.


Sono stati due i momenti fondamentali nei quali il confronto fra le due visioni di Chiesa è emerso con chiarezza.


Il primo si è verificato nell’ottobre del 2015 durante l’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia (il titolo era “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”).
In particolare il confronto più acceso riguardò la possibilità di ammettere ufficialmente alla Eucarestia le persone divorziate che avessero contratto un nuovo legame.
Da parte dei Vescovi conservatori si premeva affinché venisse confermato il divieto tradizionale di accedere all’Eucarestia sulla base della motivazione che il divorzio fosse incompatibile con l’Eucarestia Sacramento dell’unione di Cristo con la Chiesa.
Da parte dei Vescovi più aperti (e pare anche da parte del Papa) si cercava di superare questo divieto sulla base della necessità di un dialogo più stretto e costruttivo con tutti i credenti, anche con i divorziati che avevano contratto un nuovo legame.
Anche per effetto della mediazione dell’Arcivescovo di Vienna, Cardinal Schoenborn (fra l’altro allievo di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI) si trovò una soluzione che venne poi esplicitata nella esortazione apostolica post-sinodale Amoris letitia di Papa Francesco.

Si convenne che questi casi dovevano essere frutto di un attento discernimento pastorale da parte dei singoli Vescovi (o di loro sacerdoti espressamente delegati) al fine di effettuare insieme alle persone coinvolte un prudente cammino di accompagnamento.
I due termini chiave, “discernimento” e “accompagnamento” facevano intravvedere una visione pastorale dinamica (si accompagna qualcuno verso un obiettivo…) ma si lasciava impregiudicata la questione sull’accesso o meno alla Eucarestia.
Il fatto che si accennasse chiaramente ad un cammino dinamico di riflessione e di movimento (discernere e accompagnare) e che, soprattutto, non venisse confermato il divieto espresso di ricevere l’Eucarestia, ha fatto concludere che il divieto fosse, di fatto abolito.
I Vescovi conservatori potevano sostenere che nulla era stato cambiato, quelli progressisti potevano sostenere che nulla c’era più di pregiudicato in maniera definitiva.
Ancora una volta la Chiesa cattolica aveva superato l’impasse ricorrendo allo strumento classico di non ammettere nulla di errato nelle conclusioni precedenti ma di poter dichiarare di avere solo approfondito la ricerca di una verità più piena.



Il secondo momento di confronto è avvenuto nell’ottobre 2019, nel corso del Sinodo sull’Amazzonia, durante il quale un folto gruppi di Vescovi (anche stavolta pare con la simpatia di Papa Francesco) aveva ipotizzando di dichiarare (anche se su base eccezionale) il superamento del celibato sacerdotale, permettendo l’accesso al sacerdozio anche a uomini sposati di specchiata probità (i cosiddetti “probi sposati”).
Anche questa volta il confronto fu molto acceso e coinvolse anche il Papa emerito Benedetto XVI che prese posizione, in modo eclatante, contro l’abolizione del celibato.
L’esortazione apostolica post-sinodale “Querida Amazonia” di Papa Francesco non ha accolto la proposta di abolizione del celibato sacerdotale (presente nel documento finale dei Vescovi) ma, secondo alcuni esegeti, nemmeno ha posto un divieto così netto sulla questione, permettendo forse che qualche Conferenza episcopale nazionale possa ritornare presto sull’argomento in modo positivo.

Questi due esempi mostrano con chiarezza che nella Chiesa convivono, e si equivalgono anche numericamente, le due visioni contrapposte della Chiesa come societas perfecta oppure come ecclesia semper reformanda, questo anche se il Papa regnante spinge decisamente nella seconda direzione.





E ora che succederà?

Più si aprono gli spazi di confronto e democrazia seppure parziale nella Chiesa (non è un caso che il prossimo Sinodo abbia come oggetto “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”), più il Papa appare deciso a continuare nella sua dura lotta contro il cancro della pedofilia nella Chiesa.
Ci si può domandare se questo cammino verso una maggiore trasparenza (prima l’abbiamo chiamata “glasnost” ricordando l’operato di Gorbaciov in Russia) sia ormai irreversibile o se, con un nuovo Papa, la situazione potrebbe cambiare.
In altre parole questa “primavera” della Chiesa fondata su una maggiore sinodalità potrebbe essere interrotta nel futuro? Potrebbe esserci un ritorno integrale alla visione della Chiesa come societas perfecta?



Già in passato la Chiesa ha alternato momenti di grande apertura con altri in cui l’aspetto conservativo ha prevalso.
Senza andare troppo in là nei secoli basta pensare, ad esempio, all’azione di Papi aperti dal punto di vista della pastorale sociale come Leone XIII (pontefice dal 1878 al 1903) seguito da un Papa intransigente nella lotta ad ogni forma di modernismo e di autonomia del laicato come Pio X.

Benedetto XV e Pio XI furono tutto sommato pontefici di transizione rispetto all’avvento di Pio XII (pontefice dal 1939 al 1958), personaggio di grande carisma che resse la Chiesa con mano ferma ma anche autoritaria reprimendo ogni forma di dissenso interno.
A Pio XII successe Giovanni XXIII che, in maniera inattesa, spalancò le porte della Chiesa e indisse il Concilio Vaticano II, di cui abbiamo parlato diffusamente nella prima parte di questo scritto.
Si può aggiungere che, anche nei momenti nei quali ha prevalso la visione gerarchica e autoritaria ci sono state figure come quella del Cardinal Mercalli (durante il regno di Pio X), dei Cardinali Bea e Lercaro (durante il lungo regno di Pio XII), del Cardinal Martini (durante il pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI) che hanno costituito punti di riferimento per l’area più aperta e progressista del mondo cattolico.


Se si immagina graficamente il cammino della Chiesa verso una maggiore sinodalità decisionale e una maggiore trasparenza dei processi, non possiamo certo pensare ad una retta che lentamente punti verso l’alto ininterrottamente, ma forse più ad una curva sinusoidale con una alternanza di punti bassi e punti alti in cui comunque i punti più bassi gradualmente sono sempre ad una altezza maggiore dei precedenti.  



Bisogna ammettere che Papa Francesco sta facendo di tutto affinché gli sforzi che lui sta compiendo per far si che la Chiesa non torni indietro.
E’ interessante anche rendersi conto di alcuni cambiamenti di linea pastorale che lui ha condotto in questi anni.
Pochi mesi dopo la sua elezione a Papa, nel novembre 2013, Francesco promulgava l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, nella quale praticamente anticipava il programma e la metodologia pastorale del suo pontificato.
Nel paragrafo 223 del suo documento all’interno dei passi dedicati al principio “il tempo è maggio dello spazio” il Papa scrive: “
Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci.”

Il suo programma inizialmente prevedeva dunque di dar vita a nuovi processi piuttosto che ad occupare spazi di potere per contornarsi di collaboratori fidati che la pensassero come lui.

I suoi primi passi furono ispirati ad una grande prudenza. Basti pensare che ci ha messo 7 mesi per sostituire il Cardinal Bertone (Segretario di Stato di Benedetto XVI che la maggioranza dei Cardinali vedeva come il diretto responsabile di alcune gravi lacune durante il pontificato di Benedetto XVI) con Pietro Parolin, poi Cardinale, Nunzio apostolico in Venezuela e uomo di piena fiducia di Francesco.
Lo stesso avvenne con il Cardinal Ludwig Muller, nominato da Benedetto XVI in un incarico fondamentale come quello di Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede e sostituito da Francesco solo nel luglio 2017, nonostante in varie occasioni Muller avesse espresso perplessità sulle opinioni e sulle linee pastorali di Francesco.

Le poche nuove nomine decise da Francesco, soprattutto nel campo della comunicazione e della finanza, non si sono rivelate tutte felici.
Inoltre si aveva la sensazione che i processi (il “tempo” citato nella Evangelii nuntiandi”) senza un adeguato sostegno da persone che li condividessero, segnavano il passo o addirittura non si muovevano.
Il Papa pareva a capo di un “sistema” che non lo seguiva.
Di qui il cambio di passo e l’improvvisa decisione di occupare gli “spazi”, procedendo ad una serie di nomine di persone da lui fidate sia in incarichi episcopali che curiali di prestigio, con qualche concessione alla preferenza per confratelli della Compagnia di Gesù (emblematica la nomina di Padre A. Guerrero Alvez a Prefetto della Segreteria dell’Economia della S. Sede in sostituzione del Cardinal Pell indiziato di pedofilia in Australia, poi assolto).

Ora sembra che tutti i processi di rinnovamento che aveva in mente Francesco siano stati implementati e che siano seguiti da persone di piena fiducia del Papa.
L’unico campo in cui l’azione di Francesco non appare molto incisiva è quella su una eventuale riconfigurazione del ruolo dei fedeli laici (in particolare delle donne) nel sistema teologico e istituzionale della Chiesa cattolica. Il fatto che alcuni laici e alcune donne abbiano assunto ruoli importanti in Curia non cancella il fatto a loro vengono sempre assegnate funzioni consultive e non decisionali. Si continua a parlare di corresponsabilità del fedeli laici, non di co-decisione. Le decisioni rimangono di fatto accentrate nei consacrati.


Le nomine cardinalizie, a cui negli ultimi anni, ha fatto ricorso Francesco hanno ridisegnato l’orientamento del potenziale Conclave in chiave progressista.
Possiamo allora concludere che la Chiesa cattolica sia irreversibilmente incamminata verso un traguardo, se non di democrazia, almeno di maggiore trasparenza e sinodalità (intesa come capacità di ascolto, di dialogo e di condivisione più ampia possibile delle decisioni)?

Forse no, e per le seguenti motivazioni.

In primo luogo ricordiamoci che la Chiesa è, per statuto, non una Repubblica democratica, ma una Monarchia con la straordinarietà che il suo capo (il Papa) non succede al precedente per via ereditaria (come accade per gli altri monarchi) ma per elezione diretta da un corpo “aristocratico” (il Collegio cardinalizio).
Per di più, si tratta di una monarchia assoluta, in quanto il potere del Papa (governativo, legislativo, giudiziario) non è bilanciato ma solo eventualmente “consigliato” e integrato da altri poteri sempre a lui subordinati.
In una simile struttura non è assolutamente da escludere che il futuro Papa non possa correggere le linee pastorali di Francesco.



Anche perché (e questo è il secondo motivo di riflessione), se Francesco ha saputo ridisegnare a sua immagine e somiglianza i vertici della Chiesa (in particolare il Collegio cardinalizio) e ha avviato profondi processi di rinnovamento non è detto che la sua linea sia condivisa da quell’apparato burocratico fortemente autoreferenziale che è la Curia Romana abituata da secoli ad accondiscendere la volontà del Papa ma anche adusa a tutti gli stratagemmi per rallentarne l’attuazione e attenuarne i contenuti.



E’ anche vero che Papa Francesco è molto popolare fra i non credenti ma siamo certi che il contenuto della sua evangelizzazione sia condiviso ampiamente fra i cattolici?
Certo le “truppe scelte” dei principali Movimenti (S. Egidio, Focolarini…) e degli Ordini più prestigiosi (i suoi Gesuiti, i Francescani…) sono a fianco di Francesco.

Lo è anche il nucleo duro dei cattolici praticanti, il popolo delle Parrocchie, generalmente di un livello culturale medio non eccelso e incapace di superare i paradigmi più o meno dogmatici accavallatisi nei secoli (penso a temi come l’omosessualità, le unioni civili, l’Eucarestia ai divorziati, il dialogo con l’Islam, i sospetti sugli immigrati, il fine vita ecc…)? O questo nucleo duro è con il Papa per quel vincolo ontologico che lega affettivamente i cristiani cattolici al Pontefice Romano e non per quello che pensa e che predica.
Quanti cattolici delle Parrocchie e anche quanti Parroci pensano “morto un Papa se ne fa altro” oppure “i Papi passano, la Chiesa resta”?
Certo chi parla di “scisma” è fuori della realtà, ma forse non lo è chi parla di una maggioranza silenziosa che vuole bene al Papa, lo applaude anche, ma che, quando si tratta di passare dall’applauso alla azione, mostra segni evidenti di pigrizia.



Se la situazione è questa (chi scrive non ne è contento assolutamente ma ne è abbastanza convinto) si può anche ipotizzare che, come nel 2013 un Conclave a maggioranza conservatrice espresse, per timore di una Chiesa troppo dogmatica e chiusa, un Papa progressista come Francesco, in un prossimo futuro un Conclave a maggioranza progressista possa esprimere un Papa, se non conservatore, almeno più prudente di Francesco, in grado di ricomporre una unità più convinta nella Chiesa cattolica.


Non torneremo certamente alla visione della Chiesa come societas perfecta in possesso della verità assoluta e superiore a tutte le altre comunità civili, ma comunque è prevedibile che lo sforzo principale di quello che sarà il nuovo vertice sarà focalizzato sull’esigenza di dare un contenuto teologico strutturato e accettabile da tutti alla Chiesa trasparente e sinodale, “ospedale da campo”, pensata da Papa Francesco e in corso di attuazione.

Ritorna a questo punto attuale quella figura di curva sinusoidale verso l’alto che prefigura una Chiesa il cui cammino non è senza incertezze o passi indietro, ma comunque animata dallo Spirito, punta a raggiungere quella pienezza alla quale la chiama il suo fondatore, Gesù Cristo.


Roma 7/7/2019