Da studente universitario, andando a piedi alla Sapienza, che era situata a circa 1 km da casa, incontravo sempre, lungo via del Policlinico, un mendicante privo di gambe sdraiato sul marciapiede nei pressi del Ministero della Difesa – Aeronautica.
Sempre ci salutavamo e ci sorridevamo (ancora, se chiudo gli occhi, vedo il suo
volto sorridente) e io solo raramente riuscivo a dargli qualche spicciolo
perché, in quegli anni, la “paghetta” dei giovani era abbastanza striminzita.
A quei tempi chi mi conosce da allora sa che era mia intenzione dedicarmi alla vita
politica e ricordo benissimo che, un giorno, passando per l’ennesima volta
davanti a quel mendicante, promisi a me stesso che, nella mia futura
attività politica, avrei dovuto sempre tener presente e tutelare / promuovere
le situazioni come la sua.
Poi la vita ha preso un’altra strada ma, proprio in questi anni, è venuto il
conto da pagare.
Il quartiere nel quale sono nato, ho vissuto per 52
anni e nel quale sono rientrato dopo 18 anni di lontananza, ha subito una forma
di tracollo e si presenta ora con un degrado sociale spaventoso.
Una delle forme che ha assunto questo degrado (aggravato dalla pandemia Covid)
è connotata dalla presenza di persone in difficoltà, senza fissa dimora (sia italiani che immigrati), clochard, mendicanti ecc.
Ho avuto l’idea di cercare di aggregare residenti intorno ad un progetto di
riqualificazione del quartiere e mi sono gradualmente reso conto che la
riqualificazione sarebbe stata impossibile senza prendere di petto la questione
dei senza fissa dimora (d’ora in poi userò, per identificarli, la sigla SFD).
Ma facciamo un passo indietro.
Quando ero ventenne lessi un libro di spiritualità (ricordo l’autore, André Sève, ma non il titolo) nel quale si
rimarcava differenza fra “carità breve” e “carità lunga”.
Per carità breve si intendevano tutti quei gesti individuali e singoli con i
quali si cerca di fare del bene a qualcuno per venire incontro ai suoi bisogni
(il cittadino che fa l’elemosina ad un mendicante, il medico che cura gratis
l’indigente, l’imprenditore che paga il giusto salario al dipendente…).
Per carità lunga si intende l’azione non tanto diretta verso il singolo quanto
verso la situazione che ha dato origine al bisogno e si esprime in
comportamenti che tendono a creare contesti o strutture in grado di venire
incontro ai bisogni di determinate categorie di persone (politiche di pieno
impiego dirette ai disoccupati, residenze socio-sanitarie dirette al recupero
dei disadattati, aziende capaci di includere anche persone a non alto
rendimento). Ma rientra nella carità lunga anche il gesto del lavoratore che partecipa
ad uno sciopero per solidarietà con lavoratori che rischiano ingiustamente il
posto di lavoro, anche se lui personalmente non lo rischia.
Ultimamente, nell’Enciclica “Fratelli tutti” anche Papa Francesco, usando
termini diversi, ha affrontato questa stessa tematica.
Al paragrafo 186 dell’Enciclica Francesco dice:
“C’è un cosiddetto amore “elicito”, vale a dire gli atti che procedono
direttamente dalla virtù della carità, diretti a persone e a popoli. C’è poi un
amore “imperato”: quegli atti della carità che spingono a creare istituzioni
più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali. Ne consegue che è «un
atto di carità altrettanto indispensabile l’impegno finalizzato ad organizzare
e strutturare la società in modo che il prossimo non abbia a trovarsi nella
miseria». È carità stare vicino a una persona che soffre, ed è pure carità
tutto ciò che si fa, anche senza avere un contatto diretto con quella persona,
per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. Se
qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità
–, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno
aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di
lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione
politica.”.
Da parte mia più che usare i termini carità breve e lunga o quelli, ancora
più complessi, di amore elicito e amore imperato, preferisco parlare di soluzione
con lo sguardo breve e soluzione con lo sguardo lungo.
L’idea di aggregare la popolazione residente nel mio quartiere in un gruppo che
si proponesse la riqualificazione del territorio mi pare possa essere definita
una soluzione con lo sguardo lungo e, analogamente, l’azione rivolta a stringere
relazioni con istituzioni civili, militari ed ecclesiali per collaborare, con
ciascuna di loro e in funzione delle le rispettive competenze, per il bene del
territorio.
Per tornare al mendicante privo di gambe e alla promessa
giovanile fatta a me stesso, ora mi trovo nella condizione di poterla onorare.
Come accennato più sopra la situazione del quartiere (vicino alla Stazione
Termini, la più importante stazione ferroviaria di Roma) è connotata dalla
presenza di persone in difficoltà SFD (sia italiani che immigrati), clochard,
mendicanti ecc.
Come alleviare, o provare a risolvere, le difficoltà di queste persone?
Certamente una soluzione con lo sguardo breve è quella di dare loro uno spicciolo,
offrire un panino, comunque provare ad allacciare con loro un qualche rapporto
interpersonale.
Sono gesti positivi, encomiabili, ma che risolvono il problema giornaliero, non
quello duraturo, di carattere esistenziale, della persona alla quale si è dato
aiuto. Anzi non di rado la peggiorano se la persona in questione, in preda a
disagio psicologico e sociale, usa quegli spiccioli per acquistare una birra e
ubriacarsi.
Ad un grado superiore si situano quelle strutture come le mense e gli ostelli
predisposti per le persone in difficoltà da parte di istituzioni perlopiù
ecclesiali. E’ sicuramente meglio, piuttosto che diluire la propria solidarietà
in più elemosine di spiccioli o panini a più persone, sommare questi spiccioli per
fare offerte più sostanziose a tali istituzioni ecclesiali, o laiche, o civili.
Ma questa soluzione, seppure con un sguardo più lungo della precedente può
realmente considerarsi conclusiva?
Ci possiamo accontentare di dare un pasto e, talvolta, un letto, spesso solo
temporaneo, a persone che per tutto il resto del giorno vagano per le strade,
dormono e fanno i loro bisogni all’aperto sui marciapiedi? Ci possiamo accontentare di dare un pasto e,
talvolta, un letto, spesso solo temporaneo, a persone con disturbi mentali che
la parziale attuazione della nota legge Basaglia (applicata in Italia in maniera
sostanziale solo nella parte che riguardava l’abolizione dei manicomi-lager) ha
gettato in mezzo alla strada?
Senza contare che spesso queste persone, particolarmente quelle con disagio psichico,
accettano di essere aiutate con offerte di spiccioli, un panino o un pranzo, ma
rifiutano decisamente se viene offerto loro un alloggio in una
istituzione di recupero.
E non è possibile, con la attuale normativa italiana, imporre loro un ricovero
per motivi sanitari, se non in casi estremamente eccezionali, perché in Italia
nessuno può essere forzato contro la propria volontà ad essere soggetto a cure
sanitarie. Mi sono chiesto quale sia il livello di possibilità reale di
manifestazione libera della propria volontà in queste persone schiave
del proprio disagio psichico. Quella del rispetto della loro volontà mi sembra
piuttosto una chiara manifestazione di ipocrisia velata di buone
intenzioni.
No! Non sono queste, non possono essere queste soluzioni durature ai problemi
di tali persone in difficoltà.
Occorre, prima di tutto, rendersi conto che non sono a
disposizione soluzioni gratuite o comunque a basso costo.
Per dare una svolta alla soluzione duratura di questo problema si renderà
necessario investire risorse non scarse in:
1. Strutture attrezzate
adeguatamente per l’accoglienza;
2. Residenze
sanitarie di recupero;
3. Reclutamento
di medici, infermieri, assistenti sociali;
4. Corsi
di riqualificazione e indirizzo professionale;
il tutto inquadrato in una legge che, oltre ad
autorizzare le risorse, contempli anche la possibilità, in maniera più
semplificata di quella attuale, di forme di obbligatorietà nel ricovero,
nel recupero e nell’avvio alla riqualificazione professionale.
La collaborazione e l’interazione, sullo stesso campo, con forme di volontariato
religioso e laico, aventi già esperienza pluriennale nel settore, rappresenterebbe
una condizione indispensabile per una risposta plurale, tempestiva ed efficace.
Certo, questo è un piano che presuppone impiego ingente
di risorse.
Come non comprendere però che il nostro modello di sviluppo economico fondato:
A) sulla velocità,
B) sulla interconnessione,
C) sull’innovazione tecnologica (basti pensare a tutto il mondo nella Intelligenza
Artificiale), causerà 1) l’espulsione dal mondo del lavoro di molti che sono
ora occupati, 2) difficoltà sempre maggiori per chi cerca lavoro, ma non ha la
formazione sufficiente, 3) immigrazioni sempre più numerose originate da situazioni
sociali disumane?
Tutte queste persone, in assenza di un nuovo vasto programma di recupero sociale,
come quello sopra delineato, si troveranno, in quantità impensabile, per strada
a fare compagnia ai SFD.
Non può essere negato che l’attuazione di un tale programma di recupero
comporterebbe costi per chi ora si trova ora al “calduccio” di una comoda
situazione finanziaria e che sarebbe costretto, non neghiamo l’evidenza, a
cambiare il proprio livello di vita rivedendo le proprie scelte in materia di
consumi, con attenzione minore a beni materiali non necessari e maggiore invece
a relazioni interpersonali aperte e costruttive.
L’alternativa è uno società e uno Stato che dovrebbe ricorrere alla forza e
alla violenza formalmente legittima per reprimere le richieste delle persone
più povere, ovvero uno Stato autoritario.
L’attuazione di un programma di recupero e reindirizzo sociale sarebbe pesante
(in termini di incidenza sullo stile di vita) nel breve-medio periodo, ma
potrebbe comportare un forte rilancio nel medio-lungo periodo, una volta
che il programma sia andato a regime e il recupero / reindirizzo in larga
misura completato.
Nel mio piccolissimo ambito cercherò di spingere in
questa direzione, mantenendo la promessa fatta a me stesso, più di 50 anni fa,
a quel mendicante privo di gambe.
Roma 11/02/2021 Giuseppe Sbardella
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