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martedì 20 agosto 2024

Considerazioni sparse in tema di Direttiva Bolkenstein

 



 Solo dopo essermi informato sul contenuto della direttiva detta Bolkenstein (approvata nel 2006 dalla UE) e del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (che ha recepito in Italia tale direttiva) mi accingo a fare alcune considerazioni in proposito.


Questa Direttiva regolamenta la fornitura/prestazione di servizi nell’ambito del mercato europeo comune stabilendo il principio basilare della libera concorrenza e della possibilità per un prestatore di servizi  di fornire i propri in qualsiasi Paese della UE sulla base della normativa vigente nel proprio Paese di origine.
Sono stabilite, oltre ad altre minori, due importante eccezioni:

1.     Sono esclusi dalla applicazione della normativa alcuni servizi ritenuti di interesse nazionale non negoziabile (trasporti, luce gas e acqua, servizi all’infanzia…).

2.     Sono esclusi dalla applicazione della normativa vigente nel Paese d’origine materie quali il diritto del lavoro onde evitare il rischio di possibili pratiche di dumping sociale.

Per approfondimenti più dettagliati sul contenuto della Direttiva suggerirei di leggere direttamente il testo della Direttiva UE 2006/123/CE e del D. lgs 26 marzo 2010, n. 59, facilmente reperibili su internet.

L’applicazione integrale in Italia della Direttiva e del relativo decreto tarda ad attuarsi e per alcuni tipi di servizi (come ad esempio le licenze di taxi, le licenze dei venditori nei mercati rionali, le concessioni balneari, ma anche alcune attività di tipo professionale sanitario …) sono oggetto di aspro dibattito politico e di forte opposizione da parte delle categorie interessate.

Quali sono le principali obiezioni che vengono poste ai principi di fondo e alla normativa fissata nelle Direttiva?

In primo luogo viene evidenziato il forte rischio di una decisa penalizzazione degli imprenditori e degli artigiani nazionali di fronte al libero ingresso nel mercato di concorrenti provenienti da altri Paesi i quali, magari in virtù di innovazioni organizzative o tecnologiche già presenti nel loro mercato nazionale, si potrebbero permettere di praticare prezzi più bassi di quelli praticati dagli imprenditori e artigiani locali, ponendo questi ultimi in seria difficoltà finanziaria e nell’impossibilità di mantenere la forza lavoro occupata. Senza pensare che i prezzi più bassi potrebbero anche derivare dall’uso di materiali di livello scadente o ecologicamente meno sostenibili.

In secondo luogo particolarmente gli imprenditori che svolgono la loro attività sulla base di una licenza o di una concessione pubblica (es: tassisti, imprenditori balneari, piccoli venditori nei mercatini rionali…) sottolineano che il dover rimettere periodicamente in gioco la loro licenza / concessione o il dover affrontare nuovi concorrenti abbassa in maniera rilevante il valore della loro licenza o concessione annichilendo inoltre gli investimenti fatti per prestare un servizio sempre migliore.
Tutto questo aggravato dalla circostanza che la prassi consolidata in Italia del rinnovo pressoché automatico di tali licenze / concessioni ha generato il convincimento che fossero quasi assimilabili a diritti di proprietà privata e, come tali, traferiti a parenti o ceduti a titolo oneroso a terzi.

Si potrebbe replicare efficacemente punto su punto ma lo si può fare anche a partire da un ragionamento più generale.

Pare evidente che la UE abbia scelto, in vista dello sviluppo economico dell’insieme dei Paesi ubicati nel suo territorio, di affidarsi ad una politica che vede il suo fondamento in una economia mi mercato nella quale la libera concorrenza svolga un ruolo preminente.
Non ci può essere economia di mercato senza una base ampia di libera concorrenza.
L’analisi economica ha messo da tempo a punti sia gli aspetti positivi che quelli negativi della libera concorrenza.

Fra i primi quelli principali sono:

1.     la necessità, per le aziende di investire in processi produttivi caratterizzati da una forte innovazione al fine di tenere sotto controllo i costi e la qualità dei materiali, migliorare la rete di distribuzione e la soddisfazione dei clienti, in una parola aumentare l’efficienza delle singole aziende e, come conseguenza diretta, anche quella del sistema nazionale produttivo.

2.     La possibilità per i consumatori di tenere sotto controllo l’andamento dei prezzi e l’inflazione in quanto, teoricamente, a parità di condizione, scelgono i prodotti che hanno il prezzo inferiore.

Questi due aspetti positivi si realizzano solo in un quadro teorico di concorrenza perfetta che è peraltro sostanzialmente irrealizzabile (soprattutto per quegli elementi di vischiosità che la teoria economica conosce bene e che non è possibile qui approfondire) Per questo motivo spesso è necessaria una normativa che rimuova, nei limiti del possibile e della tutela del superiore interesse collettivo, gli ostacoli al libero svolgimento della attività economica sia da parte degli imprenditori che dei consumatori.  
Mi piace sottolineare che l’art. 41 della Costituzione italiana si muove proprio lungo questa linea: “L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute,
all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”


Gli aspetti principali che possono definirsi negativi in un sistema di libera concorrenza sono invece:

1.     la fuoruscita dal mercato e/o il fallimento delle aziende che non riescono a tenere il passo delle concorrenti in tema di ampiezza di investimenti, di know how tecnologico, di innovazione nei processi produttivi, particolarmente se le concorrenti provengono da un contesto produttivo estero magari più progredito o attrezzato.
Si deve sottolineare che la conseguenza immediata e dolorosa di questi fallimenti è la perdita del posto di lavoro da parte delle persone colà occupate.

2.     l’ampliarsi di un fenomeno, che si potrebbe chiamare, di ansia da “precariato imprenditoriale”, per quegli imprenditori che operano sul mercato sulla base di licenze e concessioni pubbliche (prima ritenute, per prassi consolidata, a durata illimitata) e che si trovano periodicamente a entrare in gara per mantenere le licenze (caso degli stabilimenti balneari) o quantomeno per evitare l’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti (caso dei tassisti. Quello che prima era un equivalente del titolo di proprietà diventa una concessione soggetta a obblighi e a limiti di tempo.

Non è difficile notare che i due aspetti negativi evidenziati appartengono alla stessa tipologia delle obiezioni sollevate da alcune categorie economiche nei confronti della Direttiva Bolkenstein.
Come si può rispondere a queste obiezioni e come si possono attenuare gli effetti negati della implementazione di un regime di libera concorrenza come quello previsto dalla Direttiva Bolkenstein?

Innanzitutto, se si presuppone di voler restare nello schema di riferimento del capitalismo democratico, basato sui principi di libertà di iniziativa economica e di libera concorrenza inseriti in un regime politico-costituzionale di liberaldemocrazia rappresentativa, la teoria economica è quasi unanime nell’affermare che i vantaggi della libera sono nettamente superiori agli svantaggi conseguenti ad essa.
Peraltro nemmeno si può prescindere, nel valutare l’efficienza di un sistema o di uno strumento economico, da considerazioni di tipo sociale, economico ed anche emotivo-psicologico.
In un Paese come l’Italia nel quale

1.     sicuramente il rischio di impresa non è un elemento caratterizzante della mentalità comune;

2.     un livello economico stabile ma medio- basso è quasi sempre preferito ad  un livello più alto ma con minori probabilità di stabilità nel tempo,

3.     un sistema corporativo diretta emanazione di una determinata visione del cattolicesimo sociale e della teoria economica del fascismo prevale nettamente su visioni più orientate alla competizione e alla meritocrazia;

non è difficile comprendere perché il capitalismo democratico (anche nella versione edulcorata della economia sociale di mercato di ispirazione tedesca) e il principio di libera concorrenza non godano di particolare favore e, anzi, suscitino più di una opposizione.
E’ pertanto ben comprensibile (ma non condivisibile) che larghi strati delle categoria produttive (liberi professionisti, possessori di licenze e di concessioni, aziende operanti in regime di semi-monopolio…) siano estremamente ostili ai princìpi e alla applicazione della Direttiva Bolkenstein e usino tutti gli strumenti a disposizione (non ultimo il ricatto elettorale verso le parti politiche che rappresentano i loro interessi) per ritardarne se non addirittura bloccarne l’applicazione.

A mio sommesso parere non si possono condannare a priori tali posizioni, bensì tentare di capire, provare empatia e stimolare i pubblici poteri a implementare azioni in grado di attenuare, in casi specifici, gli effetti negativi della introduzione di una maggiore concorrenza.
Ad esempio nei casi di licenze o concessioni perché non condividere con le categoria interessate (penso soprattutto ai tassisti e ai concessionari degli stabilimenti balneari) un percorso di liberalizzazioni con tappe e scadenze ben fissate e vincolanti nella vista dell’apertura alla previsione di un maggior numero di licenze o alla messa in gara quelle presenti?
Occorre peraltro sempre tener presente che, per la Costituzione italiana (art. 41), il diritto di proprietà e quello di libera iniziativa economica non sono illimitati ma hanno comunque una funzione sociale e sono anche essi soggetti ai doveri inderogabili di solidarietà sociale ed conomica di cui all’art. 2 della Costituzione stessa.

Quello che assolutamente non è possibile fare, se si vuole rimanere nel contesto politico della Unione Europa è cedere sul principio della libera concorrenza (anche temperata, me non bloccata, da provvedimenti correttivi).
L’alternativa, pienamente legittima in un regime democratico rappresentativo è quella di uscire, se una maggioranza parlamentare fosse d’accordo, dalla Unione Europea. Fermo restando che con una Costituzione come la nostra sarebbe comunque oltremodo difficile, se non impossibile uscire da un sistema di capitalismo democratico.

Roma 21/08/2024                                                                Giuseppe Sbardella

 

venerdì 9 agosto 2024

Ma la tensostruttura alla Stazione Termini è un reale problema?

 L’idea dell’Amministrazione comunale di Roma (in particolare dell’Assessorato delle politiche sociali) di installare a Piazza dei Cinquecento una tensostruttura (ovvero un tendone attrezzato) per l’accoglienza di persone senza fissa dimora e di immigrati più o meno regolari, ha suscitato diverse perplessità soprattutto (ma non solo) fra la maggioranza dei residenti e dei commercianti dei due rioni coinvolti (Castro Pretorio ed Esquilino.

La prima e fondamentale perplessità nasce dalla ubicazione scelta per l’installazione della tensostruttura, nel piazzale prospiciente la Stazione Termini e proprio davanti a due sedi del complesso culturale del Museo Nazionale Romano (il Palazzo Massimo e le Terme di Diocleziano).
Non pare una scelta ponderata quella di far trovare i turisti o i pellegrini giubilari (il 2025 sarà l’anno del Giubileo!) che volessero accedere alle due sedi museali, di fronte a povere persone sbandate, spesse volte fuori di senno o ubriache che creerebbero ostacoli di tipo psicologico o anche fisico alla visita di due bellissime strutture che arricchiscono Roma.
Vero è che le autorità politiche comunali coinvolte obiettano che la tensostruttura è stata pensata proprio per accogliere queste persone che vagabondano sbandate dentro e fuori la Stazione Termini e che, in presenza di locali attrezzati per accoglierle, sarebbero ben liete di lasciare la strada e i marciapiedi come luogo per mendicare cibo, dormire e, purtroppo,… fare anche i propri bisogni fisiologici!

Ma questa obiezione sollevata dalle autorità comunali dà origine alla seconda perplessità. L’esperienza concreta dei residenti e commercianti del territorio (a cominciare da chi sta scrivendo queste considerazioni) è che la maggioranza delle persone senza dimora e degli sbandati non hanno particolare voglia di essere “accolti” in queste strutture predisposte per loro.
Magari accettano anche di mangiare alle mense preparate per i loro bisogni di nutrimento ma difficilmente accettano di dormire in queste strutture, particolarmente quando questa accoglienza è subordinata a pratiche ufficiali di riconoscimento.
Non posso dimenticare quando, durante il periodo immediatamente post Covid, l’Hub vaccinale di Piazza dei Cinquecento venne trasformato un centro per l’accoglienza delle PSD (così d’ora in poi chiamerò le persone senza fissa dimora). Passando lì davanti, a sera inoltrata, insieme ad una albergatrice della zona, non potemmo fare a meno di notare che, all’interno dello hub, pochi letti erano usati mentre parecchie PSD dormivano (o si preparavano a farlo) dentro sacchi a pelo o sotto coperte di fortuna.
La verità è che la gran parte di queste sfortunate persone perde gradualmente la loro capacità di intendere e volere e preferisce conservare il loro livello di “libertà” (!!!???) continuando a vivere per strada e accettando il panino e la coperta offerta loro quotidianamente dalle varie associazioni di volontariato piuttosto che accettare di accedere in una struttura organizzata di accoglienza dove sia obbligatoria la loro identificazione o comunque la soggezione a regole di comportamento fissate a tutela del bene comune (sia igienico che psicologico).

Non è dunque ragionevolmente sostenibile che una tensostruttura aggiuntiva (questo aggettivo verrà motivato più avanti) non sia un fattore di attrazione di PSD ma che, anzi, serva a toglierle dalla strada.

E qui sorge la terza perplessità.
Già nei dintorni della Stazione Termini sorgono, per iniziativa della Caritas e di associazioni quali Binario 95, diversi luoghi chiusi adibiti ad ostelli e a mense che fungono da punti di attrazione per PSD e sbandati di ogni genere.
E’ certamente vero che la maggior parte di queste persone tende a radunarsi, specialmente nelle ore serali, intorno alle Stazioni soprattutto perché hanno maggiori possibilità di dormire per strada ma comunque al coperto delle grandi tettoie generalmente presenti intorno alla stazioni e vicino alle uscite delle linee metropolitane. In questi stessi posti la sera agiscono diverse associazioni di volontariato per portare cibo e coperte a questi poveri sbandati.
Si crea così un circolo vizioso, le associazioni fanno il loro servizio di volontariato in questi posti dove si radunano le PSD, queste ultime si radunano lì perché sanno che potranno essere sfamate e provviste di beni a loro utili (coperte, vestiario ecc.).
Con il crescere della povertà (immigrazione massiccia più o meno irregolare, disoccupati, padri soli separati, tutti quelli che Papa Francesco chiama vittime di una economia che si fonda anche sullo “scarto” delle persone che non reggono il ritmo produttivo o lo sviluppo tecnologico….) aumenta il numero delle persone da soccorrere e tende sempre più ad accentrarsi la massa di queste persone intorno a luoghi tipici quali la Stazione Termini (ma non solo…).
Sembra chiaro che una tensostruttura aggiuntiva rispetto alle strutture già esistenti in loco non risolve il problema, anzi lo aggrava perché l’aumentare di queste strutture non fa altro che aumentare il numero delle persone che viene attratta nei territori dove sorgono.

Si è cercato di far passare per “razzisti” i residenti e i commercianti di Esquilino e Castro Pretorio che si sono opposti fermamente alla installazione della tensostruttura a Termini, ma la realtà è ben diversa.
Forse sarebbero da chiamare invece “razzisti” quegli uomini politici e quegli esperti di politiche sociali che hanno l’intenzione di trasformare il territorio di Castro Pretorio, Esquilino e, in parte, di S. Lorenzo in quello che viene definito “Distretto della solidarietà” ovvero un territorio nel quale gruppi di diversa estrazione etnica e sociale possano condividere pacificamente e costruire insieme quello che potrebbe essere rappresentare l’esempio e l’embrione di una nuova società civile multietnica, multireligiosa e multiculturale per la Roma di domani.
Procedere a dare inizio e attuale un progetto del genere senza preventivamente assegnare al territorio coinvolto strutture, personale e risorse adeguate e senza estenderlo ad altre zone della città (ad esempio intorno alle stazioni Tuscolana, Ostiense, Tiburtina) vuol dire non tenere conto della complessità della realtà e dell’ampiezza del problema (che, peraltro, si svilupperà sempre più negli anni/decenni futuri) vuol dire creare, invece che “Distretti della solidarietà”, “Ghetti degli scarti sociali”. E’ questo il reale razzismo.

Circa 3 anni fa scrivevo sul mio blog alcune considerazioni su questo tema, potrebbe essere interessante rileggerle perché, in larga parte, sono tuttora attuali. Il link per leggerle è il seguente: Seminare positivo: Quel mendicante privo di gambe... (considerazioni a partire dai Senza Fissa Dimora) (giuseppesbardella.blogspot.com)
Sintetizzando al massimo quello che ci è scritto, si possono sottolineare queste frasi riprese dal testo.
“Occorre, prima di tutto, rendersi conto che non sono a disposizione soluzioni gratuite o comunque a basso costo.
Per dare una svolta alla soluzione duratura di questo problema si renderà necessario investire risorse non scarse in:

1.    Strutture attrezzate adeguatamente per l’accoglienza;

2.    Residenze sanitarie di recupero;

3.    Reclutamento di medici, infermieri, assistenti sociali;

4.    Corsi di riqualificazione e indirizzo professionale;

il tutto inquadrato in una legge che, oltre ad autorizzare le risorse, contempli anche la possibilità, in maniera più semplificata di quella attuale, di forme di obbligatorietà nel ricovero, nel recupero e nell’avvio alla riqualificazione professionale.
La collaborazione e l’interazione, sullo stesso campo, con forme di volontariato religioso e laico, aventi già esperienza pluriennale nel settore, rappresenterebbe una condizione indispensabile per una risposta plurale, tempestiva ed efficace
.

Certo, questo è un piano che presuppone impiego ingente di risorse.
Come non comprendere però che il nostro modello di sviluppo economico fondato:
A) sulla velocità,
B) sulla interconnessione,
C) sull’innovazione tecnologica (basti pensare a tutto il mondo nella Intelligenza Artificiale), causerà 1) l’espulsione dal mondo del lavoro di molti che sono ora occupati, 2) difficoltà sempre maggiori per chi cerca lavoro, ma non ha la formazione sufficiente, 3) immigrazioni sempre più numerose originate da situazioni sociali disumane?
Tutte queste persone, in assenza di un nuovo vasto programma di recupero sociale, come quello sopra delineato, si troveranno, in quantità impensabile, per strada a fare compagnia alle PSD.
Non può essere negato che l’attuazione di un tale programma di recupero comporterebbe costi per chi ora si trova ora al “calduccio” di una comoda situazione finanziaria e che sarebbe costretto, non neghiamo l’evidenza, a cambiare il proprio livello di vita rivedendo le proprie scelte in materia di consumi, con attenzione minore a beni materiali non necessari e maggiore invece a relazioni interpersonali aperte e costruttive.
L’alternativa è uno società e uno Stato che dovrebbe ricorrere alla forza e alla violenza formalmente legittima per reprimere le richieste delle persone più povere, ovvero uno Stato autoritario.
L’attuazione di un programma di recupero e reindirizzo sociale sarebbe pesante (in termini di incidenza sullo stile di vita) nel breve-medio periodo, ma potrebbe comportare un forte rilancio nel medio-lungo periodo, una volta che il programma sia andato a regime e il recupero / reindirizzo in larga misura completato.

Aggiungerei oggi che, forse, per sostenere lo sviluppo economico sociale di queste zone candidate ad essere esempi-embrionali di una nuova convivenza multietnica, multiculturale, multireligiosa, potrebbe essere interessante, sulla scorta della esperienze delle ZES (Zone Economiche Speciali), prefigurare delle normative ad hoc per delle ZIS (Zone di Interesse Sociale) attribuendo ai territori interessanti risorse finanziarie mirate per la implementazione di progetti di integrazione e di recupero delle persone in difficoltà.

Una cosa è chiara, la presenza o l’assenza di una tensostruttura a Termini rappresenta un falso problema.
Quella che viene richiesta è una visione più ampia del problema da parte sia della società civile che dalla classo politica locale e nazionale.
 

Roma 9/08/2024