Il miraggio del “nasone”
Mi sono sempre chiesto cosa è che spinge centinaia di
migliaia di africani e asiatici a lasciare le loro città e i loro villaggi, ad
affrontare viaggi pieni di pericoli sulla terraferma, di rischiare la morte di
annegamento nel mediterraneo, pur di giungere in Italia.
Possibile, mi sono chiesto, che in un mondo globale e connesso come il nostro,
non abbiano visto le immagini dei loro connazionali magri, sdraiati a dormire sui
marciapiedi vestiti con abiti di fortuna, oppure in fila per un piatto di cibo
alle mense della caritas o ad aspettare il panino portato dalle organizzazioni
di volontariato? che non abbiano visto le donne condotte a prostituirsi o gli
uomini più robusti lavorare come bestie sui campi con un salario di mera sopravvivenza?
Vale la pena affrontare viaggi densi di percoli, per una vita come questa?
Qialche lume mi è venuto dal racconto che una persona
in divisa (per motivi di privacy non posso fornire maggiori informazioni),
sicuramente non un “buonista” mi ha fatto qualche settimana fa.
“Stavo di pattuglia quando mi sono imbattuto in un gruppo di africani
assembrati in un piccolo locale puzzolente e sono intervenuto per farli allontanare.
Ne ho riconosciuto uno in particolare.
Nel corso dei miei giri di controllo del territorio avevo avuto modo di parlare
con lui, sapevo che era il loro leader e che questa sua supremazia derivava dal
fatto che era figlio di un capo tribù africano.
Non mi sono potuto trattenere dal chiedergli: <<ma non vedi in che condizioni
vivete qui? Perché non dici a tuo padre e agli altri capi tribù di bloccare
questa emigrazione verso una vita disumana se non verso il suicidio.>>
Lui mi ha risposto: <<sai, mio padre non voleva che io partissi, ma io
sono scappato e sono riuscito ad arrivare in Italia. Nel mio villaggio ogni
mattina i maschi adulti andavano nella foresta o al villaggio più grande (a 5
ore di distanza) a procacciarsi il cibo e qualche volta neppure tornavano. Le donne si incamminavano per andare a
prendere l’acqua ai pozzi a chilometri di distanza e spesso capitava di
trovarlo secchi… e senza acqua non si vive!
Qui in Italia comunque riusciamo in qualche modo a mangiare, coltiviamo la
speranza di trovare un lavoro e, soprattutto, abbiamo il “nasone”>> indicandomi ad un centinaio di metri la
fontanella storica dei quartieri romani, chiamata nasone per la sua forma.
<<Quando a mio padre ho detto che avevo l’acqua sempre disponibile ad un
centinaio di metri non ci credeva. Anzi mi può fare un piacere, ci possiamo
fare un selfie lei, in divisa, ed io davanti al nasone? così mio padre
sicuramente mi crederà.>>
Io ero abbastanza sorpreso e emozionato, ma ho acconsentito a farci il selfie” ha
concluso il racconto il mio amico in divisa.
Ora mi chiedo e vi chiedo, come possiamo pensare di
riuscire a bloccare l’immigrazione di queste persone disperate, affamate ed
assetate pronte a tutto pur di raggiungere i nasoni? Pensate sul serio che
respingimenti o blocchi navali possano fermare la loro migrazione? Non pensate
che, anche se ci riuscissimo almeno in parte avremmo due effetti negativi? il
primo di attirarci l’odio di queste etnie con tutte le conseguenze in termini
di aumento dei conflitti interetnici, di microcriminalità, se non addirittura di
atti terroristici; il secondo di avvertire la nostra coscienza mentre, pensando
alla vita di questi esseri umani nella loro terra, ci accusa di omicidio.
Non c’è altra strada se non accoglierli il maggior
numero possibile nel nostro Paese e intanto provare ad aiutarli nel loro.
In entrambi i casi la strada non è gratuita, ci toccherà cambiare il nostro
stile di vita, puntare a maggiore sobrietà e maggiore solidarietà.
L’alternativa è rinunciare ai retaggi culturali cristiani, illuministici,
socialisti della nostra Europa e imboccare un cammino di violenza.
Roma 5 febbraio 2021 Giuseppe Sbardella
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