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venerdì 14 gennaio 2011

Difendere la verità o difendere la democrazia?

Questo scritto non ha assolutamente la pretesa di esaurire l’argomento o di fornire risposte definitive, ma rappresenta solo la volontà di presentare degli spunti per iniziare un dialogo su un argomento che si ritiene fondamentale.

Il rapporto tra libertà e verità costituisce uno dei nodi più complessi e intricati della cultura contemporanea anche se viene da molto lontano. È fra l’altro un rapporto che si riflette immediatamente su quello, più concreto e politico, fra democrazia e verità.
La domanda fondamentale è la seguente: “come è possibile rispettare la libertà dell’altro allorché si pensi di essere in possesso della verità e si creda che quest’ultima non possa che fare del bene all’altro?” Non viene forse spontaneo e legittimo imporre la verità proprio per il vero bene dell’altro?
Sul fronte politico della democrazia la domanda è molto simile: “come è possibile rispettare un progetto politico alternativo, magari anche suffragato dalla maggioranza, qualora si ritenga che questo sia in contrasto con la verità?”.
I fautori del primato della verità sulla libertà sostengono che la vera libertà non è quella di scegliere qualsiasi opzione (la libertà come possibilità di fare qualsiasi cosa) ma è essenzialmente tensione verso il bene e il vero. E che il volere della maggioranza non può rappresentare un criterio scientifico ed esatto per individuare ciò che è buono e giusto.
I fautori del primato della libertà sostengono che subordinare questa ad una pretesa verità, seppure sotto forma del buono, del giusto o del vero, equivale a renderla vuota e a toglierle ogni fondamento
Quando ero un giovane studente universitario fui molto colpito e convinto dai ragionamenti di Hans Kelsen, famoso giurista della Scuola di Vienna, sostenitore della tesi che la cultura del dubbio fosse il fondamento della democrazia, in quanto solo chi dubita della propria posizione e della propria idea possa essere portato a confrontarsi con l’altro, mentre chi non dubita ma è convinto di essere in possesso della verità sia portato inevitabilmente ad imporla all’altro proprio per fare quello che si ritiene essere il suo bene.
Questa impostazione della Scuola di Vienna mi parve sostenuta dall’analisi delle dittature sorte nel 900 in Russia, Germania, Cina e Italia fondate sulla pretesa infallibilità delle ideologie totalitarie di marca comunista e fascista.
Questa posizione è anche confermata purtroppo da alcuni episodi, del passato, in cui anche il nome di Dio è stato usato per ridurre la libertà dell’altro e viene suffragata anche dall’emergenza attuale del fondamentalismo religioso.
Non si può peraltro negare validità anche alla visione contraria.
Nella Enciclica “Splendor Veritatis” di Giovanni Paolo II e in tutto lo snodarsi del pensiero di Joseph Ratzinger (ora Benedetto XVI) viene messo in evidenza come la verità sia la base per un corretto uso della libertà.
Sul piano filosofico una libertà che non tende al vero non sembra forse girare a vuoto e porsi solo come fondamento di una visione individualistica di tipo narcisista?
Sul piano politico come è possibile accettare che la democrazia prescinda da valori naturali alla stessa preesistenti e che trovano origine nella verità? Come è possibile razionalmente accettare che il destino delle persone (talvolta delle loro vite) sia in mano al volere di una maggioranza?
Anche su questo fronte si fa riferimento ai milioni di vite uccise dai regimi totalitari anche quando questi stessi erano sostenuti dalla maggioranza dei cittadini.
La fondatezza della tesi che la maggioranza non possa essere un criterio esatto e scientifico per rappresentare il vero e il giusto è stato avvertita nel tempo anche dagli ideatori e costruttori di quel costituzionalismo liberale che ha posto dei vincoli ben chiari al potere della maggioranza quali l’individuazione di precisi e inviolabili diritti di libertà (religiosa, di pensiero, di associazione, di riunione...) e il principio della separazione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario).
Successivamente alle libertà già indicate, che identificavano un’area degli individui indisponibile da parte dello Stato, ma che si limitavano ad aspetto più o meno formali, si sono andati aggiungendo i diritti, quali la libertà dal bisogno e dalla paura, che incidevano sulla situazione storico-sociale permettendo la piena partecipazione di tutti alla vita politica e economica.
Possiamo forse sostenere che questa sfera di riferimento personale inviolabile da parte di individui o di istituzioni (anche se a base maggioritaria) costituisce, almeno in Occidente, il risultato di una evoluzione del pensiero collettivo che ha permesso, nel confronto costruttivo tra diverse posizioni religiose e culturali, l’emergere di alcuni valori condivisibili da tutti perché intrinsecamente ragionevoli e posti così come base di una serena convivenza civile.
I problemi rimangono su due fronti, uno territoriale e l’altro ontologico.
Il primo riguarda il nostro atteggiamento verso quelle culture di tipo orientale o africane, che hanno origine e fondamenti ben diversi da quello occidentale e che non sono assolutamente riconducibili allo schema appena delineato.
Se si ritiene che il modo di pensare e di vivere del mondo occidentale sia il migliore può venire la tentazione non solo di proporlo, ma anche di imporlo a culture differenti. La politica della “esportazione della democrazia” non è altro che il risultato di questa impostazione e, a ben vedere, i suoi risultati non sembrano buoni.
L’altro fronte aperto è ancora più delicato e riguarda la natura dell’uomo. E’ il fronte bioetico che si può esprimere in domande come queste: “quando ha inizio la vita umana?”, “quando una vita può considerarsi ancora umana?”, “può l’uomo disporre della vita?”.
Sono domande che hanno risposte diverse a fronte delle due impostazioni culturali che, nel mondo moderno si fronteggiano e che richiamano sempre, ancora una volta, il problema del rapporto tra verità e libertà.
Da una parte c’è chi sostiene l’inesistenza di criteri valoriali ultimi esterni rispetto al volere del singolo individuo, volere che diventa così il fondamento della libertà personale e unico parametro di tipo etico. La conseguenza di questa impostazione è che lo scontro di voleri non si risolve con riferimento ad un bene superiore ed esterno ai singoli ma con un procedimento di mera conciliazione tra interessi contrapposti mirando a che il risultato sia adeguato alla bisogna, ma non necessariamente giusto o buono.
Da una parte c’è chi sostiene anche in questo campo l’esistenza di diritti inviolabili, quali l’indisponibilità della vita umana, iscritti nella natura dell’uomo e pertanto non dall’uomo modificabili con norme che abbiano una legittimità morale o giuridica.
Anche in questi due campi forse non se ne uscirà se non con un sereno confronto e un dialogo costruttivo che tenga conto delle lezioni della storia, ovvero delle conseguenze pratiche che l’applicazione delle diverse culture arreca in concreto al benessere morale e materiale delle persone umane.
Da parte mia ritengo che una Verità esista, che sia esterna all’uomo e per questo di natura non umana ma divina, e che, proprio perché divina, non possa essere posseduta una volta per tutte ma che sia essa invece a possedere noi, sicché il nostro compito sia quello di continuare a cercarla scoprendola sempre di più e mettendola in pratica.
Come cristiano ritengo che questa Verità ha il volto di una Persona, Gesù Cristo, che è morto per amore per la liberazione di tutto il genere umano dal peccato e da ogni male, svelandoci appieno l’identità di un Dio Padre Amore infinito.
Nel cristianesimo, come ben rileva anche Benedetto XVI nella “Caritas in veritate”, amore e verità non possono essere separati. L’amore permette di offrire la verità senza la tentazione di imporla (anche perché non la si possiede tutta..) e di offrire le basi per un dialogo reale, la verità evita che il solo amore sfoci in un vago sentimentalismo o peggio in un confronto privo di basi reali.

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