Ho vinto una lotteria alla rovescia!!
Disabilità o abilità creativa? La disabilità può
essere una risorsa?
Si può essere invalidi e “vincenti”?
Si può essere invalidi e “vincenti”?
Questo scritto è dedicato a coloro che vengono
generalmente chiamati invalidi fisici, ai loro cari,
ai loro amici, ma può essere utile anche a chi
soffre di altre invalidità.
Vuole dimostrare che la vita, se presa nel senso
giusto, è sempre una cosa meravigliosa e va
affrontata a viso aperto.!
Buona lettura.
INDICE
INFANZIA E GIOVINEZZA
- Sono nato!
- Bambino
- Genitori
- A scuola
- La sindrome protesi
MATURITA'
- Lavoro
- Incontri ravvicinati con l'altro genere
- Staminali e dintorni
- Le cose che non posso fare
- Domande da difficile risposta
- Problemi di linguaggio
- Cosa c'entra la Fede?
- Ma allora l'abilità creativa è veramente una risorsa?
- L'abilità creativa è una risorsa per la società?
- E i diversamente abili psichici?
VECCHIAIA
- Rallentamenti e limiti. Gli anni che passano...
COMMENTI DEGLI AMICI
INFANZIA
E GIOVINEZZA
Sono
nato!!
26
agosto 1948, ore 22,15. Sono nato!
Molto
probabilmente sono nato contento di esserlo, non ricordo un momento della mia
vita nella quale non sia stato lieto di essere al mondo, questo mondo
confusionario, liquido (come ora va di moda dire), talvolta anche un po’
cattivo, ma sempre potenzialmente in grado di offrire tante gradite sorprese.
Pochi
(o tanti?) minuti dopo la mia nascita, mio padre si avvicina a mia madre, con
un viso che immagino sarà stato fra il contrito e l’angosciato e le comunica
(forse troppo bruscamente…) che ero nato senza il braccio destro.
Si,
sono focomelico, ossia il mio braccio destro è praticamente un abbozzo di
braccio, un “braccetto”, come affettuosamente lo definivo quando ero bambino e
pregavo la Madonna
affinché me lo facesse ricrescere.
Qualche
anno dopo si seppe che, nello stesso periodo, il talidomide, un farmaco di cui
di ignorava la pericolosità, era stato causa di molte focomelie. Però né io né
mia madre avevamo assunto il talidomide, molto probabilmente la mia
caratteristica fisica era stato originata da alcune radiazioni ai reni alle
quali mia madre si era sottoposta in quel periodo.
Molti
anni più tardi, leggendo il versetto 14 del salmo 139 della Bibbia “Io ti rendo
grazie, hai fatto di me una meraviglia stupenda”, mi è venuto da pensare
che se avessi avuto la capacità di leggerlo e di capirlo appena dopo la
nascita, non sarei stato troppo d’accordo. Le lacrime dei miei genitori mi
avrebbero convinto che non mi aspettava una gran bella vita.
Oggi
dopo oltre 70 anni, ho maturato una convinzione opposta, la vita è sempre
bella e sempre degna di essere vissuta fino in fondo.
Si “Ti rendo grazie, hai fatto di me una
meraviglia stupenda”
Questo
libro vuole proprio essere la storia della mia maturazione personale, il
tracciato dell’accettazione della mia caratteristica fisica e la consapevolezza
che l’handicap molto spesso può essere trasformato in risorsa.
Sarei
veramente molto contento se molti genitori, leggendolo, si rendessero conto che
le loro lacrime non sono sempre fondate e che i loro figli “diversamente abili”
(che pessima definizione, non sarebbe meglio dire “creativamente abili”? e
subito ne spiegherò fra poco il perché!!)
sono invece delle “meraviglie stupende”.
Invece
di lamentarsi e di compiangere il figlio dovrebbero aiutarlo a prendere
consapevolezza di se stesso.
In
fondo, ed è una considerazione nella quale credo molto, anche se la dico a mò
di battuta, ho avuto la fortuna di vincere subito una lotteria… alla rovescia!.
Non
amo molto le statistiche (anche perché penso che possano essere facilmente
manipolate e anche io, quando lavoravo, ne ho manipolata qualcuna), ma sono
certo che, mentre è normale nascere con due braccia, è un evento straordinario
nascere con uno solo.
E’
appunto come vincere alla lotteria alla rovescia!
Quando
lo dico vedo molte facce attonite, stupite, talvolta compassionevoli (poverino,
dice così per consolarsi). Non capiscono che invece ne sono convinto; anche in
questo caso, lamentarsi non ha senso, meglio vedere il bicchiere mezzo pieno.
Chi
vince una lotteria, si sente contento, perché è unico, è stato scelto dalla
sorte, è un privilegiato. Uno degli obiettivi di questo libro è proprio il dimostrare,
sulla base di una esperienza personale che anche il creativamente abile (e si,
comincio subito ad usare questo termine) , sotto molto punti di vista, può
essere considerato, oltre che unico, anche un privilegiato.
La
vita del creativamente abile è piena di sorprese, sia positive che negative, ma
anche queste ultime, se affrontate con spirito costruttivo, se vissute con
l’ottica giusta, possono, da difficoltà potenziali trasformarsi in occasioni
reali di crescita sia per la singola persona sia per chi le sta attorno, dai
familiari, agli amici, ai conoscenti, alla società intera.
Ma
nascere creativamente abile può essere visto come una vincita alla
lotteria, seppur relativa, anche sotto un altro punto di vista.
Chi
nasce con una difficoltà fisica è molto avvantaggiato rispetto a chi, durante
la sua vita, incorre in esso. Infatti ha davanti a sé mesi e anni per capire
come convivere con la sua difficoltà, trovare mille modi per compensarla o per
trasformarla in una risorsa, per accettarla psicologicamente e sentirsi sempre
e comunque una persona umana.
Chi
invece diventa creativamente abile durante la vita, per esempio a causa di un
incidente, affronta problemi ben maggiori.
Infatti,
per esempio, chi, come me, nasce senza il braccio destro e, pur non essendo mancino (io preferisco la gamba destra per
giocare al calcio) diventa necessariamente mancino, oltre a poter inventare e
sperimentare, da subito, mille modi per compensare la difficoltà fisica,
rispetto a chi perde in seguito il braccio destro, ha il vantaggio di non avere
alle spalle “il peso” di una abitudine ad usare normalmente il braccio destro
per svolgere le attività più consuete.
Chi
perde il braccio durante la vita, ha maggiori difficoltà ad abituarsi in quanto
già ha alle spalle tutto un periodo, più o meno lungo, dell’esistenza, in cui è
stato abituato a pensare e a comportarsi da “destro”.
In
entrambi i casi, sia che la disabilità risalga alla nascita sia che sia
intervenuta in un momento successivo, la persona interessata può inventarsi tanti
modi per compensarla e, appunto “creare” una abilità (molto spesso
piena) utilizzando semplici tecniche motorie, utilizzando appositi strumenti o...
chiedendo aiuto a qualcuno.
Ad
esempio, pensate che, davanti ad una porta chiusa, una persona priva di un
braccio e con quell’altro occupato, non possa suonare il campanello? Vi
sbagliate, avete mai pensato che esiste una fronte o un gomito, o un ginocchio,
con i quali si può tranquillamente spingere un pulsante?....
Ecco
perché invece di “disabile” (che presuppone la incapacità di fare qualcosa) o
“diversamente abile” (che presuppone una persona diversa dalla norma)
preferisco parlare di “creativamente abile” per definire
una persona che fa le stesse cose degli altri utilizzando la propria mente e la
propria fantasia.
Bambino...
Non
è stato facile, quando ero bambino, convivere con il mio “braccetto” (così
chiamavo il mio moncherino).
Mentre
andavo in giro, sentivo spesso su di me gli occhi delle persone che incontravo.
Talvolta mi fissavano (o meglio fissavano la mia parte destra) con curiosità,
altre volte prima posavano lo sguardo e poi lo giravano da un’altra parte come
fa un ragazzo che è sorpreso da una ragazza mentre scruta le sue “forme”. E
forse questo secondo caso mi arrecava più disagio del primo.
Altre
volte non mi accorgevo di essere guardato, ma magari ci pensava mia madre a
farmene accorgere, gridando all’incauto spettatore: “che hai da guardare?
Maleducato!”
E’
terribile, per un bambino con delle difficoltà fisiche sentirsi osservato con
curiosità, quasi si trattasse di un oggetto strano, ci si sente non solo
diversi ma, di una diversità tale da provare la sensazione di non appartenere
alla stessa razza umana.
Solo
da adulto ho imparato a razionalizzare e a giustificare: è assolutamente normale
che il nostro sguardo si fissi o abbia un sussulto quando viene sorpreso da un
gesto o un fatto (l’assenza di un braccio) che non rientra nella quotidiana
realtà ordinaria. Occorrerebbe aiutare i ragazzi a prendere atto subito di questa
normalità, e aiutare tutti ad evitare sguardi insistenti (o “fuggitivi” che
costituiscono l’altra faccia della medaglia) verso i creativamente abili.
Comunque
mia madre anche se talvolta, come appena notato, era proprio lei la causa del
mio turbamento, da un altro punto di vista mi è stata di molto aiuto.
Ricordo
con precisione quando, in alcuni casi, le chiedevo aiuto per portare a termine più facilmente
una azione e lei si rifiutava invitandomi con decisione a fare da solo e ad
inventarmi il modo per compierla autonomamente..Proprio così, dalle piccole difficoltà di ogni giorno (allacciarmi i bottoni della camicia, farmi il nodo della cravatta...sì anche quello me lo faccio da solo) imparai ben presto che c’erano poche cose che non ero in grado di fare.
Ricordo
bene un episodio che ritengo basilare per la mia formazione e per la mia
convinzione di essere una persona fondamentalmente autonoma, nonostante la mia
caratteristica fisica.
Eravamo
ad Ostia in vacanza, di tardo pomeriggio, e avevo iniziato con mia madre uno di
quei giochi infernali, fatti di domande insistenti e insidiose, che solo i
bambini possono inventare.
Il
gioco era: “vedi che questa cosa con un braccio solo non la posso fare? Non
sono uguale agli altri bambini”.
E
mia madre, con pazienza e inventiva a rispondere.
“Mamma,
non posso allacciarmi le scarpe da solo”, “Non c’è bisogno, puoi indossare i
mocassini”.
“Mamma,
non posso sbucciarmi la frutta da solo”, “Non c’è bisogno Giuseppe, puoi
prendere i succhi di frutta oppure, ancor meglio in alcuni casi, lavare la
frutta e mangiare anche la buccia, piena di vitamine”.
“Mamma,
non posso mettermi l’orologio da solo”, “Non è vero, Giuseppe, ci sono gli
orologi che si collegano ai pantaloni tramite una catenina” (oggi con i
telefoni cellulari sarebbe stata una domanda inutile…).
Finalmente
pensai di aver trovato la domanda fulminante che l’avrebbe messa KO.
Ricordando
tutte le volte che eravamo andati con il pattino in mezzo al mare, con lei che
era un’ottima rematrice, esclamai: “Mamma non potrò mai remare, perché i remi
sono due e io ho un solo braccio”.
Ancora
una volta la risposta di mia madre mi fulminò: “Non è vero, Giuseppe, tu
conosci le canoe, le hai viste nei film, le canoe possono essere guidate con un
solo remo che ha una pagaia ad ogni estremità”.
Mi
arresi, ma fu una resa importante perché confermò in me l’intima convinzione
che nulla mi era effettivamente impossibile e che ero uguale agli altri.
Da
adulto ora mi rendo conto che effettivamente per alcune incombenze ho necessità
dell’altrui aiuto, ma la convinzione di fondo di quel giorno è rimasta.
Genitori
Sono
molto vicino ai genitori di figli creativamente abili. Nessun genitore si
aspetta di avere un figlio con quelle caratteristiche e la mente spesso rifugge
da simili pensieri.
E’
normale che quando accade ciò che nessuno si augura che accada, si possano
avere differenti reazioni.
La
prima è di rifiuto della situazione, talvolta di rifiuto emotivo anche di quel
figlio, considerato diverso dagli altri, un figlio che non avevano immaginato e
che, in qualche maniera, annulla tutte le loro aspettative, rende vani i loro
sogni, prefigura per loro una vita ben diversa da quella che avevano
immaginato. E’ difficile saper perdere qualcosa in cui avevamo creduto e
ricominciare di nuovo. Ma lo si può!!
Un’altra
reazione si configura come una apparente accettazione che invece è ugualmente
un rifiuto anche se espresso in maniera più sottile. Ci si attacca al figlio, lo
si coccola, lo si protegge, gli si evitano le difficoltà, i problemi con gli
altri, gli si facilita ogni cosa. In pratica si vive (o si dice di vivere...)
per lui.
E’
un comportamento umano, pienamente comprensibile ma non per questo non
meno sbagliato. In effetti non si
accetta fino in fondo la caratteristica fisica di quel figlio, lo si considera
come un oggetto da proteggere, non come un soggetto da stimolare a mettere in
atto tutte le sue potenziali capacità.
Ciò
che talvolta riesce difficile da capire è che la cosiddetta disabilità, ovvero
la difficoltà nel servirsi di una parte del nostro corto, mette in moto
l’inventiva umana e spesso si compensa la disabilità di una parte con la
maggiore abilità di un’altra. Quante volte mi è capitato di usare bocca, gamba,
fronte per compiere gesti che altri compiono con il braccio che non ho; penso
solo alle tante occasioni nelle quali, con la mano occupata ho aperto una porta
usando o il gomito, o il ginocchio o il piede.
Senza
dimenticare che talvolta, come nel mio caso specifico, l’organo residuo (l
braccio sinistro) acquista delle caratteristiche che gli permettono di
sostituirsi, seppur parzialmente, anche all’altro organo mancante. Quante volte
amici o conoscenti, vedendo quello che ero capace di fare con la mia mano, mi
hanno detto: “come fai? io non ne sarei capace se non con due mani”.
Appunto
quella che io definisco la “abilità creativa”.
Infine
c’è la reazione che, con pudore e con prudenza, si può forse definire sana.
Parlo di pudore e prudenza per il massimo rispetto che si deve avere verso la
sofferenza, il disagio dei genitori di figli creativamente abili.
Accettare
la caratteristica fisica del figlio, prendere consapevolezza che forse (ma
chissà se è poi vero..) non potrà svolgere quella professione, non potrà
prendere la strada che si era programmata per lui, accettare che la vita è
piena di sorprese e che talvolta quelle che appaiono brutte non lo sono poi
così come sembrano; questo è il comportamento che rischio di definire sano e
costruttivo.
Il
figlio creativamente abile non è un oggetto da proteggere e difendere o,
peggio, da conservare al chiuso, da tutelare da ogni rischio, oppure da
coccolare, agevolare, facilitare; è un soggetto, una persona umana,
con una caratteristica fisica particolare, che deve essere solo spronato,
stimolato a guardare oltre quella caratteristica, a prendere coscienza di tutte
le risorse alternative che ha in lui, magari anche a comprendere come quella
caratteristica comunemente considerata come negativa, possa invece assumere
risvolti molto positivi per lui.
Il
creativamente abile è e rimane sempre una persona umana, un microcosmo
esistenziale, un soggetto di diritti e di doveri, che si realizza appieno, come
tutte le altre persone, nella misura in cui si dona agli altri con amore e gli
altri ne fanno reciprocamente oggetto del loro amore.
Anche
i genitori più abili, in gioventù, a stimolare i loro figli a sentirsi uguali
agli altri, a pungerli per cercare nella loro fantasia e creatività gli
strumenti per fare le stesse operazioni che vedono fare dalle altre persone, a
farli crescere nella loro autonomia, corrono però un rischio con l’avanzare
degli anni.
La
vecchiaia è una fase della vita particolare, tutti noi abbiamo o avremo
rallentamenti o limiti, ad essa imputabile, nel nostro comportamento quotidiano.
Non riusciremo a fare, o faremo, con grande fatica, cose che prima completavamo
con facilità ed in piena scioltezza.
Ecco
allora dietro l’angolo il rischio, trasferire le nostre difficoltà sul nostro
figlio creativamente abile ma molto più giovane.
Se
noi abbiamo ora difficoltà a guidare la notte, cominciamo a temere che ce
l’abbia pure lui, se noi fatichiamo più di prima a portare dei pesi, cominciamo
a pensare che quei pesi siano insopportabili per lui, e così via...
Non
sto inventando, sto solo raccontando fatti e casi reali capitati a me con mia
madre, bravissima in gioventù a gestire la mia abilità creativa.
Solo
con gran fatica e ricorrendo all’autostima accumulata negli anni precedenti, sono
riuscito a superare questi momenti di difficoltà psicologica, di inconsapevole
pressione negativa da parte di una persona che pure mi voleva bene.
Ecco
allora il doppio suggerimento.
Ai
genitori, di essere consapevoli del pericolo e di saperlo controllare: i vostri
figli sono più giovani di voi, li avete educati bene, avete fornito loro la
consapevolezza e l’autostima necessarie per comprendere e superare le
difficoltà. Continuate ad avere fiducia nelle loro capacità!
Ai
creativamente abile, di saper cogliere questi momenti di crisi dei vostri
genitori, di saper dialogare serenamente con loro, di far prendere loro piena
consapevolezza della realtà. Mi raccomando, non fatevi trascinare in un
gioco perverso al ribasso, usate la vostra intelligenza e la vostra lucidità.
Oggi la scienza ha fatto passi da gigante e mette in grado i genitori di conoscere le caratteristiche fisiche dei loro figli sin da quando sono nel grembo della madre; per uscire fuori di metafora, mostrare loro se il figlio nascerà disabile.
Sorge
qui il doloroso problema della possibilità di ricorrere all’ aborto.
E’ un argomento che, specialmente da parte di un credente (quale cerco di essere), va affrontato con la massima delicatezza e il massimo rispetto della legittimità delle altrui opinioni.
La cultura odierna maggioritaria punta alla “perfezione” del corpo come ad un elemento da tener presente, quasi in maniera ossessiva, per la ricerca del successo personale nella vita di tutti i giorni. Avere un fisico perfetto, il famoso phisique du role” è un prerequisito essenziale, secondo tale cultura, per essere considerato un vincente.
Ma la perfezione coincide con la bellezza o meglio, la bellezza di una persona coincide con la sua perfezione fisica?
Oppure
la bellezza di una persona (non solo del corpo) presuppone la coesistenza di
elementi quali la capacità di empatia, l’intelligenza, la chiarezza dello
sguardo, l’innocenza del sorriso? Non è forse la sua bellezza in tal senso,
non tanto la sua perfezione fisica a rendere attraente una persona, a fare di
lui un vincente?
Comprendo pienamente i genitori che decidono di ricorrere all’aborto. La pressione della cultura dominante è fortissima e non so seppure se io stesso sarei in grado, nelle loro condizioni, di resistere.
Vorrei tanto però che pensassero ad una possibilità alternativa, pensassero se magari, quel loro figlio che hanno deciso di non far nascere, se nato e arrivato all’età adulta, sarebbe contento di esserci.
Porto
la mia esperienza.
Mamma
mi ha raccontato che, dopo che ero appena nato, una persona a lei molto cara,
le suggerì di mettermi nudo di notte sul balcone di casa.
Mia
madre non accondiscese al consiglio e io le sono molto grata perché ancora
oggi, seppure senza il braccio destro (e, lo ripeto non penso di essere
mancino) sono molto contento di esserci!
Il
periodo scolastico lo ricordo come un periodo molto bello.
I
miei genitori, pur a costo di grandi sacrifici, mi mandarono in una delle
scuole private più prestigiose di Roma, il Collegio Nazareno, dei Padri
Scolopi.
La
scelta della scuola privata fu originata dal desiderio di inserirmi in un
ambiente potenzialmente più protetto e sicuro rispetto a quello pubblico.
Secondo loro i compagni di classe di una scuola privata sarebbero stati più
attenti e rispettosi della mia abilità creativa (d’ora in poi userò costantemente
questo termine al posto di quello comunemente usato di disabilità o di diversa
abilità).
Manca
certo la prova contraria, ma ricordo ancora con commozione e gratitudine
l’affetto di cui mi hanno sempre circondato i compagni, accettandomi
perfettamente come uno di loro (e spero tanto che qualcuno di loro possa
leggere queste righe).
Ancora
oggi provo piacere quando mi capita di ritrovare de visu o su Internet alcuni
vecchi compagni, Mario, Giancarlo, Pigi, Luciano, Massimo, Carlo, ultimamente Paolo,
il mio carissimo compagno di banco del liceo, ritrovato dopo una lunga ricerca
su Internet e morto pochi anni dopo il reincontro.
Ricordo,
con particolare affetto quando, d’inverno, mentre uscivamo dalla classe al
termine dell’orario giornaliero, mi aiutavano a infilarmi il cappotto. Era
un’operazione non facile, non potevo farlo da solo perché prima dovevo infilare
la protesi artificiale (che allora portavo) nella manica del cappotto e poi
infilare l’intero cappotto. Se si pensa che, a quell’epoca, si stava in classe
con la giacca, si può capire la difficoltà dell’intera operazione ostacolata
dall’attrito della manica della giacca con la manica del cappotto. Magari i
miei compagni di classe avevano anche fretta di tornare a casa dopo 5 ore di
lezione eppure erano là a spendere tempo per aiutarmi.
Grazie
vecchi compagni, se qualcuno di voi leggerà questo scritto sarà lieto di
ricevere questo ringraziamento ritardato. No, non ho dimenticato quei momenti e
il vostro affetto!
Già
qualche pagina fa scrivevo che l’abilità creativa è utile al ragazzo perché lo
spinge ad utilizzare risorse fisiche o mentali che altrimenti resterebbero
atrofizzate.
Certo
io non potevo competere con la forza fisica dei miei amici o dei compagni di
classe.
I
miei genitori, su consiglio della scuola, mi fecero ottenere l’esonero completo
dalle lezioni di educazione fisica.
Ricordo
il sentimento di desolazione che mi prendeva quando, seduto su un lato della
palestra, assistevo alle esercitazioni di ginnastica dei miei compagni o,
peggio, alle loro partite di calcio. Talvolta il professore, assumendosene la
responsabilità, mi invitava a partecipare al gioco e quelli erano momenti di
vera gioia. Fortunatamente oggi la scuola prevede, per i ragazzi creativamente
abili, programmi differenziati di educazione fisica.
Ero
consolato dalla constatazione che ero privo di un braccio, ma conservavo
intatte le mie facoltà mentali!!
Mi
accorsi, con piacere, di avere una bella memoria, una discreta capacità di
elaborazione e di sintesi, una grande voglia di leggere e studiare.
No,
non sono stato mai un secchione e ho sempre tenuto a seguire i miei interessi
(prima extrascolastici poi, più tardi, extralavorativi), ma mi piaceva leggere,
approfondire, collegare le nozioni e i fatti gli uni con gli altri, trarne
conclusioni.
E
allora ecco la mia abilità creativa spingermi ad utilizzare al massimo la mia
mente, aiutarmi ad emergere sotto l’aspetto degli studi e della leadership
intellettuale.
Con il passare degli anni mi resi conto di quanto l’autostima sia necessaria per il successo morale e materiale di una persona. In quel periodo io stavo forgiando quella autostima che mi sarebbe stata utile, molto utile, negli anni futuri.
Con il passare degli anni mi resi conto di quanto l’autostima sia necessaria per il successo morale e materiale di una persona. In quel periodo io stavo forgiando quella autostima che mi sarebbe stata utile, molto utile, negli anni futuri.
Confermò la mia autostima, con molto piacere, un episodio che mi capitò in terza media.
Nella mia scuola esistevano 3 sezioni contraddistinte con le lettere A, B e C, nella prima la lingua estera che si studiava era il francese, nelle altre due l’inglese.
Io ero inserito nella sezione A su consiglio del medico di famiglia il quale, avendo io saltato la seconda elementare, preferiva che seguissi, per non affaticarmi, una lingua come il francese ritenuta più semplice dell’inglese.
La Presidenza dell’Istituto indisse una gara di lettere fra le tre sezioni della terza media, convinta che questa sarebbe stata vinta dalla sezione C nella quale, a giudizio del Preside, erano presenti i ragazzi più preparati.
La
gara si sarebbe svolta in due turni tra due terne di concorrenti delle tre
sezioni.
ll
Prof. Santelli, nostro caro docente di lettere, mi inserì nella prima terna ma
io, avviluppato dalla timidezza, chiesi
di non partecipare e il Prof. mi accontentò designando un altro compagno di
classe.
Il
primo turno di sfida non andò bene per noi e quelli della sezione C si
accreditarono come i migliori.
In
vista del secondo turno, il Prof. scelse due compagni di classe ma, ricordando
il mio precedente diniego, si guardava attorno con un po’ di angoscia perché
non trovava un terzo concorrente adeguato.
Io mi sentii un
po’ in colpa, conscio di non portare il mio contributo al bene della classe e,
all’improvviso, lanciai uno sguardo di intesa che venne accolto prontamente dal
Prof. che mi integrò nella terna.Il secondo turno di sfida e la sfida intera vennero vinti dalla nostra sezione specialmente per merito mio che ero stato capace di rispondere ad una domanda di latino, non prevista dal programma, unicamente sulla base del ragionamento. Al ritorno in classe fui portato in trionfo, con affetto, dai compagni.
Ancora
una volta mi veniva confermata la convinzione che la mia caratteristica fisica
aveva un peso poco rilevante nelle mie possibilità di successo nella vita.
Ero
ormai adolescente, cominciava a sorgere, ed era ben presente, il problema
derivante dalla difficoltà di un mio sereno rapporto con le ragazze, aggravato
dal fatto che a scuola eravamo tutti maschi.
Sentivo
la mancanza di una mia “fidanzatina”, ma
anche questa difficoltà si sarebbe ben presto risolta (e avrei semmai avuto il
problema contrario di un eccesso di “farfallonaggine” o di eccessiva leggerezza
nei rapporti con l’altro sesso).
La
sindrome protesi
Come
spesso capita a molti ragazzi, “creativamente abili” dal punto di vista fisico,
anche a me capitò di incorrere, nel periodo scolastico, in quella che io chiamo
la “sindrome della protesi”. In effetti non so se questa sindrome sia mai stata
scientificamente accertata, ma io penso che comunque esista, indipendentemente
dal fatto che sia citata o meno in qualche libro di psicologia.
Essa
consiste nell’opinione che nascondere la difficoltà fisica permetta al
ragazzo di evitare i disagi originati dagli sguardi e dalle osservazioni
altrui. Sarà pure forse parzialmente vero, ma la mia esperienza è stata
diversa.
A
6 anni, prima di iniziare la prima elementare, i miei, sempre a costo di grossi
sacrifici, mi comprarono e mi fecero utilizzare una protesi adattata per
me. Questa consisteva in un braccio artificiale, di metallo leggero (ma non
abbastanza...), all’interno del quale potevo inserire il mio moncherino, e che
era sostenuto da un legame al petto e alla spalla sinistra.
Ricordo
che ne trassi da subito ben pochi giovamenti dal punto di vista psicologico. Se
era vero che questo “coso” (così lo percepivo) perennemente infilato in tasca
poteva nascondere la mancanza del braccio, era pur vero che mi rendeva soggetto
ad altri e pesanti inconvenienti.
Mi
rendeva ad esempio molto difficoltoso il togliermi e l’indossare un
impermeabile o un cappotto, operazione per le quali era necessario l’aiuto di
un compagno di classe o di un bidello, il che sottolineava la mia mancanza di
autonomia.
Sempre
nell’ottica dei problemi che una protesi può originare ricordo un episodio che
mi causò molto disagio.
Ero
arrivato in prima media e il professore di lettere stava facendo l’appello,
soffermandosi su ciascuno di noi anche per cominciare a conoscerci.
Quando
arrivò il mio turno, come tutti gli altri mi alzai per farmi identificare.
Ricordo il commento del prof. Santelli (con il quale poi entrai in una piena
armonia personale e didattica): “Sbardella, non ci si presenta, con la mano in
tasca!!”. Mi sentii diventare rosso, non per vergogna o per rabbia (ci mancava
altro, la colpa non era del professore), ma per un profondo e vasto senso di
frustrazione che montava dentro di me.
Con
quello che restava della mia energia psicologica e della autoconsapevolezza
iniziai, con il braccio sinistro, ad estrarre la protesi dalla tasca.
Il
professore rimase a sua volta a disagio e si scusò caldamente con me, profondamente
capito. Ma ormai la frittata era fatta. Il lettore può benissimo comprendere la
mia sensazione in quel momento se ho questo ricordo così vivo a più di 60 anni
di distanza.
E che dire delle difficoltà che mi provocava la protesi, mentre giocavo? Sentivo questo “coso” che non faceva parte del mio corpo, che rallentava l’agilità dei miei movimenti che, specialmente nel periodo estivo, mi dava tanto caldo.
E che dire delle difficoltà che mi provocava la protesi, mentre giocavo? Sentivo questo “coso” che non faceva parte del mio corpo, che rallentava l’agilità dei miei movimenti che, specialmente nel periodo estivo, mi dava tanto caldo.
Una
volta, mentre correvo (ero molto veloce nella corsa) caddi e la protesi mi
sbatté violentemente sul fianco,
giungendo a togliermi il respiro, per alcuni secondi. Ricordo ancora con
chiarezza, non riuscivo a respirare, ansimavo, temevo di morire...
Comunque
questa storia della protesi andò avanti fino al diploma di maturità. Anzi non è
giusto parlare della protesi, bensì delle protesi, perché mentre il mio corpo
(e il mio braccio sinistro) cresceva, anche il “coso” andava sostituito. In
effetti il materiale con il quale veniva costruito era sempre più leggero, il
collegamento al corpo era più raffinato, ma restava sempre la forte sensazione che
un pezzo di me mi era completamente estraneo.
Nel
1966, la sorella di mia madre, zia Gabriella, con la quale ho avuto sempre un
rapporto di forte sintonia (forse perché è stata la mia madrina di battesimo..)
mi disse, a mo’ di provocazione durante un periodo di vacanza: “ma perché non te
lo togli quel braccio artificiale? Sei un bel ragazzo, biondo, con gli occhi
azzurri, intelligente, volitivo e certe volte questa tue doti vengono offuscate,
messe in ombra da una certa goffaggine e timidezza causata proprio dal braccio
artificiale. Prova a togliertelo. Fra l’altro ora siamo a Palestrina, non a
Roma, ti conoscono meno persone, per te sarà più facile iniziare qui”.
Sarà
stato l’affetto e la fiducia verso mia zia, sarà stato che ormai ne avevo piene
le tasche di sentirmi condizionato dal “coso” o che forse era maturato il
momento di una mia decisione forte, resta il fatto che me lo tolsi e cominciai
a andare in giro con la manica destra vuota e floscia infilata nella tasca.
La
prima uscita fu veramente terribile.
Avevo
la sensazione che tutti mi guardassero, che ai passanti interessasse solo la
mia manica vuota. Camminavo per strada tenendo sempre il mio sguardo puntato
davanti, in alto, in basso, ma comunque non a sinistra o a destra, ben attento
a non incrociare gli altri sguardi.
Poi
mi resi conto che non era così, che erano in buona parte solo mie impressioni,
che la gente aveva spesso ben altri pensieri e preoccupazione che badare al mio
braccio e che coloro che pur ci badavano non erano poi tanto colpiti.
Passarono
i giorni e gradualmente mi sentivo sempre meno a disagio. La famiglia (mia
madre e mio padre, zia Gabriella, zio Franco, i miei cugini, gli amici) mi
erano di aiuto e mi sostenevano nella mia decisione di liberarmi della protesi
(si, liberarmi è il termine giusto, stavo riacquistando un pezzo della mia libertà).
.
Terminato
il periodo di Palestrina, tornai a Roma e qui cominciarono di nuovo i guai. La
vergogna si impadronì nuovamente di me, un’altra volta sentii sguardi e
interessi centrati sulla mia manica vuota... ricordo che cercavo di andare
lungo le strade meno trafficate per incontrare il minor numero possibile di
persone.
Ma
anche stavolta resistetti e superai il momento critico. Dopo un mese le
difficoltà erano di gran lunga superate, potei partecipare all’Università,
sfoderando la nuova versione di un Giuseppe più libero.
Lì
conobbi i carissimi amici Enzo ed Enrico, con i quali a distanza di più di 50
anni ci incontriamo spesso, che non mi fecero assolutamente percepire alcun
giudizio.
Aveva
ragione zia Gabriella. Ora ero veramente io, mi sentivo a mio agio, non avevo
nulla da nascondere, mi accettavo così come ero e mi presentavo agli altri
nella mia interezza di persona diversa, tenendo a mente il concetto che ero ”diverso”
nella misura in cui noi tutti siamo “diversi” gli uni dagli altri, e in questo
consiste la possibilità di un arricchimento reciproco.
La
mia diversità consisteva nella presenza di un solo braccio, altri per quella di
una sola gamba, altri ancora perché portavano gli occhiali, alcuni con meno
memoria, altri con meno capelli. Occorre veicolare questo sano concetto di
diversità, siamo uomini e siamo unici perché siamo tutti diversi gli uni dagli
altri.
Circa
una decina di anni più tardi, cominciai a flirtare con una ragazza, molto
intelligente ma anche molto condizionata dalle apparenze, che mi chiese per
quale motivo non portassi una protesi.
Le
spiegai che l’avevo portata per 10 lunghi anni, che pesava, che mi sentivo condizionato,
che non mi permetteva di percepirmi pienamente me stesso.
Lei
insistette, disse che la tecnologia aveva fatto passi da giganti, che
sicuramente le protesi erano ora più leggere ed efficaci. Alla fine, reclamando
lei affetto nei suoi confronti, mi convinse a recarci insieme presso un
prestigioso negozio di apparecchi ortopedici.
Il
venditore cominciò a presentarmi una vasta gamma di nuove protesi. In effetti
la tecnologia era nel frattempo molto progredita. C’erano, ad esempio,
apparecchi molto leggeri, che si muovevano sulla base di una pressione
pneumatica (e che quando si muovevano facevano “pfffff”), altri meno
sofisticati ma sicuramente tutti erano molto più comodi e leggeri rispetto a
quelli che avevo conosciuto e portato. Una amplissima gamma di modelli tra i
quali poter scegliere.
Comunque
io non riuscivo a decidermi e ad un certo punto il venditore, viste le
insistenze della ragazza e le mie resistenze, ebbe un sospetto e mi chiese:
“scusi, ma lei lo vuole veramente un apparecchio o si sente perfettamente bene
come è ora?”. Dietro la mia affermazione che mi sentivo proprio bene, si
rivolse sorridendo (ma con una punta di rimprovero) alla ragazza “Signorina, ma
se il suo ragazzo si sente a suo pieno agio senza bisogno della protesi, andrò
pure contro i miei interessi, ma non comprendo perché costringerlo a tornare in
una situazione di disagio dal quale è uscito”.
Pochi
giorni dopo il flirt si era chiuso, avevo capito che la ragazza non era in
grado di accettarmi con la mia caratteristica fisica. Ma il “poverino” non ero
io o, perlomeno non mi sentivo io.
Anche
smettendo di portare la protesi mi restava comunque sempre l’abitudine di
portare camicie o magliette con le maniche lunghe. Non intendevo assolutamente
usare quelle con le maniche corte, restava in me uno strano (ma mica tanto....)
disagio nel pensare che qualcuno attraverso il varco della manica corta potesse
arrivare a vedere quello che non volevo che si vedesse, il mio “braccetto”.
Ero
addirittura ossessionato dal fatto che qualche bimbo, dalla piccolezza della
sua statura potesse “sbirciare” nella mia manica...
Sì,
in effetti lo percepivo come un pericolo di violazione della mia intimità più
profonda, un attentato al mio corpo, al mio essere più vero, si direbbe oggi
una violazione della mia privacy.
Si
può facilmente capire come questo atteggiamento mi creasse tante difficoltà e
mi ostacolasse nel vivere più pienamente la mia esistenza.
Difficoltà
minori come quella di stare in piena estate con le maniche lunghe e di
sopportare un caldo atroce.
Difficoltà
maggiori, che si manifestavano nella mia ritrosia ad affrontare certi luoghi
come ad esempio le spiagge o le discoteche.
E’
difficile andare e restare sulla spiaggia, magari portarsi anche sulla riva del
mare e bagnarsi le gambe mentre si indossa una bella maglietta con le maniche
lunghe (di cui una svolazzante al vento!) e invece tutti gli altri sono con
slip e con la parte superiore del corpo nuda, sguazzando nell’acqua e nuotando
tranquillamente.
Come
pure è difficile andare in discoteca e scatenarsi a ballare con una manica
vuota svolazzante sulla propria destra.
In entrambi i
casi si ha sempre l’impressione di sentirsi tutti gli sguardi addosso, si prova
un enorme disagio, una voglia matta di andarsene o di starsene in disparte. Solo pochi anni fa ho vinto questa difficoltà, anche grazie all’amore affettuoso e compartecipe di mia moglie Patrizia.
Ho preso ancora una volta (non si finisce mai...) coscienza che il mio corpo è comunque perfetto, pur nel limite di un braccio invece di due, che non ho nulla di cui vergognarmi o da nascondere, che anzi la vista del mio limite (e di come io lo vivo) può trasformarsi in una occasione per dare agli altri l’opportunità di ampliare la loro visione della vita, il loro modo di pensare alla fisicità dei corpi, di concepire la “normalità” degli esseri umani e di rivedere il loro giudizio su quelli che si reputano troppo facilmente anormali in quanto “diversi”.
Di qui la decisione, presa da pochi anni di vestire anche con camicie e magliette dalle maniche corte, mantenendo solo l’attenzione, per rispetto verso la possibile sensibilità degli altri, a nascondere la vista del braccetto.
Di qui la decisione di scendere in piscina o andare al mare, serenamente, con una maglietta con le maniche corte, bagnandomi tranquillamente fin sotto la cintola.
Di qui la decisione, presa quest’anno, di andare in acqua bagnandomi tranquillamente fino al collo, indossando solo una maglietta intima (possibilmente colorata) che celasse agli sguardi il mio braccetto.
La cosa più stupefacente è stata la sorpresa nell’accorgermi che quasi nessuno faceva caso a me, il constatare che il sentirsi gli sguardi addosso il più delle volte costituisce solo una percezione psicologica e niente più.
Proprio così come quella volta che, durante una lunga fila ad uno sportello pubblico, mi misi a conversare, per passare il tempo, con un signore al mio fianco. Dopo più di qualche minuto, durante la conversazione, feci cenno al fatto che mi mancava il braccio e questo signore, con una faccia realmente sincera, mi disse: “mi deve credere, lei porta la sua invalidità con una tale noncuranza e semplicità che, finché lei non l’ha messa in evidenza, non l’avevo notata...”.
Questo per dimostrare come i creativamente abili spesso si facciano male da soli vedendo non la realtà che li circonda ma una falsa personale percezione di quella realtà.
MATURITA’
Lavoro[1]
Devo
ammettere che sono stato molto fortunato nell’aver trovato un buon lavoro
presso un Società multinazionale seria quale l’IBM Italia e di averci lavorato
per più di 30 anni ininterrottamente.
Ma
l’inizio non era stato molto promettente, nonostante io abbia sempre
pensato e sia tuttora convinto che la preparazione scolastica adeguata e la
serietà personale e professionale siano elementi basilari per trovare un lavoro
e per consolidarlo.
Laureato
con il massimo dei voti in Giurisprudenza all’Università di Roma, in possesso
di altri titoli quali la partecipazione a numerosi e importanti corsi sia
durante il periodo universitario che subito dopo (ho anche vinto una Borsa di
studio per un Master di Diritto parlamentare all’Università di Firenze), ho
avuto grosse difficoltà a trovare lavoro.
In
primo luogo perché ci trovavamo negli anni ’70, in piena prima Repubblica, in
un momento in cui non solo i posti pubblici erano in larghissima parte
lottizzati a seconda delle parti politiche (e io non avevo un serio appoggio
politico), ma anche i privati dovevano (anche se in misura minore) fare i conti
con le richieste sindacali e politiche.
Il
problema dell’invalidità (questa volta bisogna proprio chiamarla così) esisteva
poi, e come! L’invalidità che, in teoria, avrebbe dovuto favorirmi perché la
normativa di legge prevedeva una quota di assunti per gli invalidi civili, si
rivelò presto un ostacolo difficile da sormontare.
Infatti
notai subito come fossero molteplici gli stratagemmi usati dalle Aziende per aggirare
la legge.
Uno
per tutti. Nel 1972 partecipai ad un
concorso in una Società pubblica di assicurazioni per 20 posti di funzionario.
Dopo
gli esami scritti seppi, tramite un impiegato all’interno della Società amico
di mio padre, che ero risultato nono in graduatoria e pertanto mi accinsi ad
affrontare fiduciosamente le prove orali. Dopo tali prove, nelle quali mi
pareva di essere stato brillante e gli interventi di “raccomandazioni” (o,
meglio, di “commendatizie” come lessi su un librone sbirciato su un tavolo
della Direzione del Personale) per gli altri candidai seppi, sempre
informalmente, che ero scivolato al 21mo posto!!
Poiché
avevo accertato che la
Compagnia in questione non aveva coperto la prevista quota legale
di invalidi civili (la quota avrebbe dovuto essere coperta con i candidati
risultati idonei, anche se non vincitori di concorso) chiesi formalmente alla
stessa se ero risultato idoneo. La risposta formale fu fulminante e dolorosa
per me: una lettera molto burocratica mi comunicava che non ero stato
considerato idoneo. Un’ assurdità (dato che ero al 21mo su 20 posti disponibili ed era
impossibile ritenere che non ci fossero altri candidati idonei in aggiunta ai
vincitori della selezione), ma purtroppo, essendo la graduatoria riservata ed
essendo la selezione a carattere privatistico, non avevo alcun solido appiglio
legale per presentare ricorso.
Il
lettore può immaginare la mia riconoscenza verso l’IBM (alla quale avevo
inoltrato, con poche speranze, la mia domanda di assunzione) che invece aveva
affrontato molto serenamente il problema. Mi fu chiesto, con molta gentilezza e
accortezza, dal mio primo Capo quale difficoltà pratiche mi comportava la
mancanza del braccio e, di fronte alle mie assicurazioni (l’unico reale
problema riguardava la mia impossibilità di allacciarmi le scarpe ma, per esempio,
riuscivo da solo anche ad annodarmi la cravatta) la questione fu archiviata (e
non solo a parole ma realmente!).
Sono
stato e sono ancora molto grato all’ IBM per questo approccio pragmatico e
penso che buona parte della mia fedeltà aziendale nei 31 anni di impiego sia
stata, in larga misura, anche dovuta a questo mio senso di gratitudine.
Purtroppo,
a fine 2004, dovetti rendermi conto come questo approccio IBM, che avevo tanto
apprezzato, fosse stato superato da un’altra visione. Venne infatti, in quel
periodo, lanciato il “diversity award”
un riconoscimento aziendale rivolto a premiare i progetti e le azioni tendenti
ad integrare in azienda i cosiddetti “diversi” (e venivano citati, riunendo
categorie molto diverse fra di loro, gli omosessuali, le lesbiche, le donne,
gli handicappati).
Scrissi
subito una e-mail al mio Direttore per dirgli che una delle cose che mi aveva
sempre legato all’Azienda era stata la circostanza che non mi ero mai sentito
diverso dagli altri colleghi, mentre ora il “diversity award” mi faceva sentire
tale e che mi sentivo anzi offeso da quella parte della motivazione del lancio
del nuovo riconoscimento, laddove si diceva che la diversity doveva anche
sicuramente essere considerata una
opportunità di business!! Chiedevo al Direttore, qualora lo avesse ritenuto
opportuno, di portare tale mia lamentela ai dovuti livelli.
Ricordo
la sua affettuosa telefonata, nella quale confermava la sua piena adesione alle
mia perplessità, ma mi confermava anche che riteneva inutile un inoltro della
mia lamentela agli alti livelli, perché l’iniziativa era partita dalla Casa madre americana ed era
molto difficile che la direzione aziendale italiana potesse prendere lo
distanze dalla iniziativa o potesse addirittura criticarla (anzi mi aggiunse
che forse neppure sarebbe riuscito a capirla).
Lavorando
in maniera professionale e coscienziosa ho sempre guadagnato la stima dei miei
capi che non mi hanno mai fatto pesare la mia caratteristica fisica. Anzi
magari cercavano di trovare modi per rendermi più facile il lavoro allorché
avrei dovuto usare entrambe le braccia.
E
riuscii a raggiungere anche la Dirigenza senza far parte di alcuna “cordata”
interna,
Ciò che, sulla base della mia esperienza, mi permetto di suggerire ai creativamente abili che affrontano gli ambienti di lavoro è di non sentirsi... invalidi, di non puntare alle quote obbligatorie, di sentirsi capaci, come tutti, di offrire il loro efficace contributo lavorativo.
All’inizio sarà difficile, ci saranno colleghi premurosi che vorranno aiutarvi anche laddove nessun aiuto è necessario, altri colleghi, animati da pregiudizi opposti, penseranno che la vostra venuta, dato che (nel loro pensiero) sarete meno efficienti, si trasformerà in un aggravio di lavoro per loro, vi guarderanno, talvolta con compassione, talaltra con qualcosa che, anche se non antipatia, sarà comunque un sentimento molto vicino a questa.
Dovete
resistere, dimostrare, con calma, che in alcune cose sarete superiori a loro,
in altre dovrete chiedere il loro aiuto (come loro avranno chiesto il vostro
nell’affrontare le questioni nelle quali siete più abili), che non si tratta di
ragionare in termini drastici di superiorità o inferiorità assoluta, bensì di
diverse attitudini e capacità da integrare per il bene dell’Ufficio e
dell’Azienda.
Ricordatevi
anche della vostra responsabilità nei confronti degli altri creativamente abili.
Se voi non vi comportante bene sul lavoro, fate male anche a loro, diminuendo
le possibilità di assunzione dell’intera categoria, lavorando in maniera seria
e integrata, aumenterete la fiducia dei datori di lavoro nei creativamente
abili.
E
anche per trovare lavoro puntate sullo studio, sulla capacità professionale,
sulla competenza, fatevi vedere come tutti gli altri, meglio degli altri
perche avete, nella vita sofferto di più e saprete anche soffrire di più sul
lavoro. I datori di lavoro dovranno sentirsi fieri di aver avuto fiuto
nell’assumervi.
Restare
alla larga, resistete alla tentazione di pietire una raccomandazione oppure, se
proprio volete chiederla, fatelo per stare alla pari con gli altri, non perché
siete creativamente abili e vi considerate svantaggiati.
Vedrete
che, con la perseveranza, vincerete le vostre battaglie sul luogo di lavoro.
Incontri ravvicinati
con l’altro genere
Talvolta
i creativamente abili trovano difficoltà nell’ avere un atteggiamento
sano e maturo verso le coetanee dell’altra metà del cielo.
Alcuni
portano avanti un corteggiamento insistente, che può diventare quasi
aggressivo, qualora dall’altra parte avvertono un rifiuto, talvolta (occorre
dirlo) anche guidato da preconcetti ed espresso con poca delicatezza..
Si
tratta di quei creativamente abili affetti, in maniera più pesante, da un
complesso di inferiorità causato dalla loro difficoltà fisica e che cercano di
superarlo con un atteggiamento, diciamo così, molto “attivo” ed invadente.
D’altra
parte le donne, dotate di una loro particolare sensibilità, avvertono questa
abnorme “carica” di insistenza e tendono a chiudersi in un rifiuto che può
essere decisamente netto e doloroso. Ancora peggio può accadere (anche se non
mancano eccezioni) se anche la donna è affetta dallo stesso complesso e accetta
la corte, in quanto dall’incontro di due difficoltà difficilmente può
discendere un rapporto sano e equilibrato.
Ci
sono poi dei creativamente abili in cui il senso di insicurezza originato dalla
loro caratteristica fisica li porta ad una riservatezza e timidezza estreme.
Questi
hanno difficoltà quasi insormontabili nel farsi avanti e allacciare un rapporto
di amicizia prima ancora di iniziare un corteggiamento.
In
questo caso dovranno avere la fortuna di trovare donne particolarmente
sensibili e capaci, in un primo momento, di assumere l’iniziativa di una bella
amicizia e poi, magari, anche di aprire
il cuore del ragazzo ad un diverso tipo di rapporto.
Qualora
questo avvenga ci si avvierà verso una relazione particolarmente bella, densa
ed equilibrata, perché il creativamente abile “accettato” è capace di amare
in un modo veramente romantico e positivo.
Vi
sono poi i creativamente abili che hanno pienamente accettato la loro
caratteristica fisica, che si sentono “diversi” nella misura in cui la
diversità di ogni persona umana è la normalità. Per fortuna, pensate quanto sarebbe noioso un
mondo in cui tutte le persone fossero uguali!
Questi
creativamente abili non tengono conto della loro difficoltà, si pongono di
fronte all’altro genere come tutti gli altri, incontrano gli stessi
problemi, le stesse gioie, le stesse delusioni. I loro corteggiamenti, le loro
unioni possono finire male o bene come quelle di tutti.
Mi
costa dirlo (ma questo libro non è utile a nessuno se non si basa sulla
sincerità). Sono passato attraverso tutti e tre gli atteggiamenti appena
descritti.
Da
adolescente ero timido, chiuso, con pochi amici, devoto particolarmente a
coltivare la mia mente e la mia memoria con letture anche pesanti (a 16 anni
ebbi la forza, e la sventura di leggermi un libro di politica economica). Mi
piacevano le ragazze, ma non sapevo come rapportarmi con loro, e c’erano poche
occasioni per socializzare, anche perché il Nazareno (la mia scuola) era
esclusivamente aperto ai maschi.
Né mi aiutava l’avere una protesi, fatto che, come detto più sopra, mi faceva percepire come diverso, come goffo, come un uomo assolutamente non desiderabile.
Né mi aiutava l’avere una protesi, fatto che, come detto più sopra, mi faceva percepire come diverso, come goffo, come un uomo assolutamente non desiderabile.
La
decisione di fare a meno della protesi fu il primo passo del cambiamento, il
sintomo che cominciavo ad accettarmi e a “vedermi” bene così come ero. Si
trattava sicuramente di un aumento forte di autostima.
Quasi
in contemporanea abbi la fortuna di entrare nel Centro Fides, una associazione
della mia Parrocchia, nella quale (e per quei tempi era veramente l’eccezione
in ambito cattolico) potevano essere accettati sia ragazzi che ragazze. Devo
molto ai primi 6 anni passati al Centro Fides, molto decisivi per alcuni
aspetti della mia personalità.
Qui
ebbi la fortuna di incontrare sia ragazzi che ragazze molto in gamba (e di alcuni
di essi, Carla, Antonietta, Mariano, Guido, Enrico, Enzo, Lia, Pompeo, sono
rimasti tuttora cari amici).
Sempre
qui passai la fase (per fortuna breve) dei corteggiamenti insistenti e
immaturi. Sbagliavo ma forse la fretta era anche dovuta anche al, chiamiamolo
così, “arretrato” affettivo accumulato negli anni precedenti.
I
due – tre fallimenti ricevuti mi fecero riflettere e assunsi la consapevolezza
della necessità di un cambiamento e della necessità di un approccio diverso. In
questa riflessione fui molto aiutato dagli amici e dalle amiche di quel
periodo.
I
rapporti costituitisi negli anni successivi furono costruiti su base più salde
di maturità, di dialogo, di reciprocità. I loro fallimenti furono dovuti
essenzialmente al fatto che non ero ancora pronto per un rapporto duraturo, i
miei continui impegni esterni erano un freno alla possibilità di un tale tipo
di rapporto. Sono però ben fiero che la maggior parte delle mie “ragazze” di
quell’epoca siano rimaste mie amiche.
Desidero
qui ricordare un episodio che mi appare molto significativo.
Dopo
la chiusura di un rapporto per mia decisione, fui aspramente rimproverato da un
mio caro amico, anche lui affetto da una difficoltà fisica, seppure molto più
lieve della mia.
“Ma
non ti rendi conto che hai sbagliato? Quando pensi di trovare un’altra ragazza
in gamba come ....? E poi noi dobbiamo stare particolarmente attenti a non
perdere questa occasioni”.
Inizialmente
non riuscivo a capire, poi mi resi conto che l’amico si riferiva chiaramente al
fatto che noi eravamo creativamente abili e che avremmo pertanto avuto più
difficoltà degli altri a trovare una partner per la nostra vita.
“Sbagli
tu se la pensi in questo modo” risposi anche un po’ arrabbiato “io su questo
punto non mi sento assolutamente diverso da tutti gli altri. Avrò più o meno
rapporti, più o meno successi, come capita a tutti, e troverò anche io la
partner giusta per la mia vita”.
Non so se quel mio amico comprese fino in fondo la mia risposta e i motivi che la sostenevano. Dopo qualche anno si sposò, ebbe una bella bambina, ma purtroppo ebbe poco tempo per godersela. Quando seppi della sua morte, ne fui profondamente addolorato.
Non so se quel mio amico comprese fino in fondo la mia risposta e i motivi che la sostenevano. Dopo qualche anno si sposò, ebbe una bella bambina, ma purtroppo ebbe poco tempo per godersela. Quando seppi della sua morte, ne fui profondamente addolorato.
Nel
2002, a
54 anni, mi sono sposato. Una esperienza meravigliosa, con una persona
stupenda.
Spero
di essere un buon marito. Il matrimonio è fatto di fiducia nell’altro, di
speranza nel futuro, di apertura al mondo.
Per
la riuscita di un matrimonio è fondamentale la piena accettazione del partner,
e chi meglio di un creativamente abile, che ha avuto la forza di farlo con se
stesso, può accettare pienamente il partner così come è, di amarlo così come è,
senza la pretesa di cambiarlo?
Si,
il creativamente abile, proprio per il disagio che ha vissuto, per la propria esperienza
di faticosa crescita e di liberazione, può essere un ottimo compagno di vita.
Lo
sappiano i creativamente abili, i loro genitori, lo sappiano i loro potenziali
partners e i loro genitori!
Staminali e dintorni
Quando
ero molto piccolo ricordo che pregavo Gesù e la Madonnina affinché mi
facessero ricrescere il mio “braccetto”. Quando mia madre partì per un breve
pellegrinaggio a Lourdes, immaginai che fosse partita per pregare la Madonna di
farmi il miracolo e pregai tanto.
Gradualmente
abbandonai, con la crescita, questo tipo di preghiere e indirizzai le mie
implorazioni affinché potessi divenire più buono, più serio, più attento alla
esigenze degli altri, in una parola che potessi realizzarmi pienamente nel
mondo secondo il bel disegno che il buon Dio aveva avuto su di me (anche
senza il braccio destro).
Ma
non ho mai ridicolizzato quelle mie preghiere di bambino; sono certo che il
Signore le ha accolte e l’ha trasformare in sua benevolenza nei miei confronti.
E, a pensare quante ne ho combinate finora, di benevolenza ce ne è propria
voluta.
Ho
raccontato questo per dimostrare come da bambino avessi ardentemente desiderato
di riavere il mio braccio, come non sia stato facile accettare la mancanza,
come sia difficile per ogni creativamente abile accettare la propria difficoltà
fisica (non è sicuramente facile,
non è una passeggiata!).
Solo
con il passare del tempo, con l’aiuto, come già ho scritto, di buoni genitori e
di buoni amici, accettai il mio stato e cominciai a lavorare mentalmente e
praticamente per compensare la mancanza e per farla, se possibile, diventare
una risorsa.
La
ricerca scientifica fortunatamente va sempre avanti (anche se talvolta si
tratta di progressi eticamente ciechi).
Periodicamente
continua ad accadermi che, in occasione di scoperte scientifiche che
interessano la riproduzione di cellule, o l’invenzione di particolari collegamenti
tra corpo e protesi artificiali, qualcuno (talvolta amici, più spesso solo
conoscenti) mi domandi: “ma a te non può interessare per la tua invalidità?”.
L’ultima
volta accadde in occasione del referendum sulle cellule staminali. Qualcuno
argomentò che sicuramente avrei votato a favore perché “chissà che, in un
futuro prossimo, tramite inserimenti di staminali sane nel tuo braccio, non lo
si possa far ricrescere?”.
Non
so sinceramente se la domanda potesse avere un valore scientifico e non voglio
qui rivelare il mio comportamento in occasione di quel referendum. Vorrei però
porre e, in particolare, pormi una domanda che potrebbe essere di interesse per
parenti e amici di creativamente abili, e per gli stessi creativamente abili,
precisando che la mia risposta è esclusivamente personale e basata sulla mia
esperienza e la mia sensibilità.
La
domanda è: ”se qualcuno, dotato di autorevolezza scientifica ti chiedesse cosa risponderesti?”
Chiunque
non sia creativamente abile riterrebbe scontata una risposta positiva, ma la
questione non è poi cosi facile.
La
risposta, infatti, in piena coscienza, non è semplice e deve necessariamente
essere articolata.
Voglio essere sincero. Interrogandomi nel profondo e andando con la mente agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sono certo che il braccio mi è mancato, la mia autostima ne era indebolita, sarei stato molto, ma molto contento, se avessi avuto anche l’altro braccio.
Voglio essere sincero. Interrogandomi nel profondo e andando con la mente agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sono certo che il braccio mi è mancato, la mia autostima ne era indebolita, sarei stato molto, ma molto contento, se avessi avuto anche l’altro braccio.
Questa
fase è durata, più o meno, per tutto il periodo durante il quale ho portato la
protesi; in effetti la presenza della protesi confermava che non mi sentivo
“intero” senza di essa.
Una
volta che mi sono tolto la protesi, sicuramente la situazione è cambiata,
accettavo me stesso e mi ritenevo “perfetto” nel senso di “compiuto” e
“bello” anche senza il braccio.
Ma questo voleva dire che lo avrei rifiutato se qualcuno mi avesse garantito che lo avrei potuto avere?
Ma questo voleva dire che lo avrei rifiutato se qualcuno mi avesse garantito che lo avrei potuto avere?
Penso
proprio che, nonostante la situazione di equilibrio raggiunta, avrei accettato
di avere anche il braccio destro.
Non
a tutti i costi certo (e questa è forse la differenza sostanziale rispetto alla
fase dell’adolescenza). Non avrei accettato di sottopormi a interventi
chirurgici rischiosi o comunque non avrei acconsentito qualora ciò avesse
comportato una notevole spesa.
Il
vantaggio arrecatomi dell’equilibrio raggiunto mi avrebbe consentito di operare
una scelta abbastanza serena e mi avrebbe anche dato la forza anche di saper
rifiutare.
Vi
sembra strano? E allora proseguiamo nel ragionamento.
Quale
sarebbe il mio atteggiamento oggi?
Oggi
ho più di 70 anni, ho imparato a vivere con un braccio solo, mi sono abituato a
fare delle cose in modo diverso da come le fanno molti altri, mi sono anche
assuefatto a non poter fare alcune cose (anche se non si sa mai, in futuro
potrei trovare il modo di farle..).
Le
abitudini, gli schemi mentali sono importanti.
Certo,
costituiscono dei limiti perché, in pratica, si presentano come dei binari
comodi sui quali condurre l’esistenza ma, contemporaneamente tendono ad
affievolire la nostra capacità di creare nuove soluzioni, basandosi
sull’esperienza acquisita.
Rappresentano nel contempo anche dei vantaggi
perché permettono di avere una soluzione pronta risparmiando il tempo, e soprattutto
l’energia e lo sforzo di individuarne ogni volta una.
Il
giusto equilibrio si potrebbe trovare nell’utilizzare con ragionevolezza gli
schemi mentali e le abitudini senza peraltro diventare schiavi di esse.
Il
problema è che, con l’avanzare dell’età, il bagaglio dell’esperienza si
accumula, le abitudini si consolidano, diventa sempre più difficile avere la
voglia e la forza di cercare nuove strade e, anche quando qualcuno ce le
offrisse su un piatto d’argento diventerebbe arduo e comunque molto faticoso
perseguirle.
Se
qualcuno oggi mi dicesse di essere in grado di farmi avere un braccio destro,
senza grosse difficoltà e a costi contenuti, molto probabilmente direi di no.
Convivo
ormai con la mia “abilità creativa”, mi sento io, totalmente integro e completo,
senza il mio braccio, ho acquistato un modo di vivere consolidato che mi
permette di vivere bene, non mi andrebbe di affrontare una novità così
dirompente.
Non
so se riuscite a capire, ma dovrei, in pratica, ricominciare a imparare a come
agire e, in qualche modo, anche a come pensare. Dovrei avere la forza di dover
ripensare ogni movimento per poterlo fare, nel modo più efficiente possibile,
con due braccia.
Vi sembrerà strano ma dovrei reiniziare il percorso di accettazione di me stesso, dovrei accettare una nuova identità personale, con due braccia.
Vi sembrerà strano ma dovrei reiniziare il percorso di accettazione di me stesso, dovrei accettare una nuova identità personale, con due braccia.
Sinceramente
non so se riuscirete a condividere questa riflessione che vi sembrerà
scioccante, ma oggi, con grandissima probabilità, rifiuterei di avere due
braccia!!
Forse
30 (anche 20) anni fa, la risposta sarebbe stata diversa perché il cammino di
accettazione di me stesso era forse meno pieno e completo, può darsi che,
magari fra un anno, eventi imprevedibili mi facciano dare una risposta diversa
da quello che sto dando ora. Quello che invito i miei lettori a non fare è di
non pensare a risposte facilmente scontate.
Quanto
sopra non vuol dire assolutamente che io sia contrario alla ricerca scientifica
o che la ritenga inutile o superflua.
Sono
più che mai convinto che lo scopo dell’uomo è quello di andare sempre avanti,
di progredire verso la perfezione e che la ricerca nei campi della genetica e
della microbiologia è indispensabile per procedere in questo progresso.
Sono
peraltro anche più che mai convinto che non è vero progresso quello che
altera l’evoluzione naturale delle cose o che tende a fare dell’uomo il
padrone della vita.
Non
mi sfugge il rischio che questa impostazione possa essere interpretata in modo
conservatore, sono pienamente cosciente che il confine tra natura e cultura è
molto labile e che spesso dietro la difesa dei principi naturali si cela la
voglia di bloccare evoluzioni culturali e sociali.
Ci
sono però alcune aree in cui il “naturale” è veramente naturale e non
elaborazione culturale, in quelle aree l’uomo o non deve entrare o deve entrare
con estrema delicatezza.
Una di queste aree, per tornare all’inizio di questo capitolo, è quella della ricerca sulla cellule staminali. E’ importante che si proceda nella ricerca, ben consapevoli dei vincoli di carattere etico, perché questo può essere veramente un campo determinante per un miglioramento futuro (sperandolo più vicino possibile) della vita umana.
Una di queste aree, per tornare all’inizio di questo capitolo, è quella della ricerca sulla cellule staminali. E’ importante che si proceda nella ricerca, ben consapevoli dei vincoli di carattere etico, perché questo può essere veramente un campo determinante per un miglioramento futuro (sperandolo più vicino possibile) della vita umana.
Le cose
che non posso fare..
Come
detto nelle righe iniziali, uno dei grandi meriti che mia madre ha avuto nella
mia crescita umana e nella graduale e progressiva accettazione della mia
caratteristica fisica, è sicuramente consistito nel fatto di avermi reso
consapevole delle molte cose che pensavo di non poter fare e che invece ho
scoperto essere alla mia portata.
Oggi
sono consapevole di avere delle difficoltà che rimangono insormontabili:
La prima che mi viene in mente è che non
posso allacciarmi le scarpe. Però è anche vero che non c’è problema ad
usare i mocassini....
A proposito di lacci de scarpe ricordo
una esperienza interessante.
Dovevo operarmi di ernia inguinale mi
stavo sottoponendo alla visita medica di un noto chirurgo. Venimmo serenamente
a parlare della mia difficoltà fisica ed io, scherzando gli dissi che una delle
poche cose che non potevo fare era legare i lacci delle scarpe.
Il chirurgo mi guardò sorridendo e mi
rispose: “Guardi, se vuole, glielo insegno io, noi chirurghi siamo in grado di
allacciare i punti per suturare le ferite con una mano sola. E può ben capire
che quei lacci non si devono assolutamente slegare”.
Sorrisi anche io, ma non gli chiesi di
imparare, pensai sinceramente che forse sarebbe stato più facile comprare i mocassini.
Sempre a proposito di difficoltà
insormontabili continuerei con l’impossibilità di mettere l’orologio da polso.
Però, anche in questo caso, è vero che posso mettere quello da taschino o
quello con il cinturino con il bottone e usare denti e mento per allacciarlo
(difficile, ma non impossibile, provare per credere...) o, magari oggi, usare l’orologio
del mio cellulare.
Un’altra difficoltà insormontabile è
quella di sbucciare la frutta. Però perché non prendere la banana (facilmente
sbucciabile) o mangiare il frutto con la buccia, dopo averla adeguatamente lavata?
Guidare l’automobile? Una passeggiata
con il cambio automatico e con alcuni accorgimenti speciali che peraltro
suggerirei a tutti di adottare al fine di avere una guida più facile e
piacevole.
Alla fine della fiera sono ben poche le
difficoltà che non si possono superare in assoluto. Tutti gli altri problemi
possono essere risolti usando la fantasia o altre parti del corpo.
Oppure, quando non se ne ha voglia
oppure ci si è stancati di essere originali, usando un’altra tecnica
collaudatissima: chiedere aiuto!
Per un creativamente abile chiedere
aiuto è un comportamento difficile e psicologicamente molto faticoso. Vuol dire
prendere coscienza che non la si fa e che occorre accettare una impossibilità.
Peraltro visto, sotto un altro punto di
vista è il momento di una più piena accettazione della propria difficoltà
fisica, è un procedere lungo un cammino di emancipazione e di realizzazione.
Anche qui ricordo un episodio simpatico.
Avevo un po’ più di 40 anni e mi trovavo
a Gaeta a pranzo in compagnia di alcuni veri amici, persone con le quali
esisteva un rapporto profondo.
Verso il termine del pranzo il cameriere
portò la frutta, qualcuno me ne offrì e io stavo per eseguire la mia consueta
“manfrina” in casi del genere: “no, grazie, non ne mangio, non mi piace”.
Poi mi chiesi “ma perché, perché devo
rifiutare la frutta quando posso serenamente chiedere all’amico Toni (quello
che me l’aveva offerta) di sbucciarmela. Dove è il problema? Toni mi vuole
bene, lo farebbe con piacere e io mangerei qualcosa che mi piace”.
Così la mia risposta fu: “volentieri
Toni, potresti, per piacere, prima sbucciarmela?
Si alzò un coro dal tavolo
“finalmente!!”. I miei amici avevano notato altre volte, senza che io me ne
accorgessi, questo atteggiamento di sostanziale chiusura verso l’altrui aiuto
ed erano ben contenti che finalmente lo avessi superato.
Mi rivolgo ai creativamente abili. Non
abbiate paura, non abbiate paura di chiedere aiuto. Le persone sono il
più delle volte molto migliori di quello che noi pensiamo e l’umanità che abita
in ognuno di noi ci porta naturalmente a cooperare nei momenti difficili.
Nessuno, vedendo un creativamente abile
che non “ci marcia”[2] ma che realmente è in
difficoltà e che chiede aiuto, glielo rifiuterà.
Qualche volta l’aiuto arriva senza
nemmeno che lo si chieda, anzi addirittura prima che il creativamente abile si
accorda della difficoltà.
I primi personal computer avevano una
funzione di “reset” che consisteva nello spingere contemporaneamente i tasti
“control”, “alternate” e “delete”, un meccanismo semplicissimo che però era
quasi impraticabile da una persona priva di un braccio perché i primi due tasti
erano sulla sinistra e il terzo sulla destra. I costruttori dei PC, consci
della rischiosità di attivare inavvertitamente il “reset” (con conseguente
perdita dei dati non salvati) avevano pensato a questo meccanismo il cui
funzionamento prevedeva comunque l’uso di entrambe le braccia. Un uso voluto
perché la funzione di “reset” è estremamente delicata e l’utilizzo di entrambe
la braccia voleva costituire un “warning” (un avvertimento psicologico)
all’utente per renderlo più consapevole dell’operazione che stava effettuando.
Mi posi il problema di come avrei mai potuto
usare un PC proprio a causa della necessità, in quelle situazioni, di avvalersi
di due braccia. Provai anche ad ipotizzare alcune possibili soluzioni: una
poteva essere quella di premere con il gomito i due tasti sulla sinistra e con
la mano quello sulla destra.
Quando, su richiesta del mio capo IBM,
mi vidi portare sulla scrivania un PC, in effetti storsi il naso (sarei
riuscito ad utilizzare appropriatamente la funzione di reset?).
Invece, guardando più attentamente, mi
resi conto che il mio capo, con la collaborazione della funzione tecnica, aveva
fatto modificare una parte della tastiera per permettermi il pieno uso del
reset.
Fui molto grato a Corrado (questo era il
suo nome) perché si era pienamente reso conto in anticipo di quale sarebbe
stata la mia difficoltà, e aveva saputo ovviarci in maniera efficace senza
neppure avvertirmi. Fu proprio un bel regalo.
Ci son poi cose che si possono fare, o
azioni che si possono compiere, solo a costo di gravosi sacrifici finanziari o
in termini di fatica fisica abnorme o di complessità.
In questi casi può essere necessario
fare una valutazione sulla effettiva opportunità e utilità concreta di
affrontare tali sacrifici.
Quando ero bambino ero molto contento di
scorazzare con la mia bicicletta sui viali di un giardino vicino alla Stazione
Termini o della casa di mio padre a Grottaferrata.
Essendo bambino (per di più senza un
braccio) il mio equilibrio era aiutato da due rotelline collegate alla ruota
posteriore della bicicletta.
La mia gioia finì presto perché le
bici da ragazzo e da adulto hanno solo due ruote e non contemplano le due
rotelle posteriori.
Direte voi, ma potevi chiedere ai tuoi
genitori di farle aggiungere?
Ostavano due ordini di motivi. Il primo
era di carattere finanziario, già i miei (non particolarmente ricchi) pagavano
la retta (salata) della mia scuola privata e, all’incirca ogni due anni, il
costo di una nuova protesi (da adattare al mio corpo che cresceva). Il secondo
motivo era di ordine psicologico: non mi andava di essere osservato come una
persona “strana” che, in età da ragazzo, continuava ad usare una bicicletta da
bambino.
D’altra parte, anche con l’aiuto di
amici, feci vari tentativi, tutti infruttuosi, di utilizzare una bici normale.
Subito il mio corpo si squilibrava dalla parte del mio braccio sinistro.
Il periodo trascorso sul lavoro mi fece
completamente dimenticare la cosa che, però tornò alla ribalta della mia mente
appena andai in pensione.
Nel frattempo avevo notato che erano
state prodotte anche motociclette con tre ruote (di cui due davanti) che
avrebbero dovuto garantire una maggiore stabilità anche a persone con le mie caratteristiche
fisiche.
Un venditore di biciclette, al quale mi
ero rivolto, mi disse anche che avrei potuto fare tranquillamente aggiungere
alla bici le famose due rotelle di quando ero bambino e, se avessi voluto,
anche un piccolo motorino di sostegno alla pedalata.
Dunque il tutto era a portata di mano;
il costo della bici completa di rotelle e motorino si sarebbe aggirato sui
500-700 euro, nemmeno tanto.
Si, nemmeno tanto, ma troppo,
decisamente troppo per soddisfare un capriccio. Che ci avrei fatto con una bici
a più di 60 anni, quando ormai mi ero abituato ad andare a piedi, con i mezzi
pubblici o, quando proprio era necessario, con una macchina?
Era una necessità o appunto un
capriccio? E, se era un capriccio, era giusto spendere 500 – 700 euro per soddisfarlo?
Sono certo che la maggioranza dei miei
lettori mi disapproverà, ma decisi che c’erano mille modi più utili per
spendere quella somma (un piccolo viaggio con mia moglie, acquisto di libri o
di cose per casa, aiuto a persone in difficoltà...).
L’esperienza della bicicletta è servita
a farmi crescere (anche a 60 anni) a capire che non tutto ciò che è
possibile acquistare per soddisfare un tuo desiderio, è giusto acquistarlo…
Oggi, dopo l’esperienza del lockdown, la
voglia di comprare una bicicletta mi è tornata; e chissà che non sia la volta
buona!
Avevo
appena finito di scrivere questo capitolo che la mia vita di creativamente
abile si è arricchita di una nuova esperienza di rapporto con persone che
vogliono aiutarmi (nella maniera sbagliata)
Stavo partecipando alla S. Messa domenicale
insieme a Patrizia e avevamo davanti a noi sul banco due foglietti per seguire
meglio la liturgia.
Vicino a noi un’altra coppia, più
anziana, compunta, molto attenta a seguire la
S. Messa , ma senza il foglietto davanti
forse perché ne era terminata la distribuzione.
Arrivati alla fine del Gloria, non
faccio in tempo a prendere il “mio” foglietto dal banco per girare pagina e
poter seguire la lettura che il signore anziano vicino, più veloce di me, lo
afferra.
Guarda questo, penso (ma per fortuna
rimango in silenzio), se voleva seguire la S.
Messa sul foglietto poteva pure dirmelo chiedendomi con garbo
se poteva farlo, dato che io potevo leggere anche su quello di Patrizia.
Ripeto, rimango zitto per non turbare il raccoglimento liturgico; ve bene, dico
tra me e me, lo prendo come un “fioretto”.
Il signore, prende il foglietto, gira la
pagina e me lo restituisce. Molto probabilmente pensava che non fossi in grado
di farlo da solo e mi aiuta.
Dentro di me, dietro un sorriso formale,
un turbinio di sentimenti.
Il primo di rabbia “ma come si permette
questo di prendere delle iniziative senza che nessuno gli chieda nulla! pensa
che non sia capace neppure di girare una pagina?”.
Il secondo di pentimento “guarda avevo
pensato male di lui, che volesse accaparrarsi il foglietto e voleva solo
aiutarmi...”.
Il terzo di autocritica “devo imparare a
non dare le cose per scontate e ad accettare gli aiuti non necessari”.
Ecco appunto, gli aiuti non necessari
sono quelli più difficili da accettare.
E’ facile (ora, dopo lungo tempo) dire
di si a qualcuno che ti vuole sbucciare la mela o allacciare le scarpe, è
facile (sempre ora) accettare che magari lo faccia senza neppure chiederti il
permesso.
E’ invece molto difficile accettare che
qualcuno ti aiuti spontaneamente quando l’aiuto non è proprio necessario. Viene
da pensare infatti che se si comporta così vuol dire che “vede” più
l’invalidità che la persona che ha davanti, e questo è terribilmente offensivo
per un creativamente abile. E’ come dirgli, ho visto che tu non puoi essere
in grado da solo, ci penso io al tuo posto, senza neppure chiedertelo.
Ci sono rimasto io che pure ho, sulle
spalle, oltre 60 anni di questa vita e ho imparato largamente ad accettarla,
potete ben comprendere la reazione emotiva che può suscitare un simile
comportamento in un ragazzo o, peggio, in un bambino, in pratica una conferma
della propria inferiorità.
Due suggerimenti.
Il primo alle persone brave e buone che,
in buona fede, vogliono aiutare un creativamente abile, senza chiederglielo:
chiedetelo prima e con la debita cautela.
Il secondo ai creativamente abili può
essere racchiuso nel motto dantesco “non ti curar di loro ma guarda e
passa”. Voi non siete “creativamente abili”, siete prima di tutto delle
“persone” e nessuno, con il suo comportamento vi può togliere la dignità di
persona umana.
Domande
da difficile risposta
Ecco,
penso, mi sta scrutando intensamente oppure (il che è lo stesso) evita di
guardarmi ma la sua mente è lì, sul mio
braccio mancante, ora arriva la domanda.
Quante
volte, nel corso della mia vita, mi è passato per la mente questo pensiero
vedendo lo sguardo di un conoscente, uno sguardo più o meno fisso, o più o meno
evitante quella zona vuota del mio corpo dove avrebbe dovuto esserci il mio
braccio destro!
Poi,
inevitabile, arriva la domanda: “Scusami, non so se posso permettermi”, ma
intanto si permette, “come mai senza il braccio?”.
Ormai
sono più che abituato, rispondo pacatamente che ci sono nato, che è meglio
nascerci che diventarci, che in fondo (e a questo punto sconcerto con l’ironia
il curioso) è come vincere una lotteria alla rovescia, è facile nascere con due
braccia, difficile con uno solo.
Non
vedo nulla di male se una persona che mi conosce da tempo, con il quale è nata,
sulla base di un comune sentire e di una intimità, una relazione di amicizia,
mi domandi, o in genere domandi ad un creativamente abile, i motivi della sua caratteristica.
In fondo lo si può interpretare come un modo di volergli più bene, di entrare
in un rapporto più profondo con lui,
Non
è raro il caso che, quando mi sembri che una relazione si sia approfondita e
maturata, sia proprio io ad affrontare l’argomento, magari con
noncuranza “sai, quando nacqui senza un braccio.....”. E’ un modo come un altro
per andargli incontro, per fargli superare un eventuale disagio, per rinsaldare
e approfondire l’amicizia reciproca.
Diverso
è il caso di chi ti ha appena conosciuto e viene colpito non tanto da te, dalla
personalità o dal pensiero o dalla capacità professionale, ma dalla invalidità.
Ecco, in questi momenti mi sento percepito più come un oggetto da analizzare
che una persona, un soggetto, con il quale entrare in rapporto.
Di
qui la risposta ironica, ma anche fredda e tendente a congelare, almeno temporaneamente
il rapporto.
I
momenti di disagio più forte li ho passati (e forse in parte ancora li passo)
quando la domanda mi è rivolta da un bambino.
Quando
lo vedevo fissarmi, sapevo che la domanda sarebbe partita, intrisa di quella
ingenua curiosità che solo un bambino può avere. Domande di vario tipo: “dove
hai nascosto il braccio?”, “perché sei senza un braccio”, “dove hai lasciato il
braccio”; domande diverse a seconda delle percezioni e della maturità del
bambino.
I bambini di un tempo, più timidi avevano difficoltà a porre domande di tipo personale, quelli di oggi sono portati ad una maggiore franchezza e la domanda sul braccio è pressocché inevitabile.
I bambini di un tempo, più timidi avevano difficoltà a porre domande di tipo personale, quelli di oggi sono portati ad una maggiore franchezza e la domanda sul braccio è pressocché inevitabile.
Un
tempo entravo in crisi, fissavo con uno sguardo implorante il genitore affinché
intervenisse (e quest’ultimo non lo faceva, perché non sapeva cosa fare, oppure
interveniva malamente con uno schiaffo o con un rimprovero) e poi abbozzavo una
risposta, che forse è (ora l’ho capito) la peggiore possibile ma che mi
salvava: “l’ho snodato e l’ho lasciato a casa”.
Se
il bimbo restava sorpreso dalla risposta e non sapeva capacitarsi, il gioco era
fatto, se invece il bimbo continuava con le domande (“ma come, il braccio si
può togliere e rimettere? Non lo sapevo, mi insegni a farlo?”) erano seri guai
e, a questo punto potevo solo sperare nell’aiuto dei genitori che, magari, lo
distraevano con qualche gioco.
Ora
ho imparato, anche i bambini sono persone, anche se piccoli, capaci di capire,
amare e ragionare, vanno aiutate a farlo in un modo corretto. La risposta deve
essere dolce, ma anche chiara e sincera, tale da soddisfare ampiamente la sua
curiosità ed aiutarlo nella sua crescita umana.
“Sai,
sono nato senza un braccio, tu vedi che ci sono bambini che portano gli
occhiali perché ci vedono male, altri che sono più deboli e corrono meno degli
altri, siamo tutti diversi gli uni dagli altri, la mia diversità consiste nel
fatto che ho un braccio solo. Ma non è un grande problema, riesco a fare quasi
tutto, vuoi che ti mostri come riesco a farmi la cravatta con un braccio solo?”.
Generalmente
a questo punto interviene un genitore, che magari continua il chiarimento sulla
stessa linea, il bimbo è soddisfatto, passa ad un’altra curiosità o ad un altro
gioco, ma intanto è cresciuto....
Si,
è cresciuto perché ha imparato che, in pratica la invalidità non esiste nei
fatti, non esiste il diverso perché siamo tutti diversi, gli uni dagli altri,
tutti, come disse una volta Giovanni Paolo II, unici ed irripetibili.
Da
questa comune diversità il bambino, in un futuro, e opportunamente guidato,
potrà trarre la convinzione di vedere la diversità come una risorsa, di capire
che la cosiddetta “normalità” non esiste e, se lo fosse, sarebbe definibile
come la sintesi di tutte le possibili diversità umane.
Ma
sono cresciuto anche io, perché ho imparato a trasformare una difficoltà, un
disagio, in una risorsa, una occasione
di contribuire, nel mio infinitamente piccolo, a costruire una società
migliore.
Problemi
di linguaggio[3]
Mi
sembra di essere un po’ scontato a parlare di comunicazione a proposito di “abilità
creativa”
Ormai
il tema della comunicazione efficace è di moda, escono a valanga libri che
insegnato le persone a comunicare, particolarmente nell’ottica di saper “vendere” merci e spesso anche se
stessi.
Ma
alcuni aspetti della teoria della comunicazione interessano anche il mondo
della abilità creativa.
Come
qualcuno già saprà, la comunicazione, o meglio il linguaggio, può essere di tre
tipi:
1.
verbale che indica il contenuto del messaggio
(in pratica il cosa diciamo);
2.
para-verbale che indica le modalità verbali che
usiamo nel comunicare, il tono della voce, il timbro, le pause... (in pratica come
comunichiamo con la voce);
3.
non
verbale che indica le modalità
posturali che usiamo nel comunicare, la posizione delle gambe, l’uso delle
braccia, lo sguardo, la mimica facciale (in pratica il nostro comportamento
mentre comunichiamo).
Secondo
voi qual è l’incidenza di questi tre tipi di linguaggio sulle efficacia della
comunicazione e del relativo messaggio?
Sono
certo che la maggioranza di noi penserebbe che il contenuto del messaggio sia
l’aspetto più importante; un messaggio completo, esauriente, ragionevole
dovrebbe avere l’impatto maggiore su chi lo ascolta.
Ebbene
studi approfonditi su questi tre tipi di linguaggio hanno sorprendentemente
concluso che, relativamente alla efficacia dello stesso si può dire che il
linguaggio non verbale conta per il 50%, quello para-verbale per il 30% e
quello verbale solo per il 20%.
Dai,
ammettetelo, non l’avreste mai sospettato.
Ciò
non è senza effetti per il nostro tema.
Mi
capita spesso un tipo di esperienza, della quale mi piace raccontare uno del
tanti episodi nei quali ricorre.
Qualche
giorno fa, mentre passavo del tempo serenamente con alcuni amici, ho detto loro
che, per l’appunto stavo scrivendo questo testo, nel quale parlavo della abilità
creativa e raccontavo come avevo vissuto e stavo vivendo la mia..
Ho
potuto notare che uno di loro mi stava guardando stupito e ho pensato che fosse
colpito dalla mia capacità di mettere in piazza qualcosa che avrebbe dovuto
essere intimamente solo mio.
Sono
rimasto stupito io, invece, sentendo le sue parole: “Giuseppe, sai, sono
rimasto spiazzato da quello che hai detto, non ho mai pensato a te come un creativamente
abile e solo dopo ho pensato che sei senza un braccio”.
Anche
io ho avuto modo di riflettere su questa osservazione.
In
effetti, come dicevo scherzosamente anni fa ad un altro mio amico, io mi
dimentico facilmente di essere senza un braccio, mi considero veramente
uguale agli altri, diverso ma della diversità che identifica e differenzia
tutti gli uomini gli uni dagli altri.
Mandando
io questo messaggio, con il mio linguaggio non verbale, molto efficace di uguaglianza
con tutti gli altri, molto probabilmente rendo difficile il potermi
identificare come un creativamente abile.
Avete
notato a persone con abilità creative molto lievi (ad esempio la calvizie
precoce) che sono talmente attente ad esse e preoccupate di non mostrarle che
fanno sforzi enormi per nasconderle, tanto enormi da non passare inosservati e
da non far passare inosservato neanche ciò che vorrebbero ben nascondere?
Possiamo
dire che un creativamente abile è tale e viene percepito come tale nella misura
in cui si sente creativamente abile? Probabilmente sì.
C’è
un altro aspetto del tema del linguaggio che va affrontato.
Non
so dove che ho letto che mentre le definizioni circoscrivono, le descrizioni
allargano.
Definire
una persona come invalido fa passare in secondo piano il suo essere persona
umana per evidenziare una sua pretesa insufficienza fisica o mentale.
Quando
ero bambino e poi ragazzo, mi ricordo che la definizione in voga per chi aveva
una particolare caratteristica fisica o mentale era quella di invalido.
C’erano,
ricordo, gli invalidi di guerra, quelli di lavoro, infine c’erano gli invalidi
civili. Ci fu una grande battaglia civile quando ero ragazzo per ottenere una
legge che desse certi benefici agli invalidi civili in tema di lavoro e di
indennità.
Passati
alcuni anni, il termine invalido lentamente venne abbandonato, non si voleva
giustamente metter in evidenza l’aspetto negativo di una carenza. Il termine
rimase solo nei provvedimenti di legge, in particolare quelli datati.
Ora
andava di moda l’inglese e venimmo definiti handicappati, come quei cavalli
che, nelle corse ippiche portano dei pesi. Sono considerati infatti troppo
bravi rispetto agli altri concorrenti e vengono gravati di pesi per portarli
alla pari con gli altri.
Beh,
mettetevi nei miei panni, ma a me sentirmi gravato con un peso nel rapporto con
gli altri, anche se il peso lo portassi perché vengo considerato migliore,
proprio non piace.
Anche
perché è molto facile passare da considerare l’handicappato come una persona
gravata da un peso, al considerarlo come un peso per la società. Sarà, ma mi
viene spontaneamente in mente la Rupe Tarpea
dalla quale, nell’antica Roma, venivano gettati e uccisi i neonati creativamente
abili.
Saltando
forse alcune altre tappe, ora la società ci chiama “diversamente abili”
intendendo che siamo abili sì ma con modalità operative diverse dagli altri.
Certo,
il progresso c’è, la definizione rende giustizia ad una sana uguaglianza di
fondo, presuppone una parità nella capacità di fare le cose, seppure con strumenti
o modi che possono essere diversi e insoliti o passare anche attraverso l’aiuto
di altre persone.
Rimane anche così il problema che ho posto all’inizio, ogni definizione tende a circoscrivere, in qualche modo anche a ghettizzare.
Rimane anche così il problema che ho posto all’inizio, ogni definizione tende a circoscrivere, in qualche modo anche a ghettizzare.
Capisco
che diversamente abili è un termine più appropriato e per nulla offensivo.
Peraltro finché si cercano e si trovano termini per definire alcune persone
vuol dire che si considerano quelle persona diverse da tutti gli altri.
Per
esagerare, ora gli zingari vengono chiamati rom, ma nella testa delle persone
rimangono quei brutti ceffi che non vogliono lavorare e che desiderano vivere
alle spalle degli altri utilizzando il furto come strumento normale di vita.
Rifiuto
di sentirmi diverso, rifiuto di sentirmi definito, solo per pragmatismo e senso
della realtà accetto queste definizioni e, in questo testo, utilizzo il termine
creativamente abile, forse perché è più positivo di diversamente abile (la
creatività aggiunge un elemento, non evidenzia una difficoltà o una assenza)..
Sinceramente
avevo anche pensato a coniare un neologismo e ad usare divabile ma poi ci ho
ripensato. Sarei caduto anche io nella ossessione delle definizioni, mentre
l’importante è sentirci tutti persone “uniche” ed irripetibili.
Cosa
c’entra la Fede ?
Il
tema del rapporto tra Fede (e intendo quella cristiana) e abilità creativa è
molto delicato, potrebbe turbare qualcuno, creare disagio in altri, addirittura
arrecare danno.
Ma,
con la dovuta serenità e cautela si possono, anzi si devono, svolgere alcune
considerazioni di fondo.
Quante
volte avete ascoltato genitori o amici cristiani rivolgersi a invalidi (uso
questo termine perché in questi frangenti tali vengono considerati) cercando di
consolarli dicendo: “abbi Fede, qui soffrirai ma, alla tua morte, andrai
diritto in Paradiso e li avrai gioia eterna”.
Oppure
dai più “acculturati”: “offri la tua sofferenza a Gesù crocifisso, unisciti ai
suoi dolori, saranno da lui trasformati in strumento di salvezza per tutti gli
uomini e (more solito) quando morirai, tu risorgerai con Lui” aggiungendo
“magari anche senza l’invalidità che ti fa tanto soffrire”.
Questa
impostazione vede nella invalidità una esclusiva posizione di sofferenza e
nella Fede solo uno strumento di consolazione per l’al di là.
Quante
volte ho sofferto, a prescindere, dalla mia abilità creativa, per questa impostazione,
quante volte mi è venuto spontaneo non comprendere la croce, non condividere
questa religione che si basa sull’accettazione, per non dire sull’amore, del
dolore, una religione che sentivo, prima a livello emotivo, ora posso dire, con
la ragione, disumana.
Ricordo
sempre, con un sentimento di sollievo quando, più o meno a 20 anni, lessi un
libro della Cittadella editrice, non mi ricordo se di Juan Arias o di Louis
Evely, nel quale l’autore poneva in evidenza il versetto 42 del Vangelo di Luca
“Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia,
ma la tua volontà”.
Allora
non è vero che Gesù amasse il dolore, non lo amava, anzi cercava di sfuggirlo!
Nei Vangeli numerosi sono gli episodi in cui Gesù cura persone creativamente
abili (ciechi, storpi, focomelici...).
Se
si leggono i Vangeli con obiettività, non si può non notare che Gesù è
incompatibile con il dolore, non lo sopporta, lo combatte.
Oggetto
dell’ amore di Gesù non è il dolore, è
la volontà di Dio.
Anni
dopo, a lezione dal caro Padre Vanni, mi resi conto che, fondamentalmente, la “croce”,
spesso richiamata nel Vangelo, altro non è che un altro nome per indicare
semplicemente la “vocazione”, la strada a cui ci chiama la volontà di Dio, una
strada accidentata, nel percorrere la quale possiamo incontrare disagi, ma anche
imbatterci in gioie impreviste.
Certo,
per alcuni sarà una strada meno gioiosa di altri, con dolori più forti e
difficilmente sopportabili.
In alcuni casi (penso a quello classico della madre che perde un figlio) potrebbe essere giusto suggerire (con molto amore) di accettare questo passaggio, razionalmente inspiegabile, alla luce della croce di Gesù (“i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie” si legge in un salmo)
In alcuni casi (penso a quello classico della madre che perde un figlio) potrebbe essere giusto suggerire (con molto amore) di accettare questo passaggio, razionalmente inspiegabile, alla luce della croce di Gesù (“i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie” si legge in un salmo)
Ma
in quanti altri casi, troppo facilmente accettiamo le difficoltà, i disagi, i
dolori, invece di combatterli, di vincerli, quante volte ci arrendiamo troppo
presto!
Mi
ha fatto tanta rabbia due anni fa ascoltare l’esperienza di un ragazzo che
aveva accettato, come volontà di Dio, il dolore di essere stato bocciato ad un
esame universitario. Conoscevo bene il ragazzo, non era stato bocciato per volontà
di Dio, bensì perché aveva studiato ben poco...!
Troppo
spesso dimentichiamo che Gesù è morto in croce, ma la croce è stata solo un
passaggio verso la risurrezione, troppo spesso dimentichiamo che Gesù è morto
in croce per liberarci dal peccato o meglio, come ho letto recentemente in un
libro del Card. Martini per permetterci di accondiscendere all’amicizia che Dio
ci offre.
La
croce va letta come il massimo divino atto d’amore, un atto che, sconfiggendo
definitivamente il male, permette a tutti di realizzare al massimo se stessi,
con tutte le proprie personali possibilità e capacità.
Ad
una condizione, che anche noi cominciamo ad amare gli altri così come Lui ci ha
amato.
E allora ecco ciò che ci dice la croce, possiamo essere biondi, bruni, uomini, donne, bianchi, neri, cattolici, protestanti, pienamente o creativamente abili, ciò non conta, ciò che conta è l’amore che mettiamo nelle nostre azioni.
E allora ecco ciò che ci dice la croce, possiamo essere biondi, bruni, uomini, donne, bianchi, neri, cattolici, protestanti, pienamente o creativamente abili, ciò non conta, ciò che conta è l’amore che mettiamo nelle nostre azioni.
E
i non credenti?
Qualche
anno fa lessi una bellissima frase di un personaggio che mi piace moltissimo,
ancora il Cardinale Carlo Maria Martini: “la vera differenza non è fra credenti
e non credenti, ma fra pensanti e non pensanti”.
Sbaglierò,
farò inorridire i cattolici tradizionalisti, ma ho sempre ritenuto che
l’amore oblativo di un non credente è pienamente e sostanzialmente uguale
all’amore oblativo di un credente.
Questa
è, a mio parere, la reale differenza fra un non credente e un credente: il primo,
se sbaglia, potrà correggere l’errore senza però poter rimediare ai danni
arrecati nel frattempo, il secondo, se sbaglia, potrà confidare sempre
nell’azione salvifica e provvidenziale di Dio amore.
Per
questo ciò che scrivo in questi appunti può essere tranquillamene e pienamente
letto anche da non credenti.
Ma allora
l’abilità creativa è veramente una risorsa?
Si, ci vuole certo coraggio ad affermare che i problemi derivanti
una invalidità fisica possono essere pienamente annullati con l’utilizzo della
fantasia e della solidarietà, trasformando l’invalidità stessa in una abilità
creativa.
Ma ci vuole anche più coraggio ad andare oltre che questa
invalidità / abilità creativa per affermare che questa può addirittura
trasformarsi in una risorsa in più!
Leggevo anni fa, in un libro veramente interessante[4] (e direi anche profetico perché stampato nel
1992!) che la vita degli uomini può essere interpretata, secondo la cultura
dominante, come una corsa contro il tempo, in un continuo stato di reciproca
competizione, una corsa che si concluderà solo con la morte fisica, una corsa
all’insegno del motto “vince chi muore più ricco”.
Non è questo il luogo per commentare questa gara (chi è
interessato può rifarsi alla lettura del mio libro già prima richiamato[5]),
quello che mi preme qui richiamare è un altro aspetto.
La cultura dominante pone la competizione al centro della vita
sociale, la considera il vero motore dello sviluppo.
In questa gara ognuno di noi è impegnato ad acquisire beni e posizioni
di vantaggio, ognuno vede l’altro come un rivale da sconfiggere o, almeno, da
lasciare indietro nella corsa. Se poi l’altro è ricco, potente, forte
fisicamente, giovane c’è ancora più gusto nel batterlo, nel superarlo,
nell’arrivare prima di lui al traguardo.
Il fatti che poi il traguardo
finale sia la morte la dice lunga sulla logica intrinseca di questa corsa,
ma che posto ha ancora la logica nella testa di molte persone?.
Il creativamente abile come rientra in questa corsa e nella logica
(o non logica...) che la guida? Può essere realmente visto come un rivale da
battere?
Secondo la cultura dominante, che si trasforma facilmente in
mentalità corrente, egli è considerato come una persona incompleta, un qualcuno
che ha qualcosa in meno degli altri, un essere umano da aiutare, nella migliore
delle ipotesi un “diversamente abile”.
Chi può avere paura di una tale persona, chi può vederlo come un
rivale nella corsa verso il successo?
Ecco allora quella che può essere una formidabile risorsa in più per
il “creativamente abile”, la possibilità di non essere percepito come un
concorrente in questa sfrenata (e illogica) corsa..
E questo ha conseguenze di diverso tipo.
In primo luogo, mentre la competizione sfrenata esclude qualsiasi
tipo di aiuto fra i concorrenti, generalmente il soccorso o il sostegno verso
il creativamente abile è invece incluso nei termini accettati della gara in
quanto egli è considerato appunto un “fuori gara”.
Certo può anche accadere che qualche concorrente, temendo di
sprecare tempo nella corsa (e "il tempo è denaro”), non voglia spenderlo
nell’aiuto ma, fortunatamente, si tratta di casi sporadici.
Questo vuol dire che il creativamente abile può confidare nel
soccorso degli altri.
In secondo luogo, se nessuno ha paura del creativamente abile, ne
consegue che con lui è possibile instaurare una relazione di tipo diverso.
Normalmente i rapporti fra coloro che partecipano alla corsa in
cui “vince chi muore più ricco”, denotano sempre alcune precise
caratteristiche, quali la diffidenza, i tentativi di sfruttamento reciproco, l’inganno,
forse anche la scorrettezza. Non si può essere aperti o corretti con qualcuno
che sta correndo contro di te per raggiungere un traguardo che non ammette due
vincitori.
Con il creativamente abile il rapporto può essere molto diverso.
Egli è una persona che non mette paura, proprio perché “fuori
gara”, con lui ci si può aprire, gli si può addirittura chiedere qualche
suggerimento, ci si può accorgere con stupore che ci siamo rivolti a lui per
aiutarlo fisicamente e, seppure un altro piano, siamo noi che riceviamo un
aiuto.
Il creativamente abile non corre alla gara del “vince chi muore
più ricco” bensì a quella, controcorrente ma forse più affascinante ed
impegnativa del “vince chi muore con
più amici”.
I creativamente abili possono ben considerarsi come degli esperti
nel costruire relazioni interpersonali profonde, sane, intense come quelle che
sono basate su una vera amicizia.
La capacità e la possibilità di dare e chiedere amicizia è la
risorsa più grande per il creativamente abile, la risorsa che gli permette di
vivere molto più felicemente di quanti gli altri possano credere.
Mi disturbano sempre, e di molto, i discorsi di coloro che
parlando della categoria di quelli che loro chiamano “diversamente abili” se li
immaginano eternamente scontenti della loro esistenza. Alcune persone arrivano
al punto di invocare con sistematicità l’aborto preventivo per i feti non
perfetti.
Ebbene permettetemi di dirlo ad alta voce, a questi benpensanti, di
gridarlo: IO CI SONO E SONO BEN CONTENTO
DI ESSERCI!!
Siamo attenti a non trasferire nei creativamente abili le nostre
categorie mentali, i paradigmi, quello che gli psicologi chiamano distorsioni
cognitive.
Per quelli che sono innamorati del proprio corpo, della propria intelligenza,
forza, bellezza, è naturale pensare che chi ha, a loro parere, deficienze
fisiche o mentali, non possa essere felice. Ma ciò che pensano non
necessariamente è vero.
I loro valori (??) di riferimento non sono valori assoluti, ma
valori relativi alla propria cultura, ne possono esistere ben altri che, per un
creativamente abile, hanno una importanza di gran lunga maggiore (l’amicizia,
l’amore, l’arte, la bellezza della natura...).
Lasciate in pace i creativamente abili, non pensate, per piacere,
al posto loro, permettete loro di provare in autonomia i loro sentimenti, di
sentirsi anche, appunto, pienamente felici anche in mezzo alle loro difficoltà.
Abbiate il coraggio di aprire la mente e il cuore e di arrivare a
comprendere come quella che voi considerate una invalidità possa essere
invece considerata una risorsa e talvolta
il fondamento più efficace e duraturo per una vita felice.
Devo ammettere che ci sono peraltro molti creativamente abili che
sprecano questa speciale risorsa di poter e saper creare relazioni umane
interpersonali intense e profonde.
Anche io ho conosciuto disabili (in tal caso li chiamo così)
stupidamente arroganti, pieni di pretese verso gli altri, sempre invocanti un
sostegno pratico o economico anche quando questo non sarebbe assolutamente
indispensabile.
Ma questa stupida arroganza e pretenziosità deriva spesso da un
motivo unico: queste persone non sono state accettate (vorrei dire, ma temo di
esagerare, amate) per quello che sono, sono state bensì considerate sempre come
essere inferiori, tollerati, sostenuti, raramente o mai stimolate ad assumersi
le proprie responsabilità, a maturare attivando tutte le loro possibilità.
In tali condizioni è facile crescere, e consolidare con il
trascorrere degli anni, profondi complessi di inferiorità che innescano le
reazioni prima descritte. Di qui quella specie di astio verso il mondo intero,
quella pretesa di essere sempre al centro degli interessi di tutti, quella
rabbia allorché le proprie pretese non sempre possono venire soddisfatte.
Solo altre persone creativamente abili possono cercare, con il
dialogo ma soprattutto con il loro comportamento, di far uscire queste persone
disabili (perché tali sono in queste condizioni) dai loro complessi, di far
loro comprendere che hanno tante energie positive da sprigionare, che quella
che loro considerano una invalidità può essere invece una risorsa.
Chiudo questo paragrafo sulla abilità creativa come
risorsa con una osservazione che può sembrare una boutade e che invece non
lo è?
Vi è mai capitato di affrontare il problema della
vostra identificazione nel caso di un incontro con una persona che non
vi conosce o nel caso della vostra presenza in una fotografia di gruppo? per
non citare altri casi che possono capitare e che certamente vi sono già
capitati…
Quante volte, nel primo caso, avete indossato un
indumento stravagante o, nel secondo caso, avete fatto ricorso ad una
osservazione topologica (“sono il terzo da sinistra nella penultima
fila…”)?
Io ho risolto il problema facendo riferimento, più
semplicemente, alla mia caratteristica fisica; “mi riconoscerai perché mi manca
il braccio destro” e “sono quello a cui manca il braccio destro”!
Anche questo fa parte di quell’approccio positivo
alle proprie caratteristiche fisiche che dovrebbe connotare ogni creativamente
abile.
L’abilità
creativa una risorsa per la società?
Spero
che nelle menti dei lettori creativamente abili che hanno avuto la pazienza di
seguirmi finora, un elemento sia emerso con chiarezza da quanto scritto.
Noi
creativamente abili non siamo inferiori agli altri uomini, siamo solo diversi.
Ma
anche questa diversità va ben compresa. Non si tratta di una difformità o una
deviazione rispetto ad un presunto standard di normalità. Dobbiamo metterci in
testa che tutti noi uomini e donne siamo diversi l’uno dall’altro, che non
esiste l’essere umano normale, che la specie umana si esprime attraverso una
multiformità di caratteri fisici e psicologici tutti diversi gli uni dagli
altri. Non esistono uomini o donne uguali. Anche i gemelli presentano delle
diversità.
Ed
è un bene, la crescita del genere umano, sia che si accetti o meno la teoria
darwiniana (che nelle sua ultime interpretazioni integra la lotta per la
sopravvivenza con la collaborazione reciproca), è frutto di questa diversità,
della possibilità di scambiare informazioni e capacità, di cooperare (anche
inconsapevolmente) per un bene più grande di quello delle singole
individualità.
Se
la specie umana si esprime attraverso una multiformità di caratteri fisici e
psicologici, vuol dire che, prima del concetto di singolo uomo, viene un
concetto che abbraccia tutta l’umanità, quello di persona umana.
Non
conosco definizione di persona umana migliore di quella indicata da Boezio: “individua
substantia rationalis naturae”. Con una interpretazione di natura estensiva
potremmo tradurre con “entità
originaria e individuale di natura razionale e relazionale”.
La
persona umana viene prima dei singoli individui (di me, di mia moglie Patrizia,
dei miei amici personali ecc.) ma costituisce l’essenza profonda di tutti
noi, è qualcosa di esterno a noi che però rappresenta la nostra sostanza.
E’
questo il motivo profondo per cui né gli altri, né noi stessi, possiamo
disporre di noi stessi. In quanto persone siamo soggetti vitali, non oggetti, e
si può disporre solo degli oggetti.
Mi
scuso per questa che potrebbe sembrare una divagazione e invece non lo è, per
tornare alla argomentazione principale.
Noi
creativamente abili siamo diversi nella stessa misura in cui tutti gli uomini
sono diversi gli uni dagli altri. Lo stesso confine che delimita il concetto di
creativamente abili non può essere determinato con sicurezza, chi può dire se
certe persone siano creativamente abili o no?
Purtroppo
nella mentalità corrente noi siamo visti come un peso, la stessa definizione
(ormai per fortuna largamente superata) di handicappati presuppone il concetto
di peso per la singola persona e per la società intera.
Ma
rappresentiamo davvero un handicap per la società?
Certamente
si per una società che metta al centro valori come il vigore fisico, la
prepotenza, l’efficienza ad ogni costo, l’uso degli esseri umani come strumenti
per raggiungere risultati e il loro trattamento alla pari di una qualsivoglia
merce, la soddisfazione di pretesi diritti individuali anche a scapito del bene
comune...
Si, per questo tipo di società noi rappresentiamo un handicap, un freno, un peso e ne siamo veramente fieri!!
Si, per questo tipo di società noi rappresentiamo un handicap, un freno, un peso e ne siamo veramente fieri!!
Noi
invece vogliamo vivere in una società dove al centro ci sia la dignità della
persone umana, la capacità della stessa di crescere e realizzarsi, nella
felicità, in una relazione profonda con le altre persone.
Esiste
una scuola economica e sociologica, detta della “economia della felicità”[6].
Secondo
questa scuola, e sulla base di dati scientifici inoppugnabili, la felicità non
è una mera funzione della quantità di reddito disponibile; la cosiddetta curva
della felicità cresce inizialmente con il crescere del reddito, ma raggiunto un
certo livello (quello rappresentato da una vita sufficientemente sopra il la
mera sussistenza) la felicità non aumenta più con l’aumentare del reddito,
bensì con l’incremento e l’approfondimento di sane e profonde relazione
interpersonali.
Di
qui la scoperta della relazionalità come elemento essenziale fondante di un
reale stato di felicità.
Una
società di persone felici presuppone una rete di relazioni interpersonali
intense, frequenti, profonde, sane.
Preferiamo
una società nella quale essere felici, pur senza vivere nel lusso o una società
nella quale siamo divorati dallo stress di acquistare e consumare un numero
sempre maggiore di beni materiali?
Credo,
o perlomeno spero, che la preferenza della maggioranza vada verso il primo tipo
di società.
Abbiamo visto nel capitolo precedente i motivi fondanti per i quali i creativamente abili si possono considerare degli esperti nella promozione di relazioni interpersonali quali quelle necessarie per costituire una società di persone felici.
Abbiamo visto nel capitolo precedente i motivi fondanti per i quali i creativamente abili si possono considerare degli esperti nella promozione di relazioni interpersonali quali quelle necessarie per costituire una società di persone felici.
Emerge da questa considerazioni l’opportunità, anzi la necessità, di tenere in gran conto l’importanza del contributo che può dare la presenza di persone creativamente abili per la creazione di un tessuto sociale che agevoli, nella serenità, la realizzazione di ogni persona e, di conseguenza, faciliti uno sviluppo integrale.
Chi è sereno, felice, lavora meglio, sa interagire meglio con le altre persone sul luogo di lavoro, è più efficiente e motivato di chi va a lavorare con poca voglia e serenità, incapace di mantenere un sano rapporto di collaborazione con chi gli sta vicino sul luogo di lavoro o di ricerca.
Veramente si vede con chiarezza come la presenza di creativamente abili non sia un peso ma addirittura una risorsa per l’intera società.
E i
diversamente abili psichici?
Ma tutto quello che ho scritto finora è corretto
solo per i diversamente abili fisici o anche per quelli psichici o mentali
ovvero per quelle persone che, pur non avendo carenze dal punto di vista
prettamente fisico (mutilazioni, atrofie…), le hanno dal punto di vista
psichico o mentale (chiedo scusa a
medici e psicologi se uso formulazioni imperfette, ma ritengo chsiano chiare a
tutti)?
Più in particolare, è corretto parlare di abilità
creativa anche nel loro caso, oppure dobbiamo pensare che usare, per loro
termini come creatività o come fantasia sia fuori luogo?
Devo e voglio essere onesto, non sono in grado di rispondere a queste domande così delicate.
Devo e voglio essere onesto, non sono in grado di rispondere a queste domande così delicate.
Ma alcune cose le so con sicurezza e voglio esporle.
Innanzitutto, più sopra, per definire i diversamente
abili psichici, ho usato il termine “persone” che individua esseri umani
con una dignità pari a quella di tutti gli altri uomini e donne e che sono
dotati del carattere dell’unicità e della irripetibilità, nonché della capacità
di aprirsi verso chi li circonda, verso l’ambiente naturale, verso il
trascendente.
Non voglio commettere lo stesso errore, denunciato
all’inizio di questa opera, che viene commesso nei confronti degli invalidi
civili da parte di quelle persone che si definiscono “normali”, l’errore di
considerarli inferiori.
Non esistono
persone inferiori (gli invalidi) e persone superiore (i normali), esistono
persone diverse le une dalle altre, con i rispettivi pregi e limiti.
Come faccio io, che non sono (o meglio non penso di essere) un diversamente abile psichico a ”misurare” il suo grado di creatività o di fantasia, a negargli la possibilità di trovare lui stesso un modo, o farsi aiutare a trovarlo, per diminuire le sue carenze specifiche?
Come faccio io a “misurare” le sue possibilità di riuscire
a realizzare delle performance uguali a quelle di coloro che si ritengono
normali? come faccio a pensare che non potrà mai raggiungere nella sua vita gli
stessi livelli di successo personale e professionale?
No! Così come ho rifiutato io, diversamente abili, di farmi “ghettizzare”, così devo stare attento ad evitare di “ghettizzare” quelli che si definiscono diversamente abili psichici.
No! Così come ho rifiutato io, diversamente abili, di farmi “ghettizzare”, così devo stare attento ad evitare di “ghettizzare” quelli che si definiscono diversamente abili psichici.
E allora, perché non usare il termine di
“creativamente abili” anche per loro?
Ma un’altra cosa so di certo dei “creativamente
abili psichici”. So che, forse anche meglio di quelli fisici, posseggono dentro
di loro una gran capacità di attrarre il meglio dalle persone che le circondano
di attivare quelle riserve di simpatia, di solidarietà, di fraternità che
abbiamo e che talvolta sono atrofizzate dentro di noi.
Stimolando tutti noi ad essere più aperti, più
fraterni, più solidali, i “creativamente abili psichici rappresentano una risorsa
essenziale ed eliminabile per tutta la società.
Mi rendo pienamente conto che questa pagina rischia
di essere più piena di domande che di risposte. Le risposte spettano ai
lettori, specialmente a tutti quelli che ogni giorno, a qualsiasi titolo vivono
i disagi della disabilità psichica.
Vecchiaia
Rallentamenti e limiti, gli anni che
passano
Qualche
tempo fa avevo chiuso questo scritto ripromettendomi di migliorarlo e di
perfezionarlo (magari con approfondimenti) in un secondo tempo, perché ero
certo che non avesse bisogno di integrazioni; quello che era mia intenzione
comunicare, pensavo di averlo già comunicato e ben spiegato. Avrei potuto forse
migliorare la forma e l’efficacia ma non sentivo l’esigenza di aggiunte.
La
vita spesso si incarica in modo incontrovertibile di distruggere alcune
nostre presunte certezze.
Sono
stato sempre fiero della mia manualità e, come già scritto, sono convinto che
l’assenza di un organo gemello (nel mio caso il braccio destro) stimola il
cervello per fargli migliorare la funzionalità, in primo luogo, dell’organo
gemello esistente e, in subordine, degli altri organi, al fine di compensare
l’organo assente e ripristinare una più o meno normale funzionalità generale.
In
effetti I miei amici sono rimasti sempre sorpresi delle capacità della mia mano
destra.
Riuscire
ad allacciare il nodo della cravatta, o scrivere velocemente con il computer
utilizzando più dita della stessa mano, oppure ancora portare in contemporanea
una busta della spesa con due dita, stringere sotto il braccio una cartella e
con le tre dita libere prendere il borsellino, estrarne le chiavi di casa e
aprirne la serratura, sono state per me sempre delle operazioni semplici e
svolte con sicurezza e velocità.
Qualche
tempo fa le chiavi mi sono cascate di mano mentre le estraevo dal borsellino.
Ho imprecato un po’, ho appoggiato per terra,
per raccogliere le chiavi, cartella e busta e ho aperto la porta.
Il
giorno dopo effettuai la stessa operazione serenamente senza inconvenienti.
Neppure mi ricordai del piccolo infortunio del giorno precedente.
Dieci,
venti giorni (forse addirittura un mese) dopo andavo a prendere la macchina con
il giornale sotto il braccio e in mano la chiave dell’ automobile e un piccolo
oggetto che dovevo posare all’interno. Mentre infilavo la chiave nella toppa mi
cadde l’oggetto di mano.
Per
fortuna non si ruppe, lo raccolsi e lo deposi in macchina.
Passa
un po’ di tempo e, un giorno, mentre avevo la mano occupata da un pacco
incontro una persona amica che mi tende la mano. Generalmente io riesco a
stringerla tenendo il pacco con sole due dita e stringendo con le altre tre la
mano che mi è stata tesa. Quella volta inopinatamente il pacco mi scivolò per
terra.
Ma
altri fatti attirarono la mia attenzione.
Un
giorno entro dentro casa, do un calcetto alla porta per chiuderla dopo averla
regolarmente aperta con le chiavi, poso il borsello sul tavolo dell’ingresso,
porto in cucina un altro pacco, poi vado in camera ad aspettare Patrizia che mi
seguiva e che sarebbe rientrata a casa di là a momenti.
Infatti
lei rientra poco dopo e mi rimprovera di non aver chiuso la porta. Mio
stupore e pronta giustificazione
razionale: probabilmente il calcetto non era stato sufficiente per chiudere la
porta e io, per la fretta di posare sia il borsello che il pacco, non me ne ero
accorto.
Alcuni
giorni dopo apro la porta inserendo le chiavi pur avendo (come al solito) la
mano occupata, entro dentro casa, do il solito calcetto alla porta per
chiuderla, stavolta verifico che si sia chiusa veramente, vado verso lo studio
per posare il giornale (che tenevo in mano) sulla scrivania e...... sento il
trillo del campanello.
E’
la vicina di casa che voleva avvertire che avevo lasciato le chiavi nella toppa
all’esterno!!.
Ancora
una constatazione.
Mentre
prima, seppure con una sola mano, scrivevo velocemente sul computer, in quanto
battevo i tasti con due - tre dita e anche con rari errori di digitazione, ora
la battitura veloce comporta un maggior numero di tali errori e così spesso mi
devo fermare, tornare indietro e correggere i refusi.
Piccoli
episodi che però, colti nella loro sequenza e nel loro insieme, identificavano
un problema di fondo: non riuscivo più a lavorare tranquillamente in
multiprogrammazione!!!
Ora
è necessario spiegare ai meno esperti che cosa voglia dire lavorare in
multiprogrammazione?
Estraggo
da Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Multitasking)
questa spiegazione: “In informatica,
un sistema operativo con supporto per il multitasking
(multi processualità o multi
programmazione) permette di eseguire più programmi
contemporaneamente: se ad esempio viene chiesto al sistema di eseguire
contemporaneamente due processi A e B, la CPU eseguirà per qualche
istante il processo A, poi per qualche istante il processo B, poi tornerà ad
eseguire il processo A e così via.”
Per una persona umana lavorare in
multiprogrammazione significa poter fare delle operazioni in sequenza (ma anche
senza sequenza) mantenendo in memoria le informazioni sulle operazioni finché
non siano state tutte eseguite.
Il
fatto che, nell’effettuare qualche operazione multipla, il mio cervello
perdesse qualche informazione (la chiavi o il pacco per terra, la porta
lasciata aperta ecc.) era per me un segnale preciso.
Ho
capito che non riesco più a lavorare in multiprogrammazione o, meglio, non
riesco più a lavorarci con la velocità di prima perché ho bisogno di aumentare
la concentrazione, di volta in volta sulla singola operazione e ciò comporta un
aumento del tempo necessario e un rallentamento delle operazioni.
A
livello generale vuol dire prendere atto che l’avanzare degli anni mi ha fatto
perdere alcune funzionalità cerebrali e
ciò rende inevitabile una diverso modo di vivere. Sono giunto ad un
momento veramente critico dell’esistenza di ogni essere umano, il rendersi
conto del degrado del proprio corpo.
E’
un momento veramente critico, ma è anche un momento altamente significativo e
che può essere vissuto in maniera creativa (ecco di nuovo un aggettivo già
trovato in precedenza) e costruttivo.
Certo è triste e difficile (veramente molto difficile) accettare un rallentamento generale della propria esistenza, vuol dire aumentare la concentrazione sul momento presente, non volare subito al momento successivo (ciò che mi entusiasmava tantissimo).
L’aspetto più problematico è prendere atto che, anche se la mente corre come prima, occorre fermarla perché, nel fare, si rischia di perdere qualche elemento essenziale.
C’è poi anche da vincere il rispetto umano, il sentimento (misto di vergogna e di riservatezza) che altri possano notare questo rallentamento e fare commenti tipo “ma Giuseppe è invecchiato!!”.
Eppure la soluzione c’è e consiste nel rispondere (prima a se stessi che agli altri): “si, sto invecchiando, ma che male c’è? È un fatto estremamente naturale”.
La vecchiaia comporta essenzialmente la presenza di due aspetti inventabili, un incremento dei limiti al proprio comportamento e, come già evidenziato, un rallentamento generale nel pensare e nell’agire.
Cominciamo
da quest’ultimo aspetto.
Per
uno come me, abituato a correre nella vita di tutti i giorni, nel lavoro, nello
sport, talvolta anche (e lo dico con dispiacere) nella vita sentimentale e
familiare, addirittura anche nel mangiare, il dover prendere atto che,
correndo, rischio sempre più spesso di perdere un pezzo per strada e che
pertanto devo rallentare.
Occorre
anche mettere in evidenza come un creativamente abile faccia spesso della
sua velocità nel pensare e nell’agire una sfida con se stesso per dimostrare di
essere come tutti gli altri, quasi uno strumento vincente. Nel momento in cui
questo strumento vincente, quest’arma si rivela sempre più spuntata, il
creativamente abile si ritrova a dover rallentare non solo per non perdere
qualcosa per strada, ma anche per riflettere sulla circostanza che la sua vita
sta cambiando.
Anche
in questa circostanza, il creativamente abile si può rendere conto di essere
come tutti gli altri, il rallentamento è un effetto della vecchiaia, un evento
comune a tutti gli esseri umani anzi, direi a tutti ciò che è naturale.
Come sto provando ad affrontare questo periodo? Parlo di prova perché è una fase che sto vivendo, non ho soluzioni prefabbricate bensì solo esperienze da proporre.
Innanzitutto il rallentamento mi costringe ad essere maggiormente consapevole dei singoli momenti che si susseguono, di quello che mi accade intorno, delle azioni che sto eseguendo.
E allora perché non profittare di questa consapevolezza per “gustare” quello che c’è di bello nel mondo?
Il sorriso di un bimbo e di una persona che ti vuole bene o alla quale vuoi bene, un tramonto sul mare o dietro una montagna, il cielo stellato visto da una alta quota.
Ma anche, vedendo un campo pieno di fiori e di frutti, riflettere sulle meraviglie della natura, sul susseguirsi delle stagioni, sul rapporto fra animali e piante, sul rapporto fra natura e uomini.
Oppure, camminando per la città, vedere la grandiosità dell’uomo capace, con la sua intelligenza e la sua manualità, di costruire cattedrali, grattacieli, dimore sempre più capienti, comode e sicure.
Quando poi vedo sfrecciare in cielo un aereo intercontinentale non posso non pensare ancora alla genialità dell’uomo che è partito dal fuoco e dalla ruota per arrivare a percorrere non solo gli spazi terrestri ma anche quelli del sistema solare.
E come non riflettere sul tempo trascorso da quando, nel 1971, scrissi la mia tesi di laurea su una macchina da scrivere Olivetti lettera 22 (stando attento a non commettere errori perché sarei stato forse costretto a riscrivere tutta la pagina), ad oggi nel 2020 che sto scrivendo questi pensieri su un Personal Computer, il cui compito fondamentale non è quello di farmi scrivere (cosa del resto ormai facilissima), ma di elaborare dati e numero con velocità impressionante fungendo da supporto per il mio cervello condannato ad una minore capienza e ad una maggiore lentezza.
Quanti momenti belli, quante immagini meravigliose mi perdevo, ci perdiamo correndo, quante occasioni per non stupirci di fronte a delle realtà che abbiamo sempre davanti e che troppo spesso non “vediamo”.
Sì, penso proprio che il rallentamento generale che l’avanzare degli anni ci impone può essere veramente vissuto come una occasione unica per gustare la vita e per stupirci di nuovo per delle cose, degli eventi che davamo per scontati.
Sono i bambini, con la loro mente e la memoria libere e vuote che domandano sempre “che cosa è?”, “perché è così?” e, mentre si gustano il loro stupore, immagazzinano dati e immagini.
Dobbiamo tornare ad essere bambini, a gustarci (come si gusta il nostro piatto preferito...) i singoli momenti della nostra vita, continuare a stupirci di quello che esiste intorno a noi.
E allora potremo anche dire: “viva il rallentamento!!”. In fondo rallentare non vuol dire non fare le cose, ma solo farle più lentamente e ...gustandole di più!!
Una persona che stimavo moltissimo e che ora non c’è era solita invitare i suoi amici (tanti.....) a vivere il momento presente. Aveva ragione e ora lo comprendo più di prima.
Circa 25 anni fa a Gaeta, ad un convegno molto affollato del Movimento dei Focolari, il presentatore chiuse l’ultima sessione con, più o meno, queste parole: “E’ finita una bella esperienza? No! Prima di tutto perché possiamo continuarla fuori nelle città in cui viviamo. Secondariamente perché la vera ricchezza della vita è il momento presente. Ora il convegno si concluderà e ci avvieremo verso l’uscita. Bene muoviamoci osservando bene le persone che incontreremo, viviamo momento per momento questi incontri. Facciamo di ogni momento di incontro un dono di relazione fra noi e le persone che incontreremo. Continuiamo a farlo nella nostra vita. Vedrete che sarà tutto più bello”.
Si, il vivere in pienezza il movimento presente ci porta ad affrontare il rallentamento non come un ostacolo ma come una opportunità.
C’è un altro aspetto caratteristico che la vecchiaia si porta con sé. E’ quello dell’insorgere dei limiti. C’una bella differenza tra l’insorgere di problemi che ti costringono a fare le cose con una minore velocità (il rallentamento di cui abbiamo parlato sopra) e i limiti.
L’esistenza dei primi impone di rallentare, ma è sempre possibile fare le cose, seppure in maniere più lenta, la presenza dei secondi non permette di effettuare certe operazioni da soli.
Se, fino a qualche tempo fa, riuscivo ad alzare la gamba destra, storcerla e appoggiare il piede su un foglio piegato a metà per dividerlo in due con il tagliacarte, oggi questo non mi è più possibile (la settimana scorsa, procedendo in questa operazione, mi sono quasi procurato una distorsione).
Recentemente, lavandomi la mano con il sapone, mi sono reso conto che non riesco più a fare un gioco con le dita (praticamente piegare il mignolo sul palmo della mano sotto le altre dita) che prima era molto agevole fare per me (lo facevo sin da bambino).
Trovo anche più difficoltà ad allacciarmi il primo bottone del colletto delle camicie, o stringere la cravatta al primo colpo nel modo giusto. Arriverà il momento in cui non potrò più farlo.
Come vive un creativamente abile l’insorgere di limiti come questi anzi, meglio, per non fare un discorso solo teorico, come li sto vivendo io?
Fortunatamente, al contrario dei rallentamenti, che sono sempre meno rari, per ora i limiti sono pochi.
Certo non potrò fare più scatti di corsa per 100-
Ma non è un grande problema e, in fondo questi sono limiti che colpiscono tutti alla stessa maniera, non solo i creativamente abili.
Il vero problema insorge quando, come è accaduto qualche mattina fa, non sono stato in grado di allacciarmi da solo il bottone di una camicia e sono stato costretto a chiedere aiuto a Patrizia.
Ecco le parole chiave “costretto a chiedere aiuto”.
Cominciamo dalle ultime due “chiedere aiuto”.
Il limite mi aiuta a comprendere che non sono perfetto, invincibile, eterno ma che ho bisogno dell’assistenza degli altri per poter procedere. Mi accorgo nello stesso tempo che anche gli altri (pure se non creativamente abili) hanno bisogno del mio.
Ecco allora la grande scoperta. L’umanità è fatta di singole persone speciali, uniche ed irripetibili ma anche imperfette e limitate. Ogni persona ha doti specifiche che possono essere indirizzate per un miglioramento del bene comune.
Come se tutti fossimo impegnati nella costruzione di una grande casa (o, più modernamente un velocissimo computer) e ognuno di noi potesse contribuire alla costruzione portando il suo specifico “pezzo”. Noi cresciamo, tutti e tutti insieme, solo se riusciamo a porci nella giusta maniera l’uno al servizio dell’altro.
E’ una grande scoperta comprendere che se è vero che ogni uomo ha delle risorse specifiche, è ancora più vero che l’unità del genere umano è una risorsa che sorpassa di molto la somma di quelle delle singole persone.
Parafrasando Nietzsche possiamo dire che il “Superuomo” esiste ma che non si concretizza in una persona fisica migliore delle altre, invincibile, perfetta, insuperabile ma che ognuno di noi è un Superuomo (anche un creativamente abile) nella misura in cui si pone nell’atteggiamento della disponibilità di chiedere agli altri l’aiuto che gli è necessario e di fornirlo a sua volta con generosità.
Completiamo l’analisi della frase “costretto a chiedere aiuto”.
Alla luce di quanto appena detto ha ancora senso affermare che i limiti mi “costringono” a chiedere aiuto?
Non è forse più corretto pensare che i limiti mi “facilitano” nel chiedere aiuto e che la scoperta di come sia bello chiedere aiuto mi spinge a offrirlo a mia volta, con semplicità e prontezza, agli altri ancor prima che me lo chiedano?
Si, è proprio così, nella vecchiaia scompaiono ancora di più le differenze fra i creativamente abili e gli altri individui, la persona umana conta sempre di più non tanto per ciò che ha o ciò che sa, quanto per ciò che è capace di donare.
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E stavolta chiudo sul serio questo scritto con la speranza che la sua lettura possa essere di aiuto non solo ai creativamente abili, ai loro familiari e agli amici, ma a tutti coloro che vogliono allargare la loro visuale su un argomento che non riguarda la invalidità ma, a ben guardare, la felicità di una ordinata società umana.
Commenti degli amici
In
questa sezione ho inserito i commenti di alcuni miei amici ai quali avevo
chiesto di esprimere le loro sensazioni a caldo, nelle occasioni nelle quali ci
eravamo incontrati, sulla mia capacità di “coesistere” con la mia
caratteristica fisica.
Ho raccolto decine di commenti per cui, pur ringraziando tutti per la collaborazione, sono dovuto ricorrere ad una selezione, riportando solo i più significativi
Ho raccolto decine di commenti per cui, pur ringraziando tutti per la collaborazione, sono dovuto ricorrere ad una selezione, riportando solo i più significativi
Commento al primo incontro.
Devo dire che ho provato una grande tristezza per te e per il tuo destino
umano. Siamo fragili e lo stare in piena forma è un miracolo di cui dobbiamo
ogni istante essere grati. Ancora più tristezza, perché conoscevo il tuo valore
professionale. Lo conoscevo anche dagli altri anche prima di incontrarti. Sono
un maniaco dello stare in formae un braccio in meno penso che sia una fatica
che solo un grande carattere può sopportare. C’è di peggio. Peggio sarebbe
stato essere uno stupido. Di stupidi con due braccia e due gambe ce ne è pieno
il mondo. Meglio tanti Sbardella che tanto stupidi. (S.S.)
Non ricordo esattamente il primo giorno in cui ti ho visto anni fa in ufficio. Ho sicuramente notato la manica vuota della giacca ma poi la mia attenzione si è spostata su di te, sulla tua intelligenza, competenza e gentilezza.
Ho continuato a notare la manica vuota nel corso degli anni e ricordo di essermi chiesta un paio di volte quale ne fosse stata la causa ma si è trattato di pensieri fugaci; il collega, la persona Giuseppe erano molto più interessanti di quella manica.
Ripensando ora a te, alla tua figura, mi appare chiaro in mente il tuo volto, il tuo sguardo e il tuo sorriso - mi devo "sforzare" nel ricordarmi anche la manica vuota
Un abbraccio. (V.S.)
Ciao Giuseppe, ti scrivo per raccontarti
la mia esperienza di “coesistenza” con il tuo “handicap”. Sinceramente le prime
volte che ti avevo incontrato non lo avevo neanche notato. Infatti, c’è stata
una volta che ti stavo per dare la mano per salutare ed è solo in quel momento
che me ne sono accorto (spero di non aver fatto una figuraccia), e tu molto
naturalmente mi hai dato l’altra mano. Ma anche dopo, il mio modo di guardarti
non si è alterato, quando si conversa con te quasi non si percepisce della
mancanza (a meno che non lo si faccia notare). Sei una di quelle persone con
cui si può conversare molto volentieri e scambiarsi opinioni, ma soprattutto a
cui poter chiedere dei consigli.
(S. M.)
La mia risposta alla tua domanda è molto semplice: Non ci ho mai fatto caso. O meglio, molto probabilmente al primo incontro avrò sicuramente notato la cosa ma, proprio per come io sono fatto, l'ho vista come una cosa normale e naturale proprio come chi ha lo strabismo o il naso grosso o un furuncolo sul mento, ci fai caso appena lo vedi ma poi vai oltre con la conoscenza e con il rapporto di lavoro.
Sinceramente, pensare che ancora oggi ci si debba chiedere perché uno è bianco o nero o giallo, con un braccio o con una gamba o con un occhio, uomo, donna o gay, credente, ateo, musulmano, cattolico, buddista e via dicendo mi fa sorridere e pensare che al mondo ci sono ancora troppi imbecilli. Una cosa è certa questi "signori" li smascheri appena aprono bocca o sono di fronte ad una tastiera. (M.N.)
Ciao Giuseppe, ci siamo incontrati varie
volte, durante la nostra permanenza in IBM, sia a Milano sia a Roma, dove
venivo frequentemente per lavoro; penso però che la prima volta che ti ho visto
fosse a Segrate. Ho saputo solo recentemente a seguito di un tuo intervento su
FB, che la tua è una malformazione congenita; quando ti incontrai la prima
volta ricordo che pensai fosse successo per un incidente e, come di solito
avviene in questi casi, stavo attento a non darti l'impressione di essere
osservato, in quanto non sapevo come vivessi la tua menomazione. Mi accorsi
però ben presto che il tuo comportamento era del tutto normale, non vedevo in
te nessuna traccia di quegli atteggiamenti, a volte un po' cupi e scontrosi,
che hanno persone che vivono il loro handicap in modo problematico e ricordo
che fui positivamente colpito da questo e mi chiesi se, al tuo posto, sarei
stato capace di fare altrettanto. In seguito non ci facevo neppure più caso.
Non so se questo ti servirà per il tuo libro, in ogni caso questa fu la mia
impressione. Un abbraccio e auguri per la tua nuova opera. (R.B.)
Mi preoccupa di più avere a che fare con uno stupido e tu non lo
sei Giuseppe! (A. G.)
Eravamo giovani quando ci siamo incontrati per la prima volta , tanti anni fa a
Roma durante una mia visita per lavoro . Sinceramente non ricordo nemmeno di
aver fatto caso al tuo handicap, lavoravamo col cervello più che con il resto
del corpo. Infatti negli anni me ne ero anche dimenticata finché non lo hai
riportato alla luce in uno dei tuoi post su FB , e solo allora ho riflettuto su
quante cose , dalle piccole alle grandi , sono state più difficili per te. Hai
assorbito la difficoltà , non ti sei fatto definire da questa , e forse ti è
stata addirittura di stimolo per la tua crescita personale. (L.B.)
Ciao Giuseppe!
Accolgo con piacere l’invito sul tuo messaggio e scelgo Facebook
come piattaforma che per uno scambio più rapido di feedback.
Personalmente io non l’ho notato subito, anche perché ci siamo
conosciuti in un momento che lasciava poco spazio all’attenzione (l’appello di
Scienza Politica nel 2017).
Quando poi ho notato il tuo handicap ovviamente c’è stata la
voglia di chiedere, anche perché a primo impatto ho subito pensato ad un
incidente. Complice anche una forte ignoranza in merito ho avuto modo di
ipotizzare ma vedendo poi i tuoi post in cui ne parlavi con serenità ho avuto
modo di comprendere la situazione. Pertanto nulla di più di ipotesi senza un
reale fondamento. Non sapevo di questo libro ma spero di poterlo leggere quando
sarà pronto. Un abbraccio forte! (A.T.)
Non ho mai pensato a te come una persona portatrice di handicap.
Intelligenza, empatia, occhi svegli e azzurri sono ciò che ho notato la prima
volta che ti ho visto alla lezione del master in mediazione familiare. Siamo
subito diventati amici, sono emersi anche acume ed ironia. L'unico riferimento
all'handicap che ricordi è stato quando mi hai detto che c'e' una cosa che non
sai fare da solo : allacciarti le scarpe. Nessuno pensa a te come una persona
portatrice di handicap. Ti voglio bene, amico mio (O.I.)
Beppe ...abbiamo avuto rapporti e frequentazioni in
ambiente/contesto di lavoro ..inizialmente ho provato una sorta di
"invidia" x la naturalezza ,semplicità e la forza d'animo con cui
vivevi il tuo handicap.. e la serenità che comunque trasferivi , mettendo a
proprio agio chi si rapportava con te soprattutto le prime volte ...!! Una
delle persone (poche in Azienda) che mi ha arricchito l'animo .
Beppe ..ora sta a te fare la sintesi ...sai che non è mai stata
una mia qualità. (S.N.)
Ciao amico mio. Eccoti qui la risposta. Non ho capito se ti serve
una risposta lunga ed esaustiva o un semplice parere.
Quando ti vidi per la prima volta fu durante il corso di Scienze
Politiche di Passarelli. Ricordo che costui ci fece presentare davanti alla
classe diversi partiti politici. Tu presentasti assieme ad altri, un partito
che se ho capito bene era una sorta di costola di Scelta Civica.
Ma potrei sbagliarmi.
Essendo sincero, inizialmente feci caso alla mancanza. Sarei
ipocrita se affermassi il contrario. Ti osservai con gli occhi di chi vede per
la prima volta un qualcosa di nuovo, vogliamo dire diverso dal canone standard?
Sono molto schietto, in questi miei giudizi.
Non avevo mai visto dal vivo persone senza un braccio.
Nel corso del tempo, quando siamo diventati amici, la cosa è stata
assorbita dalla mia mente come normalità.
Ancora non sapevo l'origine del tuo essere. Se congenito o
traumatico. Se ricordi una volta, volli chiedertelo.
Trovo molto carina la tua usanza di mettere la manica nella tasca.
Devo dire che nasconde molto. Oppure le foto scattate sempre, o su di un lato,
o con una parte del corpo di tua moglie che copre.
Ricordo che durante le nostre chiacchierate nei corridoi, mi
raccontasti, tra il più e il meno della chiacchiera, come un tempo riuscivi a
fare tutto anche con un solo braccio. Mi colpì quando affermasti che eri capace
di annodarti il nodo della cravatta da solo, senza l'aiuto di nessuno.
Quella frase mi fece capire che la volontà fa dell'essere umano un
essere per un certo verso invincibile. Sei un esempio di vita. Sei la prova
vivente che volere è potere, come il vecchio detto afferma. Tanti per molto
meno si fanno del male, cadono in depressione. Si arrendono.
Tu devi essere nato sotto la giusta stella. Non ti arrendi mai.
Anche in politica sei così.
La stoffa del dirigente ce l'hai.
Ricordo anche come nei primi momenti mi sentivo in imbarazzo
perché non sapevo come stringerti la mano, se scambiarci le sinistre o con
altro modo.
Alla fine una modalità di saluto l'abbiamo spontaneamente trovata.
Che dire ancora... sono stato il più schietto e sincero possibile.
Alla mia laurea attendevo solo te ed Arlinda, gli altri erano di
contorno.
A te ci tenevo =)
(D.Z.)
Caro Giuseppe,
Caro Giuseppe,
Io ti ho conosciuto a una riunione a Roma dove l’argomento se mi
ricordo bene riguardava una nuova procedura di gestione degli ordini e debbo
dire che mi ha colpito la mancanza di un arto per quel sentimento di “pietàs”
degli antichi greci. Per esperienza ho imparato che madre natura spesso ciò che
toglie lo ripaga ampiamente con nuove sensibilità, talento e capacità. E ancora
una volta così ha fatto nei tuoi confronti dandoti l’intelligenza, la
determinazione, la forte volontà di emergere e di superare la tua disabilità
senza farla pesare agli altri.
Ti apprezzavo prima come collega ti apprezzo ancor di più oggi
perché ti conosco molto più a fondo e al di fuori degli schemi che spesso in
azienda dovevamo tenere.
Continua così e grazie per darci spesso l’opportunità di
riflettere sulla realtà che stiamo vivendo, spaziando su argomenti che spesso
per me sono difficili da razionalizzare e da
affrontare. Vorrei avere la tua fede invece ho solo molti dubbi.
(P.L.C)
Innanzitutto complimenti per il libro ...son curiosa di leggerlo.
Circa il commento sarò sincera ma son più brava a parlare che a scrivere. Sinceramente io non ci faccio caso, nel senso
che non lo percepisco e forse, dico forse, perché quando parliamo sono presa
dalla tua persona , da ciò che dici e da come lo dici, quindi non lo noto. Non
so, ma non ci penso, non lo vedo. Forse gli handicap sono altri e spesso non si
vedono?
Ciò non toglie che le prime volte che ti ho visto (i primi anni
che sono venuta ad abitare qui) ovviamente ci ho fatto caso ma solo come un
dato di fatto. (F.M.)
Ali
Maggio 2017
Vedendo gli uccelli volare, un bimbo mi ha detto :
ma tu non ti senti limitato? Tu ce le hai le ali?
No, non sono un uccello.
Solo gli uccelli hanno le ali.
Gli uccelli e gli angeli.
Io no, non ho le ali.
Però, forse, potrei avere le ali.
Forse si !
Sì, posso avere le ali.
Ali per sognare
Ali per aiutare
Ali per volare.
ciao Giuseppe è una mia poesia del 2017
per rispondere in modo un po diverso alla tua richiesta. Si è un
po disintegrata ma ogni quadratino dovrebbe andare a capo. In bocca al lupo.
(D.T.M)
Sinceramente Giuseppe come molti, me ne sono accorto molto dopo
averti conosciuto e quasi casualmente. Quale migliore testimonianza della tua
capacità di non viverlo come un handicap o una scusa per farsi accettare o
capire? Sei sempre stato una persona Abile "punto" e non un
Diversamente abile, come il politicaly correct ci dovrebbe invitare
ipocriticamente a chiamarti ;) Uno che abbraccia con il cuore non ha bisogno di
due braccia perfette. (L.F.)
Ma sì, ricordo il primo incontro a Segrate. Forse un leggero
imbarazzo nello stendere la mano... già, allora ci si dava la mano quando ci di
presentava, ce lo stiamo dimenticando.
No insomma, sono state altre le cose che hanno contato nei nostri
rapporti di lavoro e di amicizia. L’handicap era così irrilevante che non mi ha
mai frenato nel fare involontariamente battute e quindi gaffes. Ricordo tutto
con un sorriso di affetto e nostalgia. (R.S.)
Caro Guseppe, eccomi a commentare il nostro primo incontro a
Segrate. Intelligenza, arguzia e empatia
sono state le prime cose che ho riscontrato e che poi hanno contato, insieme ad
avere ideali simili, nei nostri rapporti
di lavoro e di amicizia. L'handicap
? Non ha mai contato. Con affetto.
(C.F.)
Caro Giuseppe nel periodo a Roma in cui le nostre carriere
lavorative si sono incrociate ti ho sempre considerato un'ottima persona, intelligente,
corretto e professionalmente preparato.
Sempre disponibile e le cose che hanno contato nei nostri rapporti
di lavoro e di amicizia erano il reciproco rispetto del lavoro diverso che
ciascuno di noi svolgeva ma che tendeva allo stesso obiettivo della nostra
società di appartenenza. Il tuo handicap era così irrilevante che non mi ha mai
creato problemi nel nostro rapporto. Ricordo quel periodo con un sorriso pieno
di affetto e di rispetto reciproco. Credo di avere tanta nostalgia per quegli
anni quando si lavorava duramente ma con serenità perché quello che portavamo
avanti era un progetto enorme ma comune a tutta l'azienda senza soprusi,
rivalità e gelosie! (F.D.F.)
Caro Giuseppe, come stai? Ho letto ora il post su FB e mi fa molto
piacere collaborare! Cosa dirti, quando ci siamo conosciuti ho pensato subito
ad una persona che ama mettersi in
gioco, assetato di conoscenza e cultura, ammirevole. La tua particolarità
fisica, non è altro che un vezzo!! Le nostre conversazioni ed i nostri
confronti dopo esami o durante le lezioni sono sempre stati uno spunto
personale. Anzi, spero di poter contare su di te anche ora che è finita la mia
esperienza universitaria per consigli e suggerimenti nel mondo del lavoro. Con
tantissimo affetto. (C.R.)
Caro Giuseppe ,
rispondo alla tua
richiesta , ci tengo
molto che tu
pubblichi il tuo
libro, la mia
primissima impressione ,
vedendoti , e'
stata che potevamo
capirci , parlavamo la
stessa lingua ,
non nascondo ,
sinceramente , che ,
grazie a
te ( e non
solo...), mi sono
sentita fortunata ....
ho un problemino
, rispetto a te ed
altri , e sono
grata a mia
madre , per
lei sono sempre
stata piu' che
"normale" ....
(M.R.C.)
(M.R.C.)
Giuseppe,
Come ricorderai, ci
conoscemmo, ai primi giorni di Novembre,
del 1966 ( ? ), all'aula 1 della Facoltà di Giurisprudenza !!! Ricordo che la " conoscenza " fu molto spontanea e naturale !!!
Forse....ciò dipendeva dal
fatto che, per qualche anno, avevo parte cipato come " barelliere
" ai treni malati a Loreto !!! Furono delle esperienze...." bellissime
e importantissime ",...delle " lezioni di vita
"...indimenticabili !!!!.....Quando tornavo a casa
sentivo che...." ciò
che avevo ricevuto era molto di più di ciò che avevo dato ".....anche se alla fine
di ogni giornata ero letteralmente sfinito !!!!
Per cui, forse,
l'esperienza con malati molto più gravi mi ha agevolato nel nostro incontro di giovani studenti
!!!!.....l'unica cosa di cui rimasi ....." impressionato " fu la
facilità con cui prendevi gli appunti durante le lezioni !!!! Poi..... la conoscenza andò avanti,....si trasformò in " amicizia", .....la " ricchezza " di Giuseppe si manifestò come " persona ", e ancora oggi è una presenza " rilevante " e degna di essere presa in considerazione !!!! (E.G.)
Io ti ho conosciuto nell'anno 2000. Eravamo già al Torrino e io
ero appena uscito dal lab Sw per passare alle vendite Sw. Ovviamente, dire che
non ti avevo notato prima proprio a causa del tuo problema sarebbe da ipocriti.
Poi ti ho conosciuto e ho potuto apprezzare la tua professionalità ma anche la
tua cultura umanista. Permettimi di chiudere con una battuta che mi fece un
collega quando gli dissi: "qui solo Giuseppe P Sbardella può darci una
mano" lui rimase un po' interdetto perché pensava volessi fare una battuta
di cattivo gusto. Poi si riebbe e con un mezzo sorriso disse: e di sicuro ce la
darà! E così fu. Ma allora non conoscevo ancora la tua autoironia per cui non
ti raccontai l'episodio. Un grande abbraccio (P.P.)
******************************************
Quando avevo chiesto i loro
commenti ai miei amici che mi conoscevano personalmente, sinceramente non
pensavo che ne arrivassero tanti.
La schiettezza con la quale
sono espressi mi fanno ritenere che siano anche molto sinceri.
La diversità delle
sensazioni che vengono raccontate riflette molto di quanto ho raccontato nelle
prime pagine quando scrivevo delle impressioni che la maggior parte delle
persone ha nei confronti dei creativamente abili.
Compassione, simpatia, pietas
sono inizialmente le sensazioni più comuni, solo i più giovani sembrano non
aver percepito alcun disagio nell’essere interfacciati con me, anche perché
forse sono più liberi da schemi mentali consolidati con gli anni
Sono contento che, con il progressivo aumento degli incontri, le
impressioni di disagio siano diminuiti e tutti mi abbiano visto come una
persona umana e basta.
E’ questo l’atteggiamento giusto, che fa crescere sia il creativamente abile che chi lo incontra.
E’ questo l’atteggiamento giusto, che fa crescere sia il creativamente abile che chi lo incontra.
Grazie a tutti! .
[1] Questo capitolo è stato
ampiamente ripreso da una parte del capitolo I del mio precedente libro
“Controcorrente - la mia storia di cristiano e di manager” Citta nuova 2008
[2] “marciarci” è un termine
del dialetto romanesco che indica il simulare una difficoltà facilmente
superabile per evitare una fatica e addossarla ad un altro.
[3] Per approfondire il tema
della comunicazione suggerisco di leggere “Comunicare in modo etico” di M. T.
Giannelli – 2006, Raffaello Cortina Editore.
[4] A. Kohn -La fine della
competizione – Baldini & Castoldi 1992
[5] G. Sbardella –
Controcorrente – La mia storia di cristiano e di manager. - Città Nuova 2007
[6] Fautori in Italia di
questa scuola sono i Proff. Luigino Bruni e Benedetto Gui. Per un
approfondimento suggerisco la lettura del libro “Felicità – la nuova scienza
del benessere comune” di R. Layard, ed. Rizzoli 2005.