Di seguito il testo della tesina con la quale acquisii, nel 2007, il diploma di Mediatore familiare, a seguito della frequenza del corso biennale (Master post-universitario di II livello) e del brillante superamento dell'esame finale.
Pur se scritto nel 2007 e, pertanto, sotto certi aspetti parzialmente datato, riveste alcuni caratteri oggi attualissimi in tema di mediazione tra culture diverse in un mondo sempre più globalizzato.
La mediazione familiare nel mondo
globalizzato
Avv. Giuseppe Sbardella
INDICE
Capitolo I - Globalizzazione
e mediazione
·
1.a) Cenni sulla globalizzazione.
·
1.b) Vari
tipi di globalizzazione (mediatica, economica, giuridica, culturale).
·
1.c) Effetti della globalizzazione (omogeneità,
distinzione delle identità).
·
1.d) Necessità
della mediazione (culturale, sociale, familiare) nell’epoca della globalizzazione.
Cosa è la mediazione?
Capitolo II - Mediazione
familiare
·
2.a) Cenni
storici.
·
2.b) Natura e Definizione.
·
2.c) Fasi
Capitolo
III - Obbligatorietà della mediazione familiare?
·
3.a) Normativa
sugli aspetti della mediazione familiare.
·
3.b) Obbligatorietà
della mediazione familiare? Perché no
· 3.c) Obbligatorietà della mediazione familiare?
Perché si
·
3.d) Ma che
c’entra la globalizzazione?
“Non esistono due persone che non si
comprendono, esistono solo due persone che non comunicano” (vecchio proverbio
africano)”
Risolvere un conflitto
raramente ha a che fare con chi ha ragione.
Dipende semmai dal riconoscere ed
apprezzare le differenze (T. Crum)
Capitolo I - Globalizzazione e
mediazione
1.a) Cenni sulla
globalizzazione (mediatica, economica, giuridica, culturale).
Si
parla oggi (e qualche volta anche senza sufficiente cognizione di causa) sulla globalizzazione,
ci si schiera a favore o contro, spesso non sulla base di precise conoscenza
bensì di pregiudizi ideologici o di paradigmi politici.
Cosa
è dunque la globalizzazione?
Alla
voce “Globalizzazione“ della Enciclopedia Rizzoli-Larousse si legge:
“Complesso dei fenomeni di integrazione economici, finanziari, culturali e
politici a livello mondiale che si creano ad opera dei più recenti mezzi di
trasporto e di comunicazione, in particolare di telecomunicazione”.
La
Grande Enciclopedia Tematica Garzanti nel
volume Economia fornisce la seguente definizione: “”Intensificazione degli
scambi e degli investimenti internazionali, che crescono più rapidamente
dell’economia mondiale nel suo complesso, con la conseguenza di una
tendenzialmente sempre maggiore interdipendenza delle economie nazionali”.
Queste
due definizioni hanno in comune una sopravvalutazione degli aspetti economici e
finanziari rispetto a quelli culturali e giuridici.
Inoltre,
la prima più della seconda (che pure non ne è esente) ha una visione statica
della globalizzazione (definendola “complesso”), mentre tale fenomeno è per sua
natura un processo continuo e in parte imprevedibile che, peraltro, proprio per
questa caratteristica, rende difficile un suo incanalamento o una sua gestione
da parte delle strutture e delle istituzioni.
La
definizione più bella e semplice data della globalizzazione è quella di Romano
Prodi quando era ancora Presidente della Commissione CEE: “globalizzazione
vuol dire: ci sono anche gli altri”. Laddove per altri non si intendono
solo i vicini di casa o di città, o
soltanto i connazionali, ma gli uomini del mondo intero.
Il
fenomeno fondamentale che contraddistingue la globalizzazione è la prossimità,
la vicinanza fra tutti gli uomini, la possibilità fra uomini di continenti
diversi di comunicare, di accedere (più o meno liberamente) a informazioni
degli uni e degli altri, di conoscere e rispettare (o temere) culture
completamente diverse dalle proprie, di acquisire conoscenze e tecnologie in
maniera rapida e completa da ogni parte del mondo. In una sola parola di
superare la difficoltà della territorialità e di far divenire il mondo un
villaggio globale virtuale.
Se
proprio occorre dare una definizione “seria” di globalizzazione potremo
individuarla come “un processo continuo e non predeterminato che, su scala
mondiale, rende gli uomini e i popoli più vicini agli uni agli altri, favorendo
uno scambio incessante di comunicazioni, dati, informazioni, sentimenti, in
ambito culturale, economico e giuridico, fondato sul moltiplicarsi del numero e
sull’incremento della velocità degli strumenti di trasporto e di
telecomunicazione”
Quando
si può dire che sia iniziata l’era della globalizzazione?
Alcuni pongono la data di inizio nel 1989, in contemporanea
con la caduta del muro di Berlino e il crollo del comunismo sovietico. I
sostenitori di questa tesi affermano che la scomparsa della divisione del mondo
in due blocchi contrapposti ha provocato la caduta di tutte le barriere
culturali ed economiche che prima impedivano la libera circolazione delle
persone, delle idee e delle risorse (beni, capitali finanziari).
Un’altra
corrente di pensiero afferma invece che
la caduta del comunismo sovietico si può tranquillamente imputare al fenomeno
della globalizzazione in quanto è stato proprio l’accesso sempre più facile, da
parte degli uomini dell’Est, alle informazioni dell’Occidente, ha portato i
primi ad un confronto fra stili di vita, atteggiamenti culturali, possibilità
economiche, provocando la sempre più profonda disaffezione nei confronto dei
regimi dell’Est e il loro crollo,
Secondo
questa interpretazione la caduta del muro di Berlino (che rappresentava simbolicamente
il crollo di tutte le barriere fra gli uomini) può essere considerata non tanto
l’origine quanto il frutto della globalizzazione.
La
mia personale opinione è che le due teorie si possono benissimo integrare
e tale opinione è suffragata dalla mia esperienza personale di ex-Dirigente di
una grande azienda multinazionale americana operante nel campo dell’informatica.
Già
verso la metà degli anno 80, la cultura di tale azienda andava progressivamente
e irreversibilmente cambiando. Si notava in maniera sempre più chiara
l’intenzione, da parte della Casa Madre americana, di limitare l’autonomia
commerciale, tattica e operativa delle singole imprese, agenti sui territori
nazionali, per ricondurre il tutto ad un strategia globale univoca fissata a
livello centrale. Questo sulla base dei nuovi sistemi informatici che
permettevano, da una parte lo scambio sempre più veloce di informazioni,
dall’altro la possibilità di dare rapidamente direttive sempre più stringenti e
operative e la capacità di controllarne l’attuazione con efficacia e
puntualità.
Questa
che prima era solo una intenzione che andava crescendo, aiutata dallo sviluppo
dei media e dei sistemi informatici, diventò una vera e proprio strategia
operativa dopo il 1989. Ricordo procedure sempre più stringenti e inderogabili,
decise in america e da applicare in tutti i contesti nazionali, conferenze
internazionali via video nelle quali i Dirigenti nazionali (a tutti i livelli)
concordavano le strategie con i Dirigenti della Casa Madre, gli ordini sempre
più precisi dati a livello centrale anche sulla condotta da tenere su singoli
affari.
E’
vero pertanto che la globalizzazione era presente anche prima del 1989, sulla
base della crescita sempre più rapida dei mezzi di trasporto e di
telecomunicazione, ma è pur vero che la caduta del muro di Berlino può
essere considerata come lo spartiacque fra un fenomeno che era già nato e
che cercava di svilupparsi e la nascita di quel processo continuo di
avvicinamento che prima ho chiamato globalizzazione, nella mia definizione
seria.
1.b) Vari tipi di
globalizzazione (mediatica, economica, giuridica, culturale).
Ho
portato la mia esperienza perché sono convinto che la globalizzazione è, prima
di essere un fenomeno economico, giuridico, finanziario, un fenomeno umano,
e proprio perché umano investe tutti gli aspetti della persona, da quello
comunicativo all’economico, al culturale, al giuridico.
Possiamo
infatti distinguere sostanzialmente una globalizzazione mediatica, una economica
finanziaria, una culturale ed una infine giuridica.
La
globalizzazione mediatica è quella
che si è sviluppata per prima ed ha posto le basi per le altre, direi che ne è
stata quasi il motore.
L’uso
sempre più massiccio e diffuso del televisore e del telefono, l’introduzione
del cellulare come elettrodomestico di massa, l’avvento rivoluzionario di
Internet hanno fatto si che il tempo di diffusione di notizie e di immagini in
tutto il mondo si sia rapidamente ridotto, tanto anche da annullarsi in alcuni
casi. E’ per me emblematico di questa forma rapida di diffusione un ricordo
personale: l’11 settembre ero a Mosca e riuscii a vedere sulla RAI l’immagine del disastro alle Torri Gemelle
appena un’ora dopo l’attentato (lo stesso fatto non sarebbe stato neppure
immaginabile 5 anni prima, e non solo perché la Russia era ancora l’URSS!).
Internet
è poi oggi diventato un fenomeno di massa. Non solo è possibile accedere
istantaneamente ad informazioni di ogni tipo (commerciale, economico, artistico
e altro), ma è anche possibile comunicare e anche video-comunicare a basso
costo fra diversi Continenti. Oggi è facile sentire madri che dicono di aver
chattato con i figli in America e lo stesso avviene fra coniugi, fidanzati ed
amici.
Il
primo mondo ad accorgersi delle potenzialità della globalizzazione mediatica è
stato quello economico che ha subito intravisto delle enormi possibilità di
trarre profitto dalla nuova possibilità di velocità di comunicazione anche
attraverso le nazioni e i continenti. E’ nata qui la globalizzazione
economico-finanziaria.
Oggi
masse imponenti di denaro possono essere mosse, via internet ed in modo
istantaneo, da un continente all’altro, causando fibrillazioni nelle borse e
crisi economiche, oppure grandi opportunità di crescita, nei Paesi.
Questa
facilità ha comportato anche una serie sempre più ampia di problemi alla
possibilità per i Governi nazionali di guidare le politiche economiche, e lo
stesso potere economico si sta sempre più spostando dai Governi dei singoli
Paesi ai grandi azionisti delle Borse, capaci di investire somme enormi (più
grandi talvolta dei bilanci di alcuni
Paesi) speculando sulle valute nazionali e lucrando ingenti profitti da tali
operazioni.
D’altra
parte è sempre più facile per le Case madri delle grandi società multinazionali
dirigere e controllare le varie filiali nazionali tramite l’uso di processi
rigidi da seguire, decisi centralmente, e l’impiego di strumenti telematici
sempre più precisi e veloci.
La
globalizzazione culturale ha la sua matrice nella globalizzazione
mediatica e in quella economica, si può affermare che è figlia di entrambe.
Essa
può essere definita come quel processo di conoscenza fra le diverse culture che
le porta ad un confronto reciproco e a sviluppi sia di integrazione che di
rifiuto (ma di questo aspetto tratteremo diffusamente nel prossimo paragrafo).
Come
incidono la globalizzazione mediatica e quella economica su quella culturale?
La
prima essenzialmente permette ai singoli ed ai popoli uno scambio sempre più
semplice, agevole e rapido di conoscenze, dati, costumi, informazioni.
Oggi
tramite Internet è sempre più facile, per una gran parte dell’umanità, accedere
a siti artistici, turistici, geografici, religiosi, giuridici di Paesi diversi
e lontani da quello dell’utente di Internet; si può visitare il mondo e
conoscerlo senza muoversi di un passo da casa propria.
Inoltre,
in aggiunta alle conoscenze teoriche, si può facilmente arrivare anche a
contatti personali a basso costo, utilizzando la rete web per chattare, ovvero
per colloquiare con persone dei Paesi diversi dal nostro. Certo usare la Rete
(altro nome di Internet) in maniera efficace resta più facile soprattutto alle
giovani generazioni mentre gli adulti, e particolarmente gli anziani, si
trovano di fronte a qualche difficoltà; si può comunque affermare con sicurezza
che certamente Internet è ormai divenuto un fenomeno di massa capace di
avvicinare popoli e culture.
Sempre
in campo comunicativo un altro fenomeno mediatico che ha avvicinato gli uomini
nel mondo è stata la sempre maggiore diffusione dell’inglese come lingua
universale con la quale poter comunicare.
A
dispetto di altre lingue nazionali abbastanza diffuse (come il francese, lo
spagnolo, il cinese) e di tentativi astratti per fondare una lingua virtuale
transnazionale (ad esempio l’esperanto) ormai l’inglese si è imposto come la
lingua ufficiale del mondo degli affari e di quello giovanile. Oggi non si può
più fare business in modo decente senza conoscere l’inglese e il 90% dei
giovani conosce qualche parola di inglese, almeno a causa della navigazione su
Internet (dove i comandi e le principali istruzioni sono in inglese) o per aver
sentito le canzoni in inglese (lingua internazionale della musica).
Qualcuno
dice che l’inglese è facile perché ha poche regole (è essenzialmente una lingua
pragmatica), mentre ad esempio l’italiano (lingua classica) ne ha molte di più.
Resto di una idea diversa. Ad un insegnante che mi faceva notare come l’inglese
avesse una decina di regole a fronte delle centinaia dell’italiano risposi: “è
vero che l’inglese ha dieci regole e l’italiano ne ha più di cento, ma
l’inglese ha centinaia di eccezioni, specialmente nella pronuncia, mentre l’italiano
ne ha veramente poche. La verità che il successo dell’inglese è frutto di una
grossa operazione di Marketing (“l’inglese è una lingua facile con poche
regole”) e del fatto che è la lingua ufficiale utilizzata nel mondo degli
affari.
Quest’ultima
considerazione ci porta a evidenziare l’incidenza della globalizzazione
economica su quella culturale.
Negli
anno ’90, subito popola caduta del muro di Berlino e la scomparsa dell’URSS il
politologo americano Francis Fukuyama, nel suo libro “La fine della storia e
l’ultimo uomo” , sostenne che con la
sconfitta del comunismo sovietico la storia politica dell’uomo fosse giunta
alla fine e che il regime democratico liberale e i valori che lo stesso
incarnava rappresentassero l’evoluzione finale della società umana.
Lo
stesso Fukuyama, in lavori successivi, ha modificato questa sua impostazione (e
come non avrebbe potuto farlo dopo quello che era accaduto l’11 settembre
2001?) ma comunque il suo pensiero è rimasto valido per alcune sue linee.
E’
vero che la profezia di Fukuyama non si rivolgeva tanto al regime democratico
liberale dal punto di vista politico quanto al capitalismo che era il sistema
economico allo stesso sotteso.
Ed
è altrettanto vero che il capitalismo (specialmente quello americano), in
assenza di un sistema competitore come era quello sovietico, ha cercato di
imporsi in tutto il mondo e in tutte le nazioni come l’unico sistema in grado
di portare ricchezza, progresso, successo.
Ma,
ed è questo un punto nodale, il capitalismo basava questa sua politica di
espansione su una cultura e tendeva a
far di questa l’unica cultura mondiale. I valori basilari di questa
cultura potevano ritrovarsi nel primato dato all’individuo e alla sua capacità
di creare ricchezza, nel considerare il mercato come lo strumento migliore e
insuperabile per allocare risorse e beni, nel ritenere la ricchezza acquisita
come metro per misurare il successo nella vita e l’importanza della
persona, nel permettere alle persone di
professare la loro fede religiosa solamente nell’ambito privato negando alla
fede stessa un qualsiasi rilievo pubblico.
Non
è ancora certo che il tentativo di imporre questa cultura a livello mondiale
sia riuscito (il tentativo è tuttora in corso e, a mio parere, non avrà esito
positivo), ma sicuramente essa ha impregnato una buona parte del mondo
occidentale e si è diffusa, in maniera ampia e influente, anche negli altri
mondi, provocando reazioni anche violente.
D’altra
parte il prevalere di questa cultura unica è strumentale al corretto
funzionamento del capitalismo (di tipo americano) come sistema economico e
finanziario valido per tutto il mondo.
La
globalizzazione giuridica è l’altra
necessità del capitalismo per riuscire a svolgere appieno i suoi effetti e
raggiungere i suoi risultati. Infatti, se ogni nazione mantenesse il proprio
sistema giuridico, la presenza di norme giuridiche diverse da un Paese
all’altro otterrebbe l’effetto di porre
ostacoli, se non di frenare la libera circolazione di beni e persone necessaria
per il pieno dispiegarsi dei sistema
economico e finanziario.
Ricordo
a tal proposito la mia esperienza nell’ufficio contratti di una grande
multinazionale americana. La politica aziendale prevedeva che la Casa madre
preparasse gli standard contrattuali (ovviamente in inglese e secondo le regole
giuridiche statunitensi) e presumeva che tali contratti potessero avere piena
validità in tutti i Paesi in cui le sue aziende nazionali svolgevano la loro
attività. I legali americani e i managers della Casa Madre restavano molto
sorpresi quando noi italiani obiettavamo che non era possibile accettare in
toto i contratti proposti perché, nel sistema giuridico italiano vigevano
alcune norme inderogabili dalle parti; era poi per loro particolarmente strana
quella nostra norma che prevedeva una specifica firma aggiuntiva, da parte dei
clienti, per quei articoli che
risultassero particolarmente onerosi per essi (ad esempio limitazioni diffuse
della responsabilità civile per danni).
1.c) Effetti della
globalizzazione (omogeneità, distinzione delle identità).
Abbiamo
ampiamente (anche se il fenomeno richiederebbe ben altra trattazione) visto
come, nell’analisi del mondo moderno e nel comportamento dei cittadini di tutti
i Paese non si possa ormai prescindere da quel fenomeno irreversibile che viene
definito globalizzazione.
Cercheremo
di capirne brevemente in questo paragrafo gli effetti ai fini delle
relazioni fra popoli e fra singoli individui.
Certamente
la prima considerazione sulla globalizzazione ci porta a vedere con chiarezza
come il primo suo effetto sia quello di aver avvicinato i popoli e gli
individui e di aver reso il mondo intero simile ad un piccolo villaggio.
Oggi
è possibile per tutti:
· viaggiare fisicamente, a costi più bassi e con
documenti più semplificati da un Paese, e anche Continente, all’altro:
· vedere i fatti che si verificano nelle altre nazioni
non solo tramite la rete televisiva della propria nazione, ma accedendo
tranquillamente a reti televisive estere;
· telefonare, a costi sempre più bassi, a parenti ed
amici residenti in Paesi esteri;
· viaggiare, tramite internet, all’estero senza muovere
piede da casa, accedendo a siti web turistici;
· sempre tramite internet, avvicinare altre culture
accedendo a siti dove è possibile visitare grandi musei, leggere grandi opere
di letteratura, “chattare” con personalità straniere, o con persone conosciute
solo tramite web;
· addirittura vedere le persone con cui siamo in
contatto telefonico o internet utilizzando delle apposite telecamere;
· “scaricare” films, documentari, musica di tutti Pesi
del mondo.
La vicinanza, oltre ad essere un fatto mentale, è
divenuta anche un fatto fisico, seppur non spaziale; siamo vicini, possiamo
parlare con persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza, possiamo
vederle, l’unica cosa che non riusciamo a fare è toccarle (almeno per ora, ma
non possiamo porre limiti alla tecnologia).
Possiamo
ben dire ormai che i confini territoriali contano ben poco.
Ma
la vicinanza sempre più stretta comporta anche dei problemi.
Le
culture familiari e nazionali sono dure a morire. Un recentissimo libro di
Andrea Riccardi (Condividere, Laterza
2006) mostra chiaramente come la fine del bipolarismo (da una parte gli USA, il
mondo occidentale e quello liberal-capitalistico, dall’altra l’URSS i Paesi del
blocco sovietico e la maggior parte del Terzo Mondo) ha provocato il risorgere
delle identità nazionali.
E’
sufficiente pensare ai problemi che si sono creati nella ex-Jugoslavia, che
hanno provocato diverse guerre e che ora solo stanno risolvendosi con la
creazioni di nuovi Stati che si ricollegano a vecchie nazionalità. Occorre
aggiungere anche casi (anche se pacifici) verificatisi in Europa, come la
separazione della Cecoslovacchia in Repubblica Ceca e Slovacchia e sempre in
Europa, un caso non di divisione, ma di riunione di identità nazionali comuni
che erano state divise in due Stato, il caso della unificazione della Germania.
E
cosa dire dell’esplosione della vecchia URSS divisa in tanti Stati che
riflettono le vecchie identità nazionali (ad esempio l’Ucraina, la Bielorussia,
la Georgia)?
La
globalizzazione crea maggiore vicinanza fra le nazioni, ma i popoli, temendo di
perdere la loro identità nazionale, tendono a rafforzarla.
Lo
stesso fenomeno avviene per le grandi civiltà. Come ben rileva Hutchinson, nel
suo ormai famoso “Scontro delle civiltà” , la
fine del bipolarismo ha ridato vigore alle civiltà storiche, che talvolta coincidono
con le grandi religione, la civiltà occidentale, l’islamica, la cinese, l’indù,
l’ortodossa, la buddista, la giapponese e l’africana.
Anche
in questo caso la vicinanza ha creato una forma di difesa, una voglia di
sicurezza nel riaffermare i propri valori di fondo, un forte riferimento alla
civiltà di appartenenza.
Ancora
si può notare la risposta ambivalente delle grandi religioni, rispetto alla
globalizzazione culturale ed economica.
Da
una parte la tentazione di diffondere il proprio credo, sfruttando la maggiore
vicinanza e l’uso di mezzi di comunicazione sempre più potenti, dall’altra il
timore della “cultura unica” della globalizzazione economica (primato del
mercato e dell’uomo visto unicamente nella sua dimensione materialista di
consumatore e produttore) ha provocato una dura reazione di rigetto.
Forse
occorrerebbe leggere in questo senso la recente battaglia della Chiesa di Roma
contro il relativismo etico, forse addirittura occorrerebbe interpretare in
questo modo la reazione anche terroristica dell’Islam di fronte ad una cultura
che nega di fatto ogni spazio a Dio e al trascendente.
Possiamo
affermarlo: la globalizzazione, la vicinanza (fisica e virtuale) sempre più
intensa fra popoli e culture ci avvia tutti quanti verso una forma di meticciato
diffuso (vedi ancora il recente libro di Andrea Riccardi già citato), ma
proprio il meticciato (invero inevitabile) ci spaventa perché abbiamo paura di
perdere i nostri fino ad ora sicuri riferimenti valoriali e ideali forniti
dalla famiglia, dalla nazione, dalla civiltà.
Scrive
Andrea Riccardi : “C’è quasi un meticciato
di identità di se stessi. Talvolta proprio per reagire a questa complessità
personale, l’individuo sente il bisogno di gridare forte una sola identità
esclusiva. E’ il grido dell’uomo spaesato nel mondo contemporaneo, che non fa
giustizia alla complessità che porta in sé e alla connessione con gli altri”.
Di
qui deriva il conflitto, che si presenta come disagio, nella sua forma minore,
come razzismo e come guerra, nelle sue forme peggiori.
Fermo
restando che la globalizzazione è un fenomeno irreversibile, che i conflitti e
le guerre sono inaccettabili, come strumenti di risoluzione delle difficoltà,
che occorre creare una cultura di valori condivisi la quale permetta a
tutti di convivere pacificamente, attualmente sono due le soluzioni finora
ipotizzate: la assimilazione, e l’integrazione.
Non
è qui il luogo giusto per approfondire, ma possiamo definire la assimilazione e
l’integrazione come “fenomeni
psico-sociologici, mediante i quali un soggetto (individuale o collettivo) si
avvicina ad una cultura diversa cercando, da una parte, di individuare gli
elementi simili, dall’altra di avvicinare o rendere compatibili, ai fini di una
comune convivenza, gli elementi diversi”.
In
effetti nell’assimilazione questo tentativo di avvicinamento e di
compatibilità si realizza tramite politiche che tendono a far sì che le persone provenienti da una cultura diversa
acquisiscano gradualmente ma irreversibilmente i valori della cultura
ospitante. E’ chiaro che in questo processo anche le persone ospitanti
acquisiscano, per osmosi culturale, elementi della cultura ospite ma questo è
un percorso fortemente secondario rispetto al primo.
Nella
integrazione, invece, il tentativo di avvicinamento e di compatibilità è
meno drastico e consiste, da una parte nell’individuare i valori simili,
dall’altra nell’identificare quei valori che nella cultura ospitante siano
comunque accettabili (e pertanto rispettabili, anche se diversi),
circoscrivendo il campo dei valori inaccettabili. Questi ultimi sono oggetto di
politiche, anzitutto difensive (per non permettere dannose contaminazioni), e
poi attive, tendenti, con la forza della ragione e del dialogo, a
desensibilizzare tutti quegli elementi valoriali assolutamente non compatibili
con i valori della cultura ospitante.
Da
questo quadro si può facilmente notare come l’integrazione sia, rispetto
alla assimilazione, una politica culturale più democratica e rispettosa
delle culture “diverse”.
Dobbiamo
altresì notare che questo fenomeno di incontro e di convivenza fra culture
diverse sullo stesso territorio avviene non solo fra le persone ma anche
all’interno della persona stessa.
Mentre
fino a qualche decennio fa, per riferirsi solo alla situazione italiana, ci
trovavamo ad essere tutti figli di una stessa cultura, che si ispirava
fondamentalmente ad una efficace sintesi fra i valori del liberalsocialismo e
del cristianesimo, oggi non è più così.
Sia
le ondate immigratorie, come anche la già sottolineata possibilità di viaggiare
virtualmente (tramite i mezzi di telecomunicazione e internet) ci ha messo
nella situazione che la nostra identità è continuamente sottoposta a
condizionamenti da parte di culture e religioni completamente diverse.
Possiamo
qui fare un efficace riferimento psicologico, utilizzando la teoria della
Analisi transazionale di E. Berne .
Secondo tale teoria, in ognuno di noi convivono tre stati dell’Io:
· lo stato del Genitore, laddove recepiamo e
manteniamo tutti gli imperativi, le raccomandazioni, i suggerimenti, i
consigli, gli incoraggiamenti che abbiamo ricevuto dai nostri genitori fisici o
comunque da figure autorevoli della nostra vita (in pratica la parte etica del
nostro Io);
· lo stato del Bambino, laddove vivono le nostre
sensazioni, gli affetti, i dolori, le stranezze, le impuntature, i gesti
eroici, tutto quello che parte dalla nostra emotività come si vien formando
dall’infanzia;
· lo stato dell’Adulto, laddove è la sede della
ragione, della mente che sa, in modo maturo, prendere gli elementi necessari
dal Genitore e dal Bambino e assumere decisioni motivate.
I
messaggi culturali si trovano sicuramente nello stato del Genitore, e vi
vengono immessi dai genitori effettivi e dalle figure parentali maggiori come
anche da amici stretti o da persone autorevoli incontrate o lette.
Nell’infanzia
è predominante l’influenza dei genitori fisici e della famiglia ristretta per
cui i messaggi culturali provenienti da questo ambito resteranno per tutta la
vita i più forti e meno soggetti a modifiche.
D’altra
parte l’incontro (fisico o virtuale) con amici e altre persone autorevoli fa sì
che altri messaggi culturali vengano vissuti e recepiti dal Genitore, seppure
in maniera meno forte di quelli familiari.
Cosa
succede quando tali messaggi successivi, pur recepiti vengono a scontrarsi con
i messaggi originari? Scoppia un conflitto che generalmente fa emergere uno
stato dell’Io Bambino fortemente turbato che può sfociare in fenomeni anche
straordinari. Come non poter leggere il razzismo come una forma collettiva di
un Bambino che rifiuta in maniera abnorme messaggi di una cultura diversa che
cercano di entrare nel Genitore?
Generalmente
il conflitto fra il Genitore (che sta recependo i nuovi messaggi culturali) e
il Bambino (che rifiuta quelli che ritiene inaccettabili) viene, nelle persone
equilibrate e mature, risolto dall’Adulto che assume in questo modo la figura
di mediatore (un termine che d’ora in poi troveremo sempre più spesso).
Dunque
esiste una mediazione, all’interno della singola persona, per comporre
il conflitto fra Genitore e Bambino ed integrare, in maniera equilibrata,
vecchi e nuovi messaggi culturali.
Potremmo forse azzardare che il meticcio è una persona che ha saputo
ben procedere a questa mediazione.
Se
abbiamo visto i problemi che l’incontro con una nuova cultura pone all’interno
degli individui, non meno gravi sono le difficoltà che si presentano nel
confronto fra due persone di provenienza diversa o ancora quelle più
complesse che incontrano le collettività (particolarmente molto omogenee)
nell’incontro con culture diverse.
Abbiamo
già rilevato come l’integrazione sia il processo più democratico e rispettoso
per trovare modalità di convivenza fra culture diverse.
1.d) Necessità della
mediazione (culturale, sociale, familiare) nell’epoca della
globalizzazione. Cosa è la mediazione?
Lo
strumento tecnico-culturale per promuovere l’integrazione si chiama mediazione.
Infatti solo essa permette di avvicinare culture, mentalità, caratteri
diversi, consentendo a tutte le parti di mantenere gli elementi fondamentali delle
loro identità, avvicinando peraltro i loro valori in modo tale da farli
interagire positivamente e in modo costruttivo.
Si
parla sempre più spesso oggi di mediazione sociale (o interculturale)
per indicare quella relativa all’incontro fra gruppi sociali con provenienza
culturale diversa (si pensi soprattutto alla integrazione delle collettività di immigrati in grandi
metropoli), di mediazione scolastica per indicare quella che si attua
fra scuola e famiglie nell’interesse degli alunni) e quella familiare
diretta a comporre i conflitti in ambito familiare.
Ma
cosa è la mediazione?
Innanzitutto
rileviamo che il termine deriva dal latino “medium” ovvero “mezzo” e indica la
posizione (e l’azione) di chi sta “in mezzo” fra due o più parti.
L’Enciclopedia
Rizzoli-Larousse la definisce come una “intromissione destinata a
condurre a termine un accordo”. La definizione è molto generale ma può servire
in quanto opera una prima circoscrizione della questione.
La
definizione giuridica è contenuta nell’art. 1754 del Codice Civile italiano:
”E’ mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione
di un affare , senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di
collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”. Si tratta di una
formulazione scarsamente utile in quanto diretta più a individuare un contratto
che un processo o un metodo come vedremo essere quello mediativo.
Con
riferimento alla mediazione di tipo commerciale, nel libro “La
conciliazione commerciale” gli
autori definiscono la mediazione come “un sistema di risoluzione delle
controversie volontario e privato attraverso il quale due o più soggetti in
lite cercano di raggiungere un accordo che ponga fine alla controversia con
l’aiuto di un terzo imparziale”.
John
Haynes e Isabella Buzzi, nel loro
testo “Introduzione alla mediazione familiare” definiscono
la mediazione come “un processo di negoziazione in cui un terzo aiuta i
partecipanti ad una disputa per risolverla. L’accordo risolve il problema con
una soluzione mutuamente accettabile ed è strutturato in modo da aiutare a mantenere
la continuità della relazione nelle persone coinvolte”.
Ancora
Lisa Parkinson nel suo testo “La mediazione familiare” la definisce come “un processo collaborativo
di risoluzione del conflitto in cui due o più parti in lite sono assistite da
uno o più soggetti imparziali (mediatori) per comunicare l’una con l’altra e
trovare una propria risoluzione, accettabile per entrambi dei problemi in
questione”.
Dall’insieme
di queste definizioni possiamo trarre gli elementi di base che
costituiscono la mediazione.
Innanzitutto
essa è contemporaneamente una metodologia, ossia un insieme concatenato
e logico di strumenti rivolti a raggiungere uno scopo specifico, e un processo,
ossia una serie di atti, fasi e comportamenti, intrinsecamente e razionalmente
collegati al fine di conseguire un fine predeterminato.
Si
evidenzia anche che il mediatore non è investito di potere decisionale,
come lo potrebbero essere un arbitro o un giudice, bensì ha il solo potere di
chiedere alle parti di seguire il processo precedentemente concordato. La forza
del mediatore sta nella sua terzietà e nella competenza professionale di
tipo negoziale che lo aiuta a stimolare (con domande, suggerimenti, pareri,
anche proposte) le parti e a facilitare la loro comunicazione in vista di un
accordo.
La
terzietà del mediatore deve essere vista come neutralità (ovvero
inesistenza di legami o interessi di qualsiasi tipo che possano influenzare la
sua azione) e come imparzialità (intesa come capacità di mantenere un proprio
equilibrio fra le parti senza propendere per le posizioni di una di esse). E’
importante non solo che il mediatore sia imparziale ma che anche appaia come
tale. E’ da notare che in presenza di parti fra le quali esista un eccessivo squilibrio
(in termini di cultura, di capacità logica o espositiva, di spessore di
consulenti esterni a disposizioni) il mediatore, pur mantenendo la sua
imparzialità, ma al fine di far sì che l’accordo sia duraturo in quanto
espressione di un consenso fra due parti a livello paritario, deve facilitare
la possibilità della parte più debole di raggiungere un equilibrio ragionevole
con quella più forte; solo in questo senso senso si può parlare di una
ipotetica “alleanza” fra il mediatore e una delle parti.
Altra
caratteristica della mediazione (anche se soggetta ad eccezioni) è la volontarietà.
Appare ovvio e scontato che il processo mediativo ha maggiori possibilità di
raggiungere un esito positivo quando viene volontariamente preferito ad altre
strade (conflitto aperto, risoluzione giudiziaria). La volontarietà può
esprimersi nella scelta diretta e condivisa della mediazione o nella libera accettazione della stessa su
proposta o suggerimento di un altro soggetto (es: autorità giudiziaria,
scolastica ecc.). Proprio perché la mediazione è su base volontaria la parti
devono essere, e sentirsi, libere di interromperla in qualsiasi momento.
Compito
essenziale del mediatore è quello di “traghettare” le parti da una situazione
di conflitto e di non comunicazione ad una di ripristino della capacità di
dialogare in maniera efficace, sapendo distinguere fra emotività e
interessi, per trovare una soluzione condivisa che salvaguardi questi
ultimi.
Fondamentale
nella mediazione è la sensazione di “vincere in due”, ossia il
sentimento che tale metodo e processo permetta alle parti di aumentare la
propria capacità di vivere in relazioni con un maggior numero di persone, senza
dover cedere su elementi fondamentali della propria identità personale e
sociale e salvaguardando, magari con soluzioni creative, i propri interessi irrinunciabili.
La persona (o il gruppo) che ha raggiunto un accordo in mediazione può sempre
ben dire di aver vinto, perché ha saputo mantenere il nucleo dei propri valori
interessi riuscendo a conciliarli in maniera efficace ed equilibrata con quelli
di altri soggetti.
Altro
aspetto fondamentale ed elemento di forza della mediazione rispetto agli altri
strumenti conflittuali di risoluzione delle controversie è la “riservatezza”
che si può individuare sotto due aspetti: a) il primo riguarda l’obbligo del
mediatore, sinallagmatico al diritto delle due parti, di mantenere riservato e
circoscritto al contesto mediativo ogni tipo di informazione scambiate durante
la mediazione; b) l’altro aspetto concerne l’obbligo di ciascuna parte di non
utilizzare alcuna di queste informazioni, all’esterno della mediazione, in
danno all’altra parte e di rispettare l’obbligo di riservatezza a cui è tenuto
il mediatore.
Sulla
base degli elementi appena indicati, possiamo provare ad azzardare una definizione
completa di mediazione “quel processo tramite il quale un terzo, neutro e
imparziale, scelto o accettato volontariamente dalle parti, utilizza la sua
competenza professionale nelle tecniche di negoziazione e, appoggiandosi anche sulle
sue conoscenze di diritto e di scienze sociali, facilita (con domande,
suggerimenti, pareri, talvolta proposte), nel contesto di un ambiente protetto
e garantendo la riservatezza di tutte le informazioni scambiate, il ripristino
di una efficace comunicazione fra le parti, permettendo loro di comporre la
controversia esistente mediante il raggiungimento un accordo condiviso,
legalmente valido, duraturo, che costituisca un equilibrato bilanciamento degli
interessi contrapposti”.
Come
abbiamo già accennato la mediazione attualmente si esplica in diverse modalità
che possiamo definire mediazione sociale, interculturale, scolastica,
familiare.
Tutti
questi quattro aspetti derivano dalla necessità, indotta dalla globalizzazione,
di integrare modelli culturali diversi.
Nei
prossimi capitoli ci dedicheremo in particolare all’analisi della mediazione
familiare, prima cercando di darne cenni storici, di definirne la natura, i
fini e le fasi in cui si delinea, poi affrontando un argomento di estrema attualità
quale la sua obbligatorietà normativa, infine presentando un progetto internet
per la sua diffusione.
Capitolo II - Mediazione familiare
2.a)
Cenni storici
La
storia della mediazione familiare inizia nella seconda metà degli anni ’70
ed è interessante notare come ci sia una corsa di alcuni famosi mediatori a
rivendicare per sé o l’idea della mediazione o, comunque l’istituzione del
primo centro in cui questa è stata regolarmente effettuata.
La
verità forse è che la mediazione familiare più che essere figlia di
qualcuno, lo è di una epoca. Negli anni ’70 incominciava a subire vistose
crepe quella omogeneità culturale che finora aveva caratterizzato il mondo
occidentale (allora identificato nell’America del nord e nell’Europa dell’ovest).
I
colpi derivanti dalla secolarizzazione, dal consumismo, dal femminismo
iniziavano a frantumare alcuni valori comuni (anche se non sempre accettabili)
sulla famiglia, quali la sua estensione, la concezione gerarchica, la priorità
data alla famiglia – istituzione rispetto al benessere dei singoli, il
collegamento intrinseco con i principi del Cristianesimo (sia cattolico che
protestante).
In
effetti la secolarizzazione portava alla scissione fra valori religiosi e umani
e apriva la porta ad una concezione che pone la libertà del singolo al primo
posto.
Il
consumismo spostava l’interesse dei membri della famiglia dall’attenzione ai
valori centrati sulle persone a quelli centrati sui beni.
Il
femminismo rivendicava l’uguaglianza e la parità sostanziale prima che formale
tra i membri della famiglia.
Si
può facilmente condividere che i fenomeni della secolarizzazione, del
consumismo e del femminismo hanno provocato una fruttuosa riflessione sulla
natura e sui fini della famiglia, ma si può altrettanto tranquillamente
condividere che una attuazione estrema degli stessi tre fenomeni ha comportato
un serio disagio (non sempre positivo) alla struttura familiare.
A
questa famiglia, scossa nelle fondamenta e che si andava sempre più
interrogando sulla sua natura e sui propri fini, un’altra scossa è stata
data dagli stimoli culturali sempre più insistenti e continui dati dallo
sviluppo delle comunicazioni e dal sempre più intenso incontro, anche fisico,
con persone di altri popoli e con le rispettive culture e religioni.
Non
sembri pertanto strano che proprio in quegli stessi anni è nata la mediazione
familiare, come modalità concreta di comporre gli inevitabili conflitti
familiari o le controversie conseguenti alla decisione di separarsi o di
divorziare.
Nel
1975 O. John Coogler, avvocato personalmente coinvolto nel divorzio
dalla moglie e che era stato pesantemente colpito, sperimentandone il relativo
disagio, dalla rigidità e dalla freddezza della procedura giudiziaria, venne in
contatto con il centro “The bridge” e rimase positivamente colpito dalla
procedura negoziale attuata del centro.
Decise
così di fondare la Family Association, costituita da persone che diffondevano
tale nuova modalità negoziale.
Sempre
verso la fine degli anni ’70 ancora un altro avvocato, John Haynes,
peraltro anche psicoterapeuta, si occupa di mediazione dedicandosi soprattutto
alla formazione dei consulenti familiari coinvolti, su incarico dei giudici,
nel lavoro con le coppie in crisi.
Il
metodo negoziale proprio di Haynes è stato da lui ampiamente spiegato in alcuni
libri, molto diffuso è “Introduzione ai principi della mediazione familiare”
scritto in collaborazione con l’italiana Isabella Buzzi .
Negli
stessi anni nei quali Coogler ed Haynes cominciavano la loro esperienza negli Stati
Uniti, Howard Irving, in Canada, a Toronto, iniziava a sviluppare
concretamente quella tecnica di mediazione familiare che sarebbe poi sfociata
nel modello “terapeutico”.
Infine
sempre nella seconda metà degli anni ’70, in Inghilterra l’assistente sociale Lisa
Parkinson, fondava il primo servizio
di mediazione familiare indipendente dal tribunale.
La
Parkinson, nel suo libro “La mediazione familiare. Modelli e strategie operative” ha
rivendicato a se stessa una sorta di primogenitura nella scoperta della
mediazione familiare. Abbiamo visto come la realtà è molto più complessa e
come, in realtà negli stessi anni molti sono pervenuti contemporaneamente su
questa strada stimolati dallo stesso tipo di problemi.
Vedremo
infatti come la mediazione familiare si pone in alternativa alla sola via
giudiziaria soprattutto per la sua capacità, mediante il raggiungimento di una
soluzione condivisa, di alleviare il disagio (se non il dramma) originato dalla
rottura del legame coniugale, di tutelare i bisogni dei figli (soprattutto se
minori), infine, last but not least, di abbassare i costi della esclusiva via
giudiziaria.
Dal
mondo anglosassone la mediazione familiare si è andata poi diffondendo ner
resto dell’Europa Occidentale (in
particolare in Francia, Belgio e Svizzera) e in seguito in altri Paesi.
In
Francia Annie Babu, insieme ad altri professionisti ha fondato
l’Association pour la Promotion de la Mediation Familiare (APMF) che,
nel 1988 ha tenuto a Bruxelles il primo “Colloque internazionale sur la mediation
in Europe, al quale è seguito il Congresso Europeo tenutosi a Caen sempre per
iniziativa dell’APMF.
Ancora
l’APMF nel 1992 redasse la Charte Européenne de la formazion des mediateurs
familiau eserçant dans la situation de divorce e de separation » che ha
rappresentato il primo esempio di codice deontologico per i mediatori
familiari.
Infine
a Marsiglia si è costituito nel 1997 il Forum europeo dei centri di
mediazione familiare diventato nel 1998 associazione senza scopo di lucro,
secondo la legge francese.
In
Italia la diffusione della mediazione familiare è stata molto meno
veloce.
Anche
se già negli anni ’80 hanno iniziato a circolare le prime idee, solo nel 1995
viene fondata la SiMEF (Società italiana di Mediazione Familiare).
Attualmente operano in Italia diverse scuole di mediazione; fra le più
importanti possiamo citare quella operante presso l’Università Cattolica di
Milano e presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università la Sapienza di
Roma, il Centro Genitori Ancora (GEA) di
Milano, il Centro di mediazione
familiare operante a Genova, l’ISSAS a Roma.
L’origine
delle diverse esperienze e lo stesso retroterra culturale dei mediatori che
hanno dato inizio a questa nuova professione (perché di una nuova professione
si tratta e più avanti spiegheremo perché) ha dato luogo al diffondersi di
diversi modelli di mediazione familiare.
Possiamo
così distinguere a grandi linee:
1. il modello strutturato o negoziato (che in
linea di massima ha origine dalle esperienze di Coogler e Haynes ) che da largo
spazio alle tecniche negoziali, tipiche della mediazione commerciale e
intraziendale, cercando invece di limitare le possibili espressioni della
emotività;
2. il modello terapeutico (il cui fondatore può
essere considerato Irving), nel corso del quale vengono utilizzate molte delle
tecniche proprie dell’approccio terapeutico della famiglia;
3. i modelli di tipo sistemico-relazionale (fra i quali possiamo distinguere il
sistemico-relazionale propriamente detto e il simbolico-relazionale utilizzato
nella Cattolica di Milano), che si rifanno essenzialmente alla esperienza della
Parkinson, danno molto spazio alla espressione della emotività e lavorano,
oltre che sui singoli, sulla incidenza e la interazione dei vari sistemi sulla
vita della coppia.
Ma
c’è anche un altro modo per distinguere i modelli di mediazione a seconda che
siamo parziali o totali.
La
mediazione totale affronta tutti gli ambiti dei possibili conflitti, quelli più
propriamente legati all’affettività, quelli relativi all’affidamento e al
mantenimento dei figli, quelli infine più direttamente legati agli aspetti
patrimoniali (separazione e destinazione dei beni, mantenimento del coniuge più
debole).
La
mediazione parziale è invece quella che si dedica solo ad alcuni aspetti
conflittuali, tralasciandone altri; ad esempio, in genere i mediatori di
origine psicologica preferiscono affrontare solo le problematiche relative agli
aspetti affettivi e relazionali demandando ad altre modalità di composizione
quelli di natura patrimoniale.
Possiamo
comunque dire che, al di là delle schematizzazioni e classificazioni dei
singoli modelli, i mediatori con un background legale o comunque
aziendale-commerciale preferiscono utilizzare modalità e schemi negoziali
molto rigidi, accettando ma contenendo al minimo necessario le espressioni di
emotività, mentre i mediatori, che posseggono un background
psico-peda-sociologico optano per lavorare soprattutto sugli aspetti
affettivi, cercando di ripristinare i canali comunicativi, attivando in un
secondo tempo l’approccio alle singole problematiche conflittuali.
Vale
la pena di rilevare che un bravo mediatore deve essere in grado di gestire il
processo di mediazione mettendo l’accento sulle tecniche negoziali o su quelle
psicologiche sia a seconda del tipo di coppia utente sia in funzione della fase
processuale in cui si è coinvolti (potrebbe essere necessario essere molto
empatici in pre-mediazione e diventare maggiormente direttivi allorché si
perviene alla negoziazione vera e propria.
2.b)
Natura e definizione
Giunti
a questo punto non possiamo sfuggire ad una domanda fondamentale: cosa è la
mediazione familiare? Come la possiamo definire compiutamente?
Diamo
di seguito alcune definizioni così come sono state finora sviluppate.
Secondo
la definizione data dalla APMF nel 1990, “la mediazione familiare, in
materia di separazione e divorzio, è un processo in cui in terzo, neutrale e
qualificato, viene sollecitato dalle parti per fronteggiare la riorganizzazione
resa necessaria dalla separazione, nel rispetto del quadro legale esistente. Il
ruolo del mediatore familiare è quello di portare i membri della coppia a
trovare da sé la base di un accordo durevole e mutuamente accettabile, tenendo
conto dei bisogni della famiglia e particolarmente di quelli dei figli, in uno
spirito di corresponsabilità e di
uguaglianza dei ruoli genitoriali”.
La
SIMEF (Società italiana di mediazione familiare) ha dato la seguente definizione (vedi sito
internet della SIMEF http://www.simef.net/mediazione.htm): “La mediazione familiare è un percorso per la
riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla
separazione o al divorzio; in un contesto strutturato il mediatore familiare,
come terzo neutrale e con una
preparazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto
professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinché i
partners elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente
per sé e per i figli, in cui possano esercitare la comune responsabilità
genitoriali”.
Anche
la AIMS (Associazione Internazionale Mediatori Sistemici) ha dato la sua
definizione: “la mediazione familiare è un percorso di aiuto alla famiglia,
prima durante e dopo la separazione e il divorzio, che ha come obiettivo quello
di offrire agli ex-coniugi un contesto strutturato e protetto, in autonomia
dall’ambiente giudiziario, dove poter raggiungere accordi concreti e duraturi
su alcune decisioni, come l’affidamento e l’educazione dei minori, i periodi di
visita del genitore non affidatario, la gestione del tempo libero, la divisione
dei beni”.
La
definizione contenuta nella “Carta europea degli standard di base per la
formazione professionale dei mediatori familiari” redatta nel 1997 dal
Forum europeo di mediazione familiare ricalca quella dell’APMF e così recita:
“la
mediazione familiare in tema di divorzio e di separazione personale dei coniugi
è un processo nel quale un terzo specificatamente formato viene sollecitato
dalle parti per fronteggiare le riorganizzazioni rese necessarie dalla
separazione nel rispetto del quadro legale esistente.
I
mediatori operano per ristabilire le comunicazioni fra i coniugi al fine di
pervenire ad un obiettivo concreto: la realizzazione di un progetto di
organizzazione delle relazioni genitoriali e materiali dopo la separazione e il
divorzio.
La
mediazione familiare in materia di divorzio e di separazione personale dei
coniugi non è né una consulenza legale, né una consulenza di coppia o
familiare, né una terapia. I mediatori possono suggerire agli interessati di
consultare altri professionisti del diritto, delle scienze umane, e così via,
ogni volta che ne riconoscano la necessità”.
Ci
sono tante altre definizioni di mediazione familiare. Una molto sintetica, ma
efficace è quella di Bruch, riportata nel testo già citato di J. Haynes
e I. Buzzi : “La mediazione
familiare è un processo cooperativo in cui una terza parte neutrale si adopera
per mantenere aperte le possibilità di comunicazione fra le parti coinvolte
sino a che esse non raggiungano un accordo riguardante le questioni su cui sono
in contrasto”.
Tutte
le definizioni hanno, più o meno, dei caratteri fondanti comuni.
In
primo luogo la constatazione che la mediazione familiare è uno strumento per
riaprire o, nei casi meno gravi, rinforzare la comunicazione fra le parti. Il
mediatore familiare è un professionista che gestisce il processo mediativo, ma
il contenuto di tale processo, il contenuto dell’accordo da raggiungere è di
competenza delle parti, sono esse che, tramite una efficace comunicazione
reciproca, devono comporre i loro conflitti.
Di
qui la visione della mediazione familiare come uno “spazio transizionale”
dove i due partners possano ritrovare un luogo e un tempo (lo “spazio” appunto)
in cui porre un limite alle proprie angosce e recuperare una capacità positiva
di comunicazione reciproca per superare la situazione di difficoltà in cui si
ritrovano e fronteggiare, con maturità le riorganizzazioni rese necessarie
dalla separazione.
Possiamo
considerare (e qualche autore utilizza proprio questa figura) il mediatore
familiare come un “traghettatore” che offre ai due partners la propria
“barca” (ovvero la competenza professionale, un setting strutturato, un
contesto protetto e riservato) per facilitare la loro transizione da una
situazione ormai compromessa, e fonte di angoscia e disagio se non di vero e
proprio dolore morale e fisico, ad una nuova situazione, ad una nuova sana
immersione nelle relazioni sociali.
La
scuola della Università Cattolica di Milano afferma che “un legame si stringe
insieme e lo si può sciogliere solo insieme”. Questo forse non è vero in tutti
i casi (basta pensare alla situazione in cui un partner lascia intenzionalmente
e lucidamente l’altro per stringere un nuovo legame con una diversa persona) ma
certo è un aspetto che un serio mediatore deve sempre tenere presente.
Un
altro carattere comune presentato dalle definizioni è sicuramente quello della riservatezza.
Anche se la normativa italiana non protegge il segreto professionale del
Mediatore familiare in maniera assoluta è però necessario che il professionista
sappia, con il suo prestigio e il suo carisma personale, proteggere la
comunicazione e l’ambiente in un contesto di assoluta riservatezza, esprimendo
chiaramente che lui stesso si ritiene personalmente vincolato al segreto
professionale (ad eccezione dei casi previsti da norme inderogabili di legge) e
richiedendo alle parti un impegno scritto d’onore e formale di non utilizzare
le informazioni scambiate e di non chiamarlo come teste in una eventuale
controversia giudiziaria, nel caso di esito negativo della mediazione.
Ancora
una peculiarità di ogni sera definizione è il postulare la neutralità o
imparzialità del mediatore.
E’
questo un argomento che meriterebbe sicuramente un approfondimento non
possibile in questo lavoro. Essere neutrale o imparziale (i due termini
riflettono due aspetti diversi ma, nell’economia di questo lavoro, possiamo
convenire di utilizzare entrambi indifferentemente) non è possibile in maniera
assoluta, possiamo avvicinarcisi con una seria auto-analisi e con il sottoporci
umilmente ad una efficace supervisione. Oltre ad essere è importante anche apparire
neutrali agli occhi dei partners, altrimenti tutti i nostri sforzi diretti ad
essere neutrali si rivelerebbero vani.
Aggiungerei
che più di imparzialità o di neutralità preferirei parlare di “equidistanza
attiva” nel senso di una posizione personale che si mantenga equamente in
equilibrio fra le parti, agendo però nel modo che una eventuale parte più
debole riceva il giusto empowerment per essere capace di negoziare
efficacemente e raggiungere un accordo equilibrato e duraturo. Questo anche
perché un accordo che non rispecchi un equilibrio fra le parti difficilmente
sarà accettato dall’avvocato della parte sfavorita, e questo rifiuto mentre a
breve termine provoca il rigetto dell’accordo, a lungo termine potrebbe
provocare una perdita d’immagine per il mediatore stesso.
Altro
elemento comune a tutte le definizioni è la volontarietà dell’approccio
alla mediazione familiare. La grande maggioranza degli autori e l’attuale
normativa italiana è favorevole a questa impostazione e contraria ad ogni
modalità di tipo obbligatorio.
Questo
argomento sarà l’oggetto del terzo capitolo di questo lavoro. Anticipo che la
mia posizione personale è favorevole alla obbligatorietà della sola fase di
informazione in sede di pre-mediazione, fermo restando la volontarietà
nell’accettazione del processo mediativo.
Ultimo
elemento comune, pienamente condivisibile, delle definizioni è l’accentuazione,
se non addirittura la priorità data agli interessi del figli, particolarmente
se minori.
Possiamo
ora passare a considerare quelli che invece si possono chiamare gli elementi
trascurati, o perlomeno scarsamente evidenziati nelle definizioni soprarichiamate.
Innanzitutto
rileviamo come la mediazione familiare venga molto spesso, se non
esclusivamente, ricondotta alla materia della separazione o del divorzio.
In
effetti la mediazione familiare in senso lato si può più correttamente
distinguere in mediazione dei conflitti familiari e mediazione familiare in
materia di separazione e divorzio.
La
prima si verifica quando il mediatore interviene per comporre conflitti di
natura pratica fra i partners o fra i genitori e i figli (ad esempio, la scelta
dell’indirizzo scolastico, la fissazione di una nuova residenza ecc.).
Uno
spazio che, in futuro, potrà aprirsi a questo tipo di mediazione è quello
relativo all’indirizzo familiare.
L’art.
144 del Codice Civile recita: “I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della
vita familiare….(omissis)…secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti
della famiglia stessa. A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare
l’indirizzo concordato.” In caso di mancato accordo è previsto che i coniugi
possano rivolgersi al giudice.
In
un mondo, come quello attuale, in cui le molteplici esigenze dettate dalle
necessità produttive (mobilità, precarietà) e il continuo confrontarsi con
culture diverse (come abbiamo visto ampiamente nel primo capitolo) porta i
coniugi ad aggiornare e a cambiare a velocità impressionante l’indirizzo
familiare, una mediazione in questo campo si rivelerà sicuramente essenziale,
per evitare di passare, prima o poi, ad un intervento di mediazione familiare
in materia di separazione e divorzio.
E
proprio quest’ultima la maggiormente analizzata dagli autori e focalizzata
nelle definizioni.
Onde
evitare disguidi, nel presente lavoro chiameremo d’ora in poi mediazione dei
conflitti familiari la prima e mediazione familiare tout court la seconda.
Con
riferimento al tipo di accordo generalmente le definizioni fanno riferimento ai
caratteri di concretezza, realizzabilità, di soddisfazione e durevolezza.
Nessun accenno viene fatto alla circostanza che l’accordo rivesta anche un
carattere di equità.
Può
talvolta accadere che uno dei due partners, per problemi di temperamento, per
età, spessore culturale o provenienza, abbia una capacità negoziale molto
inferiore all’altro.
Nel caso di tirocinio da me personalmente seguito
il marito aveva 58 anni, era toscano,
pensionato ma proveniente da un impiego in una società privata stimolante, con
una carattere molto estroverso; la moglie aveva 38 anni (sposata a 20 anni),
era calabrese, lavoratrice casalinga, con un carattere riservato e chiuso.
La
moglie, dopo 15 anni di matrimonio aveva chiesto e ottenuto la separazione con
addebito al marito, assegnazione della casa e affidamento del figlio. Il
marito, profittando della sua superiorità personale, non ottemperava, se non
parzialmente agli obblighi della sentenza e continuava ad importunare e a
molestare la moglie con telefonate e appostamenti.
La
coppia era stata invitata da un consultorio familiare ad andare in mediazione
nell’interesse del figlio minore che, a seguito di questa situazione gravemente
tesa ed instabile, accusava forti squilibri psicologici.
Durante
i primi colloqui di coppia, l’uomo aveva assunto un atteggiamento dominante,
anche cercando di sfruttare a suo favore il malessere del figlio (“dobbiamo
riconciliarci per il bene di Marco!!”) e tentando anche manipolazioni nei
confronti del mediatore.
La
donna, provando inferiorità dialettica, aveva cominciato a disertare i
colloqui.
Il
mediatore ha scelto, pur mantenendo l’equidistanza fra i due, di effettuare
interventi di sostegno verso la donna, mostrandogli con i fatti di trovarsi in
un ambiente protetto nel quale le era possibile esprimersi liberamente,
mettendola così in grado di negoziare efficacemente e di raggiungere un accordo
equilibrato con l’ex-marito.
Senza
tale intervento di sostegno, molto probabilmente la coppia, sotto la necessità
della malattia psichica del figlio, avrebbe comunque raggiunto un accordo,
iniquo a causa della prevedibile prevalenza dell’uomo e destinato a non durare
nel tempo.
E’
molto difficile, e forse neppure possibile, introdurre l’equità fra i caratteri
indispensabili di un accordo mediativo. Al mediatore non è richiesto di
essere un giudice, e pertanto una persona equa, ma sicuramente gli è richiesto
di aiutare le parti a raggiungere un accordo equilibrato, perché una
mancanza di proporzione tra gli impegni assunti dalle due parti può portare in
tempi brevi (e specialmente se la parte più debole viene supportata da un bravo
avvocato) alla rottura dell’accordo. Quest’ultimo per durare, ed essere
accettato da entrambi gli avvocati delle parti, deve pertanto essere, se non
equo, almeno equilibrato.
Ancora
un elemento da considerare.
Pressoché
tutte le definizioni fanno riferimento a situazioni di matrimonio e di
coniugio. Nella realtà attuale sono invece molte, forse addirittura
maggioritarie, le situazioni di convivenza di fatto nelle quali anzi, in
caso di rottura della convivenza, la necessità di un accordo, in assenza di una
regolamentazione giuridica, si rivela ancora più necessaria e pressante.
E’
pertanto indispensabile che la definizione della mediazione familiare copra
anche questo tipo di situazioni.
L’ultima
osservazione riguarda il ruolo del mediatore.
Afferma
A. Quadrio nella prefazione al più volte citato libro di Haynes e Buzzi:
“questi
nuovi professionisti (n.d.a.: i mediatori familiari) debbono acquistare un
ruolo che non sostitutivo né competitivo con quello degli avvocati, dei
magistrati, degli psicoterapeuti di coppia: un ruolo fondato da una sicura
preparazione psicologica e giuridica e volto ad aiutare i coniugi separati o
divorziati a risolvere molti dei loro problemi nell’ambito di un contratto di
mediazione da attuarsi con disponibilità e sicuro impegno realistico”.
Condivido
pienamente tale posizione. Aggiungo che ritengo che il mediatore familiare
sia una professione autonoma (anzi una specificazione della professione di
mediatore) ben distinta e separata da quello dell’avvocato, dell’arbitro e
dello psicoterapeuta, e non solo una specializzazione di queste ultime.
Generalmente
si dice (e si scrive) che la mediazione familiare si distingue dalla psicoterapia
perché il mediatore non fa terapia e dall’avvocato perché non fa consulenza
legale. La professione viene descritta pertanto in negativo.
Ma
in positivo quale è la specificità che consente di attribuire alla mediazione
familiare una piena autonomia professionale?
A
mio parere si possono offrire diverse caratteristiche positive del
mediatore familiare, il quale può essere considerato un professionista che:
1. che cerca di riattivare la comunicazione fra le
due parti soggiacenti alla tensione negativa della controversia;
2. potenzia nelle parti la capacità di negoziare
efficacemente (il cosiddetto “empowerment”);
3. legge, e fa leggere alle parti, le rispettive
differenze di posizione ed il
conseguente conflitto come una opportunità per raggiungere un accordo
creativo e dinamico capace non solo di trovare una composizione alla loro
controversia ma di porre le basi per una successiva ricerca personale;
4. tiene in mente gli interessi e i bisogni di altre
parti (es: i figli minori) oltre a quelli dei due partners;
5. stimola le parti a lasciare un passato doloroso e
pieno di recriminazioni per costruire insieme un futuro migliore per
entrambi;
6. considera, nella composizione, della controversia le
influenze (sia positive che negative) dei sistemi sociali con cui le parti
interloquiscono (le rispettive famiglie, gli ambiti amicali, la cultura del
quartiere o della città in cui vivono ecc.);
7. fa in modo che i due raggiungano un accordo che li
soddisfi entrambi e che li consenta di farli sentire ambedue come vincitori.
Per
conseguire questi obiettivi il mediatore familiare si serve sicuramente della
sensibilità personale (qualcuno ha parlato di “arte” della mediazione) e delle
approfondite conoscenze nel campo del diritto e delle scienze sociali
(specialmente psicologia e sociologia) ma utilizza soprattutto il suo strumento
principe: le tecniche di mediazione.
Queste
sono specifiche modalità professionali che stimolano le parti a uscire da un
sentimento di rancore e di rivendicazione per arrivare a un atteggiamento che
razionalizzi il conflitto e si ponga come costruttivo nell’interesse del
proprio futuro personale e dei figli minori.
Non
è compito di questo lavoro analizzare compiutamente le tecniche di mediazione
ma, al fine di considerarne l’estrema importanza e direi pure la centralità, ne
possiamo elencare quelle fondamentali :
· le domande da quelle più semplici alle più
articolate e complesse come quelle ipotetiche e le circolari;
· i riassunti, con il quale il mediatore
familiare riepiloga e sintetizza quanto accaduto in un precedente colloquio o
un in particolare momento negoziale, cercando di abbassare un livello eccessivo
di emotività e di portare il confronto sul piano razionale;
· le riformulazioni (o “reframings”) con le quali
il mediatore ripete le posizioni delle parti, inquadrandole in una cornice di
confronto costruttivo, sottolineando gli aspetti positivi e attenuando (o
dimenticando di ripetere!!) quelli negativi, oppure attribuendo priorità che
consentano un più facile raggiungimento dell’accordo;
· l’assegnazione di compiti, particolarmente
quelli che operano una dissociazione cognitiva, stimolando le parti a mettersi
l’una nei panni dell’altra;
· l’attenzione a far emergere i rispettivi bisogni e
interessi, facendo capire alle parti che possono esistere modi di realizzarli
e di soddisfarli diversi dalle posizioni che esse hanno assunto;
· la richiesta di scrivere i loro “genogrammi”,
occasioni per una riflessione congiunta e per creare una nuova empatia
reciproca;
· gli incontri individuali (i cosiddetti “caucus”)
che possono essere utili nelle prime fasi del processo e anche indispensabili
allorché la mediazione affronta le materie finanziarie e patrimoniali;
· la continua rassicurazione che la loro situazione non
è straordinaria ma che ricorre in una moltitudine di coppie;
· il continuo rinvio alle esigenze dei figli;
· la richiesta di fermarsi sui pensieri positivi e
sui momenti passati (anche se pochi) in cui le parti hanno sperimentato, se non
la felicità, almeno la positività della convivenza.
Non
poche tecniche pertanto, ma molte e varie, che giustificano di per sé una seria
e approfondita professionalità.
Da
queste poche osservazioni si possono trarre due ordini di considerazione.
La
prima è che non è facile, ne alla portata di tutti porsi come mediatori
familiari, ma che la professione esige, oltre che innate doti personali (la
capacità di ascolto e di empatia, la spiccata sensibilità, la capacità di
distinguere le emozioni dalla razionalità, la abilità nel mantenersi
attivamente equidistante) anche il perseguimento di approfonditi studi
personali.
In
secondo luogo si può notare come la quasi totalità degli obiettivi e delle
tecniche di mediazione possa attagliarsi, non esclusivamente alla mediazione
familiare, ma a tutti i tipi di mediazione.
Forse,
e azzardo l’ipotesi, è forse il caso di concludere che la mediazione
familiare è solo una specializzazione della professione generale del mediatore;
è da qui che bisogna partire in positivo, delineando la figura del mediatore (e
non solo del mediatore familiare) come professione diversa da quella
dell’avvocato, dello psicologo e così via.
Sarebbe
allora da delineare per il mediatore, non tanto un master post-universitario
quanto un vero e proprio corso universitario in cui una parte sia comune
a tutte le forme di mediazione (con studi con diritto privato e pubblico,
psicologia, sociologia, antropologia e storia) e un’altre differenziata a
seconda del tipo di specializzazione che di vuole conseguire (mediazione
commerciale, interculturale, familiare, scolastica).
Ormai
la mediazione come strumento privilegiato di risoluzione del conflitto è
una realtà già consolidata nel mondo anglosassone. E’ sufficiente pensare a
esperienze diverse come ad esempio:
· quella dell’ADR (Alternative Dispute
Resolution), mediazione extra-giudiziale dei conflitti commerciali, che sta
prendendo piede anche in Italia su iniziativa delle Camere di Commercio;
· quella dei negoziatori contrattuali o dei facilitatori
delle procedure interne, figure ormai consuete e produttive all’interno
delle aziende particolarmente multinazionali.
Se
non vogliamo che la realtà ci colga impreparati, con avvocati e psicologi che
si avventurano a fare i mediatori, restando fondamentalmente degli avvocati o
degli psicologi, dobbiamo pensare ad una seria qualificazione personale dei
mediatori.
Ma
non voliamo con la fantasia. Chiuderei questo paragrafo con quella che a me
sembra, sulla base delle considerazioni fin qui svolte, la definizione più
adeguata di mediazione familiare:
“La
mediazione familiare in senso lato si può distinguere in mediazione dei
conflitti familiari, che riguarda ogni tipo di composizione di dispute
all’interno della famiglia (pertanto oltre che fra partners,anche fra genitori
e figli, fra fratelli e sorelle ecc.) e la mediazione familiare in senso
stretto (comunemente definita mediazione familiare) relativa alla composizione
di dispute fra coniugi o conviventi al momento della cessazione della
relazione.
Con
particolare riferimento alla seconda ipotesi, la mediazione familiare,in
materia di divorzio o di separazione personale fra coniugi o di rottura del
rapporto fra conviventi, è un processo in cui un terzo, professionista qualificato, accreditato ed equidistante
dalle parti, viene sollecitato dalle stesse per fronteggiare, nella garanzia
del segreto professionale e in un contesto strutturato autonomo rispetto
all’ambiente giudiziario, la riorganizzazione resa necessaria dalla chiusura
della relazioni di coniugio o di convivenza, nel rispetto del quadro legale
esistente.
I
mediatori, abilitati all’esercizio della professione con un accredito
conseguito tramite lo svolgimento di un qualificato percorso formativo a
livello universitario, sono professionisti particolarmente e specificatamente esperti
nelle tecniche di mediazione, di negoziazione e di problem solving, in possesso
di conoscenze approfondite in diritto, psicologia e sociologia.
Essi
operano per ristabilire le comunicazioni fra i coniugi o i conviventi al fine
di pervenire ad un obiettivo concreto: il conseguimento di un progetto
condiviso, equilibrato, concretamente realizzabile e duraturo, di
organizzazione dei rapporti personali,
genitoriali (nel caso di presenza di figli) e materiali, dopo la
chiusura del rapporto di coniugio o di convivenza. Gli interessi e i bisogni
degli eventuali figli devono essere
oggetto di attenzione particolare, rispetto agli altri interessi e bisogni in
gioco, da parte dei mediatori nella realizzazione del progetto di
mediazione.
La
mediazione familiare, così come appena descritta, non è pertanto né una
consulenza legale, né una terapia di coppia o familiare. Il mediatore infatti non
fornisce consigli o suggerimenti di carattere legale, né ha come obiettivo
della sua consulenza la cura di patologie comportamentali relazionali o
individuali della coppia o di singoli partners.
I
mediatori possono suggerire agli interessati di consultare altri professionisti
(Avvocati, Psicoterapeuti, Psicologi, Sociologi) nell’eventualità di casi
particolarmente complessi che richiedano l’approfondimenti di altre specifiche
tematiche tecnico – professionali.”
Quest’ultimo
aspetto evidenzia la necessità che i mediatori familiari non si considerino
professionisti completamente indipendenti, bensì operino “in rete” con altri
professionisti nell’ambito di una visione sistemica-relazionale della
mediazione familiare .
2.c)
Fasi.
Quasi
tutte le definizione della mediazione familiare concordando nell’indicarla come
un processo (qualcuno preferisce parlare di percorso, ma la sostanza non
cambia), ossia una serie di fasi strutturate intrinsecamente connesse e
consequenziali orientate al raggiungimento di un determinato scopo.
Le
diverse scuole di mediazione familiare hanno diversamente articolato questa
fasi, anche se si possono chiaramente individuare tratti comuni.
J.
Haynes e I. Buzzi, aderenti
al modello negoziale globale e strutturato, hanno individuato le seguenti
fasi:
1. ammissione del problema;
2. scelta del campo;
3. selezione del mediatore;
4. raccolta dei dati;
5. definizione del problema;
6. creazione di opzioni;
7. ridefinizione delle posizioni;
8. contrattazione stesura dell’accordo.
Possiamo
immediatamente notare come, in questo schema, le prime due fasi siano
addirittura antecedenti l’ingaggio del mediatore e come non sia previsto nessun
passo nel quale il mediatore dia informazioni ai clienti sulla natura e le
modalità di svolgimento del processo, A dire il vero gli autori poi dedicano un
capitolo intero del loro testo al colloquio iniziale ma, a livello di schema,
non citano questa fase.
Un
altro modello di prcesso è quello previsto da L. Parkinson che
articola ma mediazione nelle seguenti fasi:
1. impegnare le parti nella mediazione;
2. spiegare gli obiettivi e il processo;
3. concordare l’ordine del giorno per la mediazione;
4. raccogliere e condividere le informazioni;
5. valutare le opzioni per la composizione;
6. negoziare sulle opzioni preferite;
7. raggiungere un accordo.
Questo schema appare più orientato a descrivere la
mediazione così come realmente avviene in Italia.
I primi tre passaggi identificano quella che può
essere chiamata la fase della pre-mediazione, dal quarto all’ultimo passaggio
si tratta della mediazione vera e propria. Non è previsto un passaggio vero e
proprio relativo alla stesura e alla revisione dell’accordo formale.
La scuola simbolica-relazionale (seguita dal
Centro studi e ricerche sulla famiglia della Università Cattolica di Milano)
fra i cui esponenti possiamo annoverare V. Cigoli e C. Marzotto
individua invece le seguenti fasi:
1. introduzione delle persone e creazione di un clima di
fiducia;
2. identificazione dei punti di conflitto e delle loro
priorità;
3. individuazione delle opzioni e delle alternative
possibili circa la soluzione del problema;
4. negoziazione e presa di decisione;
5. redazione di un progetto di intesa;
6. revisione legale del progetto;
7. messa in opera del progetto di intesa ed eventuale sua
revisione.
Questo
schema appare molto completo, e forse lo appare proprio perché è quello più
utilizzato in Italia e più consono alla nostra cultura.
C.
Marzotto (“Comporre il conflitto genitoriali cit. pag. 196), utilizzando immagini
marinare, suddivide questo schema in quattro grandi fasi:
· la richiesta di imbarco (il momento in cui uno o
entrambi i partners formulano la richiesta di aiuto);
· l’imbarco (il momento in cui il mediatore da
informazioni sul processo, raccoglie i primi dati sul problema e valuta la
trattabilità della coppia), altrimenti chiamato premediazione;
· tutti e tre remano per spostare la barca (il momento
della vera e propria negoziazione);
· la meditazione o chiusura (il momento della redazione
finale e messa in opera dell’accordo)
V.
Cigoli, della stessa scuola, indica
invece tre grandi fasi:
· l’ingaggio (si riferisce all’obiettivo di coinvolgere
le persone nella negoziazione);
· negoziato (il momento della negoziazione vera e
propria);
· meditazione o chiusura (il momento della gestione
della chiusura del rapporto).
E.
Falbo, sulla stessa falsariga, ma
seguendo un altro modello mediativo (quello sistemico-relazionale) nelle
lezioni dell’ISSAS di Roma ,
articola le seguenti quattro grandi fasi:
· pre-mediazione, ossia la serie di colloqui per
decidere sulla possibilità di iniziare la mediazione;
· contratto, fase in cui si stipula il contratto avente
per oggetto il contenuto, la durata, la periodicità e l’onerosità della
mediazione;
· negoziazione vera e propria articolata in più
incontri;
· redazione e formalizzazione dell’accordo.
Riassumendo
quanto detto fino, e prendendo a
prestito dalle diverse scuole, possiamo distinguere le seguenti grandi fasi:
1. la pre-mediazione (nella quale potremo inserire
i momenti in cui il mediatore riceve la prima richiesta degli utenti, fornisce
loro informazioni sulla natura, le finalità e la durata del processo mediativo)
2. la negoziazione vera e propria;
3. il raggiungimento dell’ accordo, la sua
redazione e messa in opera.
Per quanto riguarda la pre-mediazione, anche ai
fini di quanto andremo a esporre nel prossimo capitolo circa l’ipotesi di
introdurre la obbligatorietà della stessa, possiamo, a nostro parere e sulla
base di quanto indicato più sopra, individuare nella pre-mediazione alcun fasi
ben precise.
La prima (fase dell’ingaggio) sicuramente
riguarda l’ingaggio degli utenti, che possono richiedere spontaneamente il
supporto, possono essere stati inviati da qualcuno, possono essere stati infine
stimolati dal giudice. In questa fase il mediatore ascolta e cerca solo di
comprendere, almeno a grandi linee, il contenuto della richiesta di aiuto.
Subito dopo (fase informativa) il mediatore
passa a informare gli utenti sul contenuto della mediazione, in particolare le
differenze dal tentativo di conciliazione e dall’arbitrato, sottolineandone gli
aspetti positivi e l’esigenza che siano gli stessi utenti, con il suo supporto
e sostegno, i protagonisti del processo.
Sempre in questa fase il mediatore fornisce agli
utenti informazioni sulla prevedibile durata ed onerosità del processo.
Nell’ultima fase della pre-mediazione (fase di
valutazione), il mediatore riceve dagli utenti, su iniziativa spontanea o
dietro le prime domande, le prime informazioni sull’oggetto del conflitto e
compie una valutazione sulla trattabilità e possibilità di composizione dello
stesso.
Sulla base di questa valutazione, da condividere con
gli utenti, decide se proseguire o meno nel processo di mediazione.
Da quanto appena detto si può evidenziare come la pre-mediazione
sia un momento autonomo e indipendente nel processo mediativo e come le tre
fasi in cui si struttura si possano configurare a loro volta come passaggi
indipendenti l’uno dall’altro, sicché è possibile interrompere il processo
in ognuno di questi momenti senza provocare rotture alla logica interna del
processo.
Questa osservazione ci verrà utile nel proseguo del capitolo
allorché cercheremo di indicare le motivazioni che sono alla base della proposta
di introdurre la obbligatorietà normativa della pre-mediazione, o almeno delle
prime due fasi (ingaggio e informativa) della stessa, nel caso di due
partners impegnati in una separazione o nel divorzio.
Capitolo III – Obbligatorietà della
mediazione familiare?
3.a) Normativa
sugli aspetti della mediazione familiare.
In questo capitolo cercheremo di dimostrare come la
sempre più ampia diffusione degli aspetti legati alla globalizzazione e, in
particolare, l’ampliamento dell’area della multiculturalità, renderà, non solo
opportuno quanto necessario una revisione delle normativa relative alla
mediazione familiare nel senso di una maggiore obbligatorietà.
Attualmente la normativa applicabile alla mediazione
familiare non è scarsa ma neppure abbondante e possiamo trovarla sia a livello
internazione che nazionale.
Per quanto riguarda il primo possiamo rilevare come il
preambolo della Convenzione Europea sui diritti del fanciullo del 1996
reciti: “Considerando tuttavia che in caso di contrasto, è opportuno che le
famiglie tentino di trovare un accordo prima di portare la questione dinanzi
alla autorità giudiziaria…”
L’art. 13 della stessa Convenzione aggiunge: “Al fine
di prevenire e risolvere i conflitti, e di evitare procedimenti che coinvolgano
fanciulli dinanzi alla autorità giudiziaria, le Parti incoraggiano il ricorso
alla mediazione ed a qualunque altro metodo di risoluzione dei conflitti atti a
concludere un accordo, nei casi che le Parti riterranno opportuni”.
E’ importante evidenziare come, a livello
internazionale, il principale fondamento della normativa consista nella
preoccupazione di tutelare i fanciulli (potremo anche dire i “minori”) e che la
mediazione sia considerata la migliore forma di tutela dei loro interessi.
Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con
la Raccomandazione n. R(98)1 del 28 gennaio 1998, facendo un espresso
richiamo all’art. 13 della Convenzione Europea succitata, raccomanda ai Paesi
aderenti di: “a) introdurre e promuovere la mediazione familiare e, se
necessario, rafforzare l’esistente mediazione familiare; b) adottare o rafforzare
tutte le misure che essi considerano necessarie per la prospettiva
dell’adempimento dei seguenti principi per la promozione e l’utilizzo della
mediazione familiare quale strumento appropriato per la risoluzione delle
controversie familiari”.
Sempre a livello internazionale può essere utilmente
osservato coma la mediazione familiare non sia vista come un fenomeno a se
stante, ma sia inquadrata nel più vasto arco delle procedure di ADR
(Alternative Dispute Resolution) ovverosia di quelle procedure di risoluzione
delle controversie, alternative a quelle di tipo giudiziario, che si basano
fondamentalmente sulla autonomia e l’accordo delle parti nel decidere l’esito
delle controversie.
Con riferimento alla mediazione familiare, il Libro
Verde della Commissione Europea, del 19 aprile 2002, relativo alla risoluzione
alternativa delle controversie in materia civile e commerciale recita al
secondo comma del punto 1.5: “Il Consiglio d’Europa ha adottato una
raccomandazione nel 1998 sulla mediazione familiare, e sta attualmente
sviluppando un progetto di raccomandazione sulla mediazione civile. La
Commissione segue con grande interesse questi lavori..”
Sempre il Libro Verde al punto2.2.2 paragrafo 47 dice:
“Al vertice di Vienna del dicembre 1998, i Capi di Stato e di Governo hanno
approvato un piano di azione del Consiglio e della Commissione …(omissis). Il
paragrafo 41 punto c) di questo piano prevede, tra le misure da prendere entro
cinque anni dall’entrata in vigore del trattato, l’esame della possibilità di elaborazione
di modelli di soluzione non giudiziaria delle controversie con particolare
riferimento ai conflitti familiari transnazionali. In questo contesto dovrebbe
essere esaminata la possibilità della mediazione quale mezzo per la risoluzione
dei conflitti familiari.
Mi permetto di richiedere l’attenzione sull’inciso “con
particolare riferimento ai conflitti familiari transnazionali” che
riprenderemo più avanti in questo capitolo.
Infine il recente Regolamento comunitario 2201/2003
all’art. 55 (Cooperazione nell’ambito di cause specifiche alla responsabilità
genitoriali) recita: “Le autorità centrali, su richiesta di un’autorità
centrale di un altro Stato membro o del titolare della responsabilità
genitoriali, cooperano nell’ambito di cause specifiche per realizzare gli
obiettivi del presente regolamento. A tal fine esse provvedono tramite autorità
pubbliche o altri organismi, compatibilmente con l’ordinamento di tale Stato
membro in materia di protezione di dati personali: ….. e) a facilitare un accordo tra i
titolari della responsabilità genitoriali, ricorrendo alla mediazione o con
altri mezzi, e ad agevolare a tal fine la cooperazione transfrontaliera”.
Concludendo ci pare di poter rintracciare con certezza
nella normativa internazionale (che anche se non ha una efficacia diretta sulla
normativa nazionale, ne ha sicuramente una a livello interpretativo) i seguenti
principi fondamentali:
1. la preminenza dei diritti e degli interessi dei minori
sugli altri diritti e interessi;
2. l’assoluto favore con il quale la normativa vede e
incentiva lo sviluppo della mediazione familiare;
3. l’inserimento, a pieno titolo, della mediazione
familiare, nelle procedure di ADR, considerate con favore e agevolate rispetto
a quelle giudiziarie.
Per passare alla normativa nazionale, anche questa non
appare abbondante.
In materia di diritto processuale la legge 154 del
4 aprile 2001 (“Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”) ha
novellato il codice civile con l’art. 342 ter che così recita: “Il giudice può
disporre, altresì, ove occorra l'intervento dei servizi sociali del territorio
o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano
come fine statutario il sostegno e l'accoglienza di donne e minori o di altri
soggetti vittime di abusi e maltrattati”. Con tale articolo viene così
inserita, a livello nazionale, nel nostro ordinamento giuridico la figura del
“centro di mediazione familiare”.
In materia di diritto sostanziale la legge 285 del
28 agosto 1977, all’art. 4 punto i) introduce i “servizi di mediazione
familiare e di consulenza per famiglie e minori al fine di superamento delle
difficoltà relazionali”.
Infine possiamo citare il D.P.R. 13 giugno 2000
(Approvazione del piano nazionale di azioni e di interventi per la tutela dei
diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva per il biennio 2000/2001)
che, richiamando la appena citata legge 285/1977 prevede tra l’altro di
“sostenere lo sviluppo e la creazione di servizi di mediazione familiare
generalizzando le esperienze positive già compiute in alcuni comuni”.
Il quadro normativo a supporto della mediazione
familiare, considerata in particolare quale modalità di sostegno dei minori nei
casi di relazioni familiari critiche, appare abbastanza completo, specie
se integrato dalla leggi regionali in materia.
Peraltro la situazione potrebbe notevolmente
migliorare e dimostrare la sua reale efficacia in presenza di una adeguata
azione a livello finanziario (con la statuizione di maggiori fondi
destinati a tali fini) che concretizzi appropriatamente quanto fissato a
livello normativo. Ma approfondire questo discorso ci porterebbe molto lontano
ed esulerebbe completamente dall’economia di questo lavoro. E’ qui sufficiente
ricordare che la legge 54/06, di cui parleremo subito appresso, all’art. 5 (Disposizione
finanziaria) statuisce: “Dall’attuazione della presente legge non devono
derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
A livello nazionale l’ultima normativa che ha
affrontato il tema della mediazione familiare è stata appunto la legge 54/2006
del 8 febbraio 2006 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e
di affidamento condiviso del figli” che ha novellato l’art. 155 del Codice
Civile.
Ai nostri fini sono particolarmente due gli articoli
che possono interessare.
Il primo comma dell’art. 155 recita: “Anche in caso di
separazione personale dei genitori il figlio minore ha diritto di mantenere un
rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura,
educazione e istruzioni da entrambi e di conservare rapporti significativi con
gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.
Il secondo comma così continua: “Per realizzare le
finalità indicate dal primo comma, il giudice che pronunzia la separazione
personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo
riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente
la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i
genitori…..(omissis)”.
Questo articolo appare particolarmente importante
perché afferma due principi che, se non in contrasto, appaiano certamente
innovativi rispetto a quanto previsto dalla precedente normativa di legge.
In primo luogo, anche al fine di uniformarsi ai
documenti internazionali emanati sui diritti dei fanciulli e degli adolescenti,
il nostro legislatore stabilisce il principio della prevalenza e preminenza
degli interessi e dei bisogni dei minori rispetto agli altri interessi e
bisogni concorrenziali.
La ricerca in tema di famiglia si è andata ormai
consolidando dell’opinione circa la “bigenitorialità” ovvero la
necessità per i figli, ai fini di una crescita equilibrata, di avere un rapporto continuo e significativo
con entrambi i genitori, anche in caso di separazione coniugale. La
bigenitorialità viene estesa normalmente anche ai rapporti con gli ascendenti e
con i parenti di entrambi i genitori, al fine di permettere la permanenza della
integrazione del fanciullo con due mondi diversi ma entrambi ad esso necessari.
La normativa accoglie tale necessità stabilendo il
diritto soggettivo del minore ad un rapporto equilibrato con ciascun genitore e
con i rispettivi ascendenti e familiari. Una notevole innovazione rispetto alla
precedente normativa che poneva al centro i diritti e doveri dei genitori
rispetto al figlio.
D’ora in poi ogni interpretazione della legge non
potrà non considerare questo principio fondamentale che pone al centro i
bisogni e gli interessi del minore e il suo conseguente diritto soggettivo alla
bigenitorialità.
L’ altro principio, fondamentale fissato dal
legislatore nel II comma dell’art. 155, è la priorità data alla modalità
dell’affidamento condiviso rispetto a quello esclusivo. Il primo viene
infatti considerato come la modalità più efficace per realizzare le finalità
indicate nel primo comma, essenzialmente il diritto alla bigenitorialità.
Altri strumenti fondamentali per tutelare tale diritto
sono previsti nell’art. 155 sexies che così recita:
“Prima della emanazione, anche in via provvisoria, dei
provvedimenti di cui all’art. 155, il giudice può assumere, a istanza di parte
o di ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione
del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore
ove sia capace di discernimento.
Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite
le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti
di cui all’art. 155, per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino
una mediazione per raggiungere un accordo con particolare riferimento all’interesse
morale e materiale del figlio”.
Anche da questa normativa possiamo enucleare due
principi fondamentali.
Innanzitutto la possibilità per il giudice di
procedere all’audizione del minore (che diventa obbligo nel caso di
conseguimento dei dodici anni) si configura come uno strumento aggiuntivo per
dare attuazione al diritto alla bigenitorialità del minore. Anche se non esiste
un obbligo del giudice di attenersi ai desideri espressi dal minore nel corso
dell’audizione, è d’altra parte indubbio che il giudice, pur nel formarsi del
suo libero convincimento, non può non tener conto di questi desideri (alcune
massime di sentenze parlano di un obbligo del giudice di motivare la eventuale
difformità del giudizio rispetto ai suddetti desideri).
Il secondo comma dell’art. 155 sexies introduce la
possibilità della mediazione familiare.
Anche qui alcune osservazioni.
Innanzitutto la mediazione familiare è considerata
come uno strumento per raggiungere un accordo consensuale “con particolare
riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”. La
mediazione non è pertanto considerata nella sua logica contrattuale quanto
nella sua modalità di strumento di concreta attuazione della prevalenza
degli interessi e bisogni del minore.
L’altra osservazione riguarda i modi di realizzazione
della mediazione.
Un primo punto da evidenziare riguarda il fatto che il
giudice debba ravvisarne l’“opportunità”. Durante i lavori preparatori
si è discusso se fosse più giusto parlare di necessità o di opportunità; la scelta
finale di tale formulazione privilegia una maggiore ampiezza di decisione da
parte del giudice che può suggerire alle parti la mediazione familiare non solo
quando la percepisca come necessaria ma anche quando ne ravvisi una possibilità
anche minima di successo.
Il secondo punto da mettere in rilievo riguarda la
scelta del legislatore sulla non obbligatorietà della mediazione; la
stessa infatti è espressamente subordinata la consenso di entrambe le parti.
E’ stata questa una scelta saggia?
3.b) Obbligatorietà
della mediazione familiare? Perché no.
Il punto sulla obbligatorietà della mediazione
familiare è ampiamente dibattuto fra gli autori che si occupano della materia.
Lo stesso problema viene affrontato anche dagli autori
che si occupano, in maniera più ampia
della conciliazione / mediazione. I due termini identificano lo stesso fenomeno
ma, convenzionalmente il primo è utilizzato per le controversie di tipo civile
e commerciale, il secondo per quelle di tipo familiare, scolastico, socio-culturale.
Procedendo per ordine possiamo rilevare come il testo della legge 54/06
(originariamente progetto di legge 66 chiamato anche “progetto Tarditi”),
prevedesse l’obbligatorietà del ricorso alla mediazione familiare come
prerequisito per adire l’Autorità Giudiziaria.
Più in particolare, in un primo momento, la mediazione
familiare era prevista in due diverse disposizioni della legge.
Innanzitutto nella disposizione che introduceva l’art.
709 bis del c.p.c., (modificato come da emendamento a firma del relatore O.
Paniz) che recitava:
“Dopo l’art. 709 c.p.c., sono inseriti i seguenti:
<Art. 709 bis (Mediazione familiare)>. In tutti i casi di disaccordo,
nella fase di elaborazione del progetto condiviso, le parti hanno l’obbligo
prima di adire il giudice e salvo i casi di assoluta urgenza e di grave e
imminente giudizio per i minori di rivolgersi a un centro di mediazione
pubblico o privato.
Ove l’intervento, che può essere interrotto in
qualsiasi momento, si concluda positivamente, le parti presenteranno al
Presidente il testo dell’accordo…(omissis). In caso di insuccesso le parti
possono rivolgersi al giudice come previsto dal successivo art. 709 ter. (omissis)”.
La seconda disposizione di legge che accennava alla
mediazione familiare era quella che introduceva l’art. 155 sexies II comma C.C.
(introdotto dall’emendamento dell’On. Mantini, che così recitava:
“Qualora ne ravvisi la necessità, il giudice, sentite
le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti
di cui all’art. 155, per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti,
tentino una mediazione per raggiungere un accordo con particolare riferimento
all’interesse morale e materiale del figlio”.
Mentre la disposizione dell’art. 155 sexies secondo
comma è rimasta intatta (ad eccezione, come già visto, della sostituzione del
termine “necessità” con “opportunità”) fino alla approvazione finale della
legge, ben diverso è stato il destino della prima disposizione.
La stessa ha infatti suscitato numerose critiche in
sede di lavori parlamentari.
La Commissione Affari Sociali della Camera dei
deputati, nella seduta del 10
novembre 2004, subordinava il parere favorevole alla proposta di legge ad una
precisa condizione. Il ricorso alla mediazione familiare avrebbe dovuto essere meramente
“facoltativo, fermo restando l’obbligo per il giudice di informare le
parti sull’opportunità di tale percorso”. La Commissione precisava altresì che
occorreva, tramite la mediazione familiare, favorire il raggiungimento di
accordi tra le parti, ma, d’altra parte, riconfermava che occorreva “lasciare
totale libertà ai genitori rispetto alla effettuazione del percorso della
mediazione stessa.”
Una posizione ancora più rigida veniva presa dalla Commissione
Lavoro sempre della Camera che, nella seduta del 22 dicembre 2004,
richiedeva espressamente la soppressione dell’art. 709 bis c.p.c.,
condizionando a questa soppressione il proprio parere favorevole, esprimendo
“seria contrarietà alla configurazione della mediazione familiare,
istituzionalizzata e addirittura obbligatoria, sia perché ogni aspetto
controverso dovrebbe essere versato all’esame e alla decisione del giudice, sia
perché questa ulteriore istanza comporterebbe la creazione di nuove strutture –
dall’accreditamento, controllo e costo difficilmente garantibili –
mentre i nuovi compiti della mediazione rientrano già professionalmente nelle
competenze della magistratura e dell’avvocatura a prescindere dall’opera già
liberamente svolta da soggetti del volontariato e solidarismo sociale”.
Con riferimento a questa ultima posizione ci sarebbe
da rimanere sconfortati al pensiero che alcuni deputati possano essere convinti
dell’attitudine professionale e dalla effettiva volontà di avvocati e giudici di
esercitare con efficacia tentativi di mediazione (basterebbe essere presenti ad
una udienza di separazione personale e notare la sufficienza e il mero
formalismo con cui i giudici espletano il tentativo di riconciliazione).
Per fortuna che si conosce benissimo la forza che le lobbies
esercitano, più o meno legittimamente sui lavori parlamentari, e più
precisamente la pressione che alcune potenti lobbies avranno esercitato per
evitare che materie e processi di loro competenza si trasferissero, seppur
anche parzialmente nella competenza dei mediatori familiari.
Ancora più ridicolo il riferimento alla necessità di evitare
ulteriori oneri a carico della finanza pubblica. Solo l’augurio che i
parlamentari si comportino con analoga severità in materie di molto minore
importanza rispetto alla tutela dei minori.
Anche in Commissione Giustizia della Camera dei
Deputati, era emersa una maggioranza contraria alla obbligatorietà della
mediazione familiare, in particolare ad una sua pretesa burocratizzazione.
L’On. Lucidi così formulava la sua posizione: “pur apprezzando l’istituto della
mediazione familiare come possibilità di soluzione al di fuori del giudizio,
ritengo che il testo non realizzi nella maniera più idonea tale
obiettivo….(omissis). …poiché la mediazione familiare appare connotata nel
provvedimento da un’eccessiva burocratizzazione oltre ad apparire snaturata
dalla obbligatorietà del passaggio dal centro di mediazione prima di poter
adire il giudice”.
Preso atto di tutte queste perplessità l’On. Paniz,
relatore della legge, si dichiarava disponibile ad “un’eventuale eliminazione
della obbligatorietà della mediazione familiare, sopprimendo quindi il nuovo
art. 709 bis c.p.c……(omissis) poiché l’eliminazione della mediazione familiare
non intacca l’impianto complessivo del provvedimento e in particolare l’introduzione
della “bigenitorialità” attraverso l’istituto dell’affidamento condiviso nei
figli”.
In data 8 febbraio 2005 la Camera ha così approvato un
emendamento dello stesso On. Paniz diretto alla soppressione dell’art. 709 bis
c.p.c.. Lo stesso Paniz, nella stessa
occasione precisava che “la necessità di rendere possibile una soluzione
stragiudiziale del conflitto è comunque garantita dall’ultimo comma dell’art.
155 sexies che prevede la possibilità per il giudice di rinviare l’adozione dei
provvedimenti relativi alla separazione per consentire che i coniugi tentino
una mediazione per raggiungere un accordo”.
E’ doveroso e importante aggiungere che, in data 7
luglio 2005, la Camera dei Deputati respingeva l’emendamento 2354 dell’On.
Mazzucca Poggiolini, diretto a reintrodurre l’obbligatorietà della mediazione.
L’emendamento (che ricalcava l’originario art. 709 bis
c.p.c.) recitava: “In tutti i casi di disaccordo, nella fase di elaborazione
del progetto condiviso, le parti hanno l’obbligo prima di adire il giudice e
salvo i casi di assoluta urgenza e di grave e imminente giudizio per i minori
di rivolgersi a un centro di mediazione pubblico o privato, i cui operatori
abbiano formazione specifica nonché appartengano ad albi nazionali specifici
pubblici e/o privati registrati nell’apposito elenco del Consiglio Nazionale
dell’economia e del lavoro.
Ove l’intervento, che può essere interrotto in
qualsiasi momento, si concluda positivamente, le parti presenteranno al
Presidente il testo dell’accordo…(omissis). In caso di insuccesso le parti
possono rivolgersi al giudice….(omissis)”.
In data 8 febbraio 2006 veniva approvata la legge
54/06 contenente l’art. 155 sexies nel testo già indicato e che riportiamo di
seguito per comodità del lettore:
““Prima della emanazione, anche in via provvisoria,
dei provvedimenti di cui all’art. 155, il giudice può assumere, a istanza di
parte o di ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione
del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore
ove sia capace di discernimento.
Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite
le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti
di cui all’art. 155, per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino
una mediazione per raggiungere un accordo con particolare riferimento
all’interesse morale e materiale del figlio”.
Ad onore del vero è importante che sottolineare che il
nostro legislatore, in materia di obbligatorietà si è uniformato al parere
di alcuni documenti di Entità sopranazionali e a quello della maggioranza di
autorevoli esperti e delle associazioni operanti in materia.
Con riguardo ai documenti internazionali è d’uopo far
riferimento alla già citata Raccomandazione del 21 gennaio 1998 laddove
affermava che “la mediazione non dovrebbe essere, in linea di principio
obbligatoria”.
Più avanti però la stessa Raccomandazione al paragrafo
“Promozione ed accesso alla mediazione” precisava che Gli Stati sono liberi di
stabilire dei meccanismi in casi particolari per fornire informazioni inerenti
la mediazione quale metodo alternativo per risolvere le dispute familiari (ad
esempio obbligando le parti all’incontro con un mediatore) e tramite ciò
mettere le parti in condizioni di valutare se sia possibile e opportuno mediare
le questioni in disputa.
Per quanto riguarda gli esperti, già nell’ambito della
conciliazione in materia civile e commerciale la maggioranza degli autori (vedi
in proposito i testi citati in bibliografia relativi alla sezione negoziazione
e conciliazione) ritiene essenziale la volontarietà nell’adesione alla
procedura conciliativa come un elemento essenziale per il buon esito della
stessa.
Valga per tutti l’opinione espressa nel testo di
Cicogna, Di Rago, Giudice:
“La prima caratteristica della conciliazione risiede
nella volontarietà. Per meglio dire nella scelta della parti di raggiungere o
meno un accordo una volta iniziato il tentativo di conciliazione.
Non a caso si parla di tentativo. Non vi è e non vi
può essere, infatti, alcuna imposizione alle parti al fine di farle aderire ad
una determinata soluzione i di fare loro accettare una via negoziale che non si
ritiene (o non si ritiene più) vantaggiosa. In ogni momento le parti devono
essere libere di alzarsi dal tavolo delle trattative senza che questo comporti
per loro alcuna conseguenza.”
Questa posizione merita un commento perché permette
di distinguere fra obbligatorietà e volontarietà della mediazione. Laddove
si fa riferimento alla obbligatorietà si esprime l’obbligo di far ricorso ad un
processo di mediazione, mentre la volontarietà (così come espressa
nell’opinione appena citata) si estrinseca nella potere di decidere, in ogni
momento del processo, se continuarlo o interromperlo; il che è ben differente!
Sembra pertanto possibile coniugare la obbligatorietà
con la volontarietà, ma di questo parleremo più diffusamente avanti.
Per quanto riguarda gli esperti di mediazione
familiare, la maggioranza di loro si schiera per la completa volontarietà
del ricorso alla procedura.
In Italia le due associazione di mediatori familiari
più rappresentative la AIMEF (Associazione Italiana di Mediazione Familiare) e
la SIMEF (Società Italiana di Mediazione Familiare) sono schierate su questa
posizione.
Anche la AIMMF (Associazione Italiana dei Magistrati
per i Minorenni e per la Famiglia) si è conformata a tale posizione “perché la
mediazione, per sua natura, non può che fondarsi sul consenso dei soggetti in
conflitto e prevederla come obbligatoria significherebbe negarne un caposaldo.
Maggiormente problematiche, anche se inclini verso il
principio della volontarietà, appaiono le posizione di due maestri e fondatori
della disciplina: J. Haynes e L. Parkinson.
In particolare la Parkinson (La
mediazione familiare, Erikson 2003, pag. 40) testualmente dice: “La
raccomandazione del Consiglio d’Europa R(98)1 afferma che la mediazione non
deve essere forzata, poiché questo rappresenterebbe una contraddizione in
termini. Comunque in Norvegia la mediazione è obbligatoria per tutti i genitori
che si separano e divorziano in relazione ai loro figli e i risultati sono
molto positivi. E’ necessario distinguere fra la richiesta che gli individui
partecipino ad un incontro preliminare (anche singolarmente se lo preferiscono)
e la mediazione forzata. In Inghilterra e in Galles, si vincolano coloro
che chiedono un intervento del giudice in un procedimento familiare a
partecipare ad un incontro di selezione o ammissione con un mediatore
familiare. ….(omissis). I mediatori si preoccupano di spiegare, durante questi
incontri di esplorazione, che la mediazione familiare è un processo volontario
e che nessuno dovrebbe prendervi parte per qualche forma di costrizione e di
paura. I partecipanti sono anche liberi di ritirarsi dal processo in qualunque
fase e il mediatore potrebbe porvi fine nel caso in cui esso non fosse più
adeguato o non fosse possibile compiere ultimi progressi”.
La Parkinson invece si schiera contro l’obbligatorietà
di ogni tentativo di mediazione, anche solo a titolo informativo, nel caso di
accertati abusi o di violenze domestiche.
Pertanto ad una analisi più approfondita sembrerebbe
che la posizione della Parkinson sia più articolata di quanto appaia in prima
vista e la stessa non sarebbe a priori contraria (a parte il caso di violenze e
abusi domestici) alla obbligatorietà (a livello di coppia o anche di singolo
genitore) di una fase informativa di mediazione fermo restando il diritto
dell’utente di non proseguire nelle fasi successive.
Si ha la sensazione abbastanza netta che la posizione
drastica assunta dalla maggioranza dei mediatori familiari nei confronti di
qualsiasi tipo di obbligatorietà sia, in qualche modo, collegata a quanto
correntemente praticato nella conciliazione civile e commerciale (cosiddetta
“conciliazione professionale”)
In questo tipo di procedura, infatti, la assoluta e
piena volontarietà è considerata, allo stato attuale, uno dei capisaldi e dei
presupposti per la sua efficacia.
Due parti che partecipano, con l’assistenza del terzo
mediatore, ad un incontro di conciliazione, potranno dialogare con
costruttività ed efficacia fra di loro, disponibili a lasciare le loro
posizioni iniziali ed a raggiunger un compromesso o una soluzione creativa,
solo nel caso in cui l’adesione alla conciliazione sia, se non entusiasta,
almeno volontaria.
3.c) Obbligatorietà
della mediazione familiare? Perché si
D’altra parte l’Argentina presenta una esperienza
nettamente diversa. In questo Paese anche la conciliazione professionale è
stata regolata come obbligatoria per legge e, dopo un periodo iniziale di
assestamento, l’iniziativa sta ora dando dei risultati molto positivi (non per
altro alcuni conciliatori argentini hanno aperto scuole di conciliazione e
mediazione in Italia).
Va peraltro sottolineato che l’Argentina ha molto
investito nella formazione, sia iniziale che permanente dei conciliatori e
tale politica di stimolo e incentivo sulla professionalità si sta ora
dimostrando pagante.
In effetti, anche se il caso argentino è esemplare del
contrario, la posizione, in conciliazione professionale, favorevole alla piena
volontarietà pare abbastanza condivisibile.
Quello che non pare affatto condivisibile è il
trasferimento di tale posizione sic et simpliciter nella mediazione familiare.
In questa, nella maggior parte dei casi, emerge un
interesse da tutelare che è inesistente nella conciliazione professionale,
quello che il codice civile chiama “l’interesse morale e materiale” dei figli
minori.
La passata esperienza giudiziaria ha dimostrato come
sia estremamente difficile, per gli operatori della giustizia, tutelare con
efficacia questo interesse nel caso di situazioni molto conflittuali e di
soluzioni giudiziarie non condivise.
Sicuramente la necessità di una maggiore tutela del
figlio minore ha portato il legislatore a sancire i due principi fondamentali
della legge 54/06:
· il diritto del minore alla bigenitorialità;
· l’affidamento condiviso.
Il tassello mancante alla costruzione appare
sicuramente essere quello della obbligatorietà.
E’ esemplare a questo proposito la posizione assunta
da uno dei maestri della giustizia minorile, il compianto C. A. Moro.
Nella prefazione al libro “Comporre il conflitto
genitoriali” Moro afferma:
“Mi lascia molto perplesso anche la previsione di
rendere praticabile una mediazione solo se le parti sono d’accordo
sull’espletamento di questo tentativo. E’ evidente che le possibilità di
pervenire ad una proficua separazione a seguito della mediazione sono molto
maggiori quando le parti consapevolmente e di buon grado si dispongono ad
accettarla. Ma non è vero l’inverso, e cioè che ogni mediazione è sicuramente
inutile se le parti spontaneamente non l’accettano. E’ una vecchia cultura
quella radicata sulla convinzione che un intervento di sostegno e di
chiarimento alle persone posa essere effettuato solo dove vi sia una spontanea
richiesta dell’utente e, quindi, una sua predisposizione alla collaborazione.
Nessuno può contestare il fatto, evidente, che una volontà collaborativa rende
più facile e proficuo l’intervento. Ma la domanda di aiuto, anche se non emerge
sin dal primo momento, può essere implicita e va sollecitata; il bisogno di
sostegno può essere fortissimo anche se all’inizio lo si rifiuta e fa nascere
un’ostilità che va superata; il far emergere le reali problematiche che
provocano la situazione di sofferenza o di difficoltà suscita inevitabilmente
conflittualità, ma non per questo non risulta doveroso, ove si vogliamo
veramente risolvere i problemi delle persone e sciogliere gli aggrovigliati
nodi che sono alla base di tanti problemi personali. Un’opera di chiarimento e
di sostegno – ed una valutazione seria delle esigenze della prole – è
particolarmente necessaria ed opportuna quando il conflitto è più forte e
radicato: se il tentativo di mediazione – non la definitiva mediazione che
sicuramente non potrà realizzarsi senza il consenso e l’accettazione di tutti i
protagonisti della vicenda – potrà
essere svolto solo se entrambi le parti esprimano il loro consenso ad essa, e
quindi se accettano di mettersi in discussione, non rimarranno esclusi da un
simile istituto proprio coloro che ne avrebbero bisogno?”
Nella posizione del compianto maestro, che appare
ragionevole e condivisibile, emerge un punto che abbiamo già visto negli
assunti della Parkinson: la differenza sostanziale fra due tipi di
volontarietà, quella relativa al ricorso alla mediazione e quella relativa alla
sua accettazione ed alla permanenza nella stessa.
Nulla quaestio, penso a parere di tutti, sulla
assoluta volontarietà di accettare la procedura di mediazione e sul diritto di
ogni parte di interromperla in ogni momento (anche senza fornire alcuna
spiegazione).
Ma come fa la parte a rifiutare la mediazione se non è
stata correttamente informata sul suo reale significato e sulle finalità?
Spesso nel contesto italiano la mediazione è confusa
dai più con la riconciliazione e, più in particolare con quell’inutile
tentativo di riconciliazione espletato in maniera esclusivamente formale dal
giudice del procedimento di separazione personale. La riconciliazione si
concretizza nella riappacificazione delle parti e nella ricomposizione del
nucleo familiare, la mediazione, pur non escludendo la riconciliazione, ha la
finalità più ampia di aiutare le parti a raggiungere una soluzione del conflitto
condivisa e soddisfacente per entrambi, presa nel preminente interesse morale e
materiale dei figli minori.
Appare così fondamentale delineare un momento nel
corso del quali le parti vengano informate da un mediatore familiare sul
percorso della mediazione, le sue finalità, la prevista durata e il metodo
adottato.
In particolare abbiamo già visto, quando abbiamo
esaminato il processo di mediazione (vedi il paragrafo 2c all’interno del
secondo capitolo), come il mediatore svolga la funzione appena delineata in
quella che viene chiamata pre-mediazione e che viene effettuata in tre fasi:
1. fase dell’ingaggio;
2. fase informativa;
3. fase di valutazione.
La ipotesi che sommessamente mi permetto di appoggiare
prevede la obbligatorietà (e la gratuità) dell’accesso alle prime due fasi
della pre-mediazione (di ingaggio e informativa) al fine di permettere alle
parti di poter formulare un consenso (o un dissenso) informato alla
prosecuzione della mediazione.
Dovrebbe sempre restare intatto il diritto di ogni
parte a interrompere anche la pre-mediazione anche senza fornirne la motivazione
(in questo caso infatti si prefigurerebbe una assoluta volontà di negoziare che
rende inutile ogni tipo di tentativo in proposito).
La gratuità dovrebbe essere prevista, non solo per
facilitare l’accesso alla procedura, ma anche per evitare ogni accusa
pretestuosa quale quella che richiedere l’obbligatorietà della pre-mediazione
potrebbe essere una scusa subdola dei mediatori familiari per ampliare il loro
mercato.
A tale proposito, la irragionevolezza della
posizione contraria, peraltro recepita nella normativa, fa nascere il
sospetto che, almeno a livello inconscio, sia emerso negli attuali operatori
del “mercato della conflittualità giudiziaria” (giudici, avvocati, psicologo,
mediatori familiari già operanti) un riflesso di protezione della loro attuale
posizione dominante messa a rischio dall’ampliamento delle richieste derivanti
dalla introduzione della obbligatorietà.
Un’altra obiezione che viene sollevata rispetto alla
obbligatorietà della mediazione riguarda la necessità di creare una rete di centri
di mediazione pubblici e privati che sappiano far fronte all’aumento della
domanda ed ai conseguenti oneri a carico della finanza pubblica (espressamente
proibiti dall’art. 5 della legge 54/06).
Mentre la difficoltà relativa alla rete di centri potrebbe
essere facilmente superata fissando nella normativa un periodo di moratoria (ad
esempio di uno o due anni) destinato alla formazione degli operatori, rimane
apparentemente più pesante l’obiezione originata dai costi per la finanza
pubblica.
Ma anche questa forse superabile.
Innanzitutto affidandoci al settore privato.
Ci sono molti giovani professionisti psicologi,
avvocati, sociologi, conciliatori civili commerciali che, dopo lo svolgimento
di un corso di specializzazione in mediazione familiare (appositamente
certificato da Enti pubblici, ad esempio quelli locali), potrebbero svolgere
con efficacia, sia a titolo individuale che associati in appositi centri,
l’attività di mediatori familiari.
Ovviamente dovrebbe essere confermata la gratuità
degli incontri di pre-mediazione (requisito fondamentale per renderne
accettabile l’obbligatorietà) mentre dovrebbe essere compito dei mediatori
conquistare, con la loro professionalità e maturità umana, i loro utenti ad un
percorso completo di mediazione. I costi per gli utenti saranno comunque
inferiori a quelli che avrebbero dovuto sopportare con gli avvocati in caso di pieno e immediato perseguimento
della strada giudiziaria.
Stesso discorso è valido per i consultori familiari
“no profit” (il cosiddetto terzo settore), laddove sono già in opera dei
mediatori scarsamente utilizzati.
Per quanto riguarda il settore pubblico, non
sono esperto in materia ma sospetto che, a parità di costi, sia possibile
disporre un diverso utilizzo di risorse sottoutilizzate e riqualificate (con la
partecipazione a corsi pubblici) per l’attività di mediazione familiare.
Resta il fatto, riprovevole che, mentre il Parlamento
e il Governo trovano sempre la possibilità di finanziare provvedimenti ben più
futili, hanno scelto proprio per questo provvedimento, diretto alla tutela del
minore e della famiglia, una severità finanziaria di scarsa applicazione nel
nostro Paese.
3.d) Ma
che c’entra la globalizzazione?
Tenuto conto che la maggior parte dei mediatori
familiari e tutte le loro associazioni sono unanimamente contrarie
all’obbligatorietà, considerato che analoga posizione è tenuta
dall’Associazione dei magistrati operanti nel campo familiare, che gli avvocati
dello stesso campo potrebbero non essere entusiasti della obbligatorietà stessa,
come pensare di introdurla nel nostro ordinamento?
Come pensare di cambiare una legge emessa da
pochissimo tempo, e “partorita” fra mille difficoltà? Come ancora superare quel
“catenaccio” apposto dall’ultimo comma della 54/06 laddove è prescritto che
dall’applicazione della legge non devono derivare oneri a carico della finanza
pubblica?
Tutto sembrerebbe remare contro, ma forse non è
cosi…..
Ci viene in aiuto ora l’analisi sulla globalizzazione
e i suoi effetti che è stata l’oggetto del primo capitolo di questo lavoro.
Abbiamo avuto modo di accertare come il fenomeno della
globalizzazione sia nato nel campo delle (tele)comunicazioni e sia
successivamente sviluppato in quello economico – finanziario e in quello
culturale, ad un ritmo vieppiù crescente e inarrestabile.
Limitandoci all’ambito culturale abbiamo visto come
ognuno di noi sia oggi a contatto, in un modo fisico (viaggi o incontri fisici
con stranieri nel nostro Paese) o mediatico (TV, Internet, telefono) con
persone di tutto il mondo che rappresentano culture molto diverse dalla nostra.
Mentre i nostri padri nascevano nell’ambito di un
ambiente mono-culturale (per fermarci all’Italia, la cultura predominante
in maniera assoluta era quella cattolica, con venature o borghesi o popolari),
oggi noi siamo, e ancor più i nostri figli saranno “bombardati” da impulsi
culturali completamente diversi e lontani da quelli tradizionali.
E non ci riferiamo qui solamente ai confronti con
religioni diverse dalla cattolica (viene spontaneo riferirsi all’Islam) quanto
proprio ai confronti con culture diverse, che partono da punti di vista
e soprattutto da valori differenti da quelli nostri. Possiamo, a titolo
esemplificativo ma senza alcuna pretesa di esaurire la casistica, pensare alla
predominanza degli aspetti monetari nella cultura nord-americana o, al
contrario, la scarsa attenzione data al tempo e all’efficienza tipica della
cultura africana.
Abbiamo avuto modo di rilevare come ci stiamo avviando
verso un mondo composto da “meticci” ovvero da persone nelle quali
convivono, in maniera più o meno serena o conflittuale, culture diverse e,
talora, distanti.
Di fronte a
questo futuro, che è già cominciato nel presente, deve essere avviato, a
livello collettivo e normativo (questo aspetto è importante) uno sforzo per
facilitare e incentivare un processo di integrazione.
Già oggi noi adulti, molto più dei nostri padri, siamo
chiamati a un impegno molto pesante e continuo di esercizio di flessibilità
mentale e psicologica per accettare e, in qualche modo, fare nostri, modi di
pensare e (soprattutto) di vivere completamente diversi dal nostro. Se non
riusciamo a far questo ci troviamo (e talvolta ci capita) ad essere chiusi in
un inutile e vizioso atteggiamento di “laudatores temporis acti”, di rancorosa
e polemica critica del nuovo senza affrontare lo sforzo (di flessibilità)
necessario per discernere ciò che vi è di buono (da accettare) o di meno buono
(da rifiutare) in questo nuovo.
Tale atteggiamento flessibile e costruttivo sarà
doveroso e dovrà divenire naturale nella nuova generazione se vogliamo che la
stessa dia pronta ad affrontare le sfide di questo secolo appena iniziato.
La legge sull’affidamento condiviso non è nata dal
nulla, o per iniziativa di qualche brillante pensatore o legislatore solitario.
Essa è originata dagli studi delle scienze sociali che hanno appurato come i
minori abbiano, necessità per una crescita equilibrata e positiva, per poter
affrontare con maturità psicologica le sfide della vita, dell’accesso a
entrambi i genitori.
Gli studi delle scienze sociali sulla necessità della
bigenitorialità sono stati recepiti (come spesso avviene per tale tipo di
studi) da documenti elaborati a livello internazionale (i cui estensori sono
più liberi da vincolo ideologici o di partito) e solo come ultimo passaggio
sono portati al livello legislativo del singolo Paese.
A livello internazionale possiamo a questo punto
ricordare il già citato testo del Libro Verde allorché prevede, tra le misure
da prendere entro cinque anni dall’entrata in vigore del trattato, l’esame
della possibilità di elaborazione di modelli di soluzione non giudiziaria delle
controversie con particolare riferimento ai conflitti familiari
transnazionali. In questo contesto dovrebbe essere esaminata la possibilità
della mediazione quale mezzo per la risoluzione dei conflitti familiari.
Si può correttamente affermare che il diritto alla
bigenitorialità e all’affidamento condiviso, statuito nella legge 54/06, può
essere ben letto, a livello di substrato socio-psicologico, come il diritto dei
minori ad accedere in maniera equilibrata alle culture espresse da entrambi
le figure genitoriali.
Se ognuno di noi è fondamentalmente un meticcio, la
nostra unione matrimoniale o comunque la convivenza stabile portano ad un
incontro plurimo e variegato con più culture. Tale patrimonio culturale
congiunto costituisce la maggiore ricchezza e possibilità di crescita per i
nostri figli.
L’affidamento condiviso diventa così la modalità
normativa che rappresenta al meglio questa necessità di accesso multiculturale.
La legge 54/06 non nasce dunque dal nulla ma da una
precisa e ben chiara necessità.
Peraltro è presumibile pensare (e qualche autore, vedi
la Bernardini De Pace, già
lo ipotizza chiaramente) che tale legge susciterà molti problemi nella sua
attuazione, laddove gli accordi di affidamento condiviso non nascano (per
l’appunto condivisi) da una mediazione familiare), ma vengano imposti dall’alto
di una sentenza giudiziaria.
Tutto lascia pensare ad un massiccio utilizzo, da
parte di genitori insoddisfatti sulle modalità di tale affidamento condiviso
giudiziario, dell’art. 155 ter, laddove recita:
“I genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la
revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli,
l’attribuzione dell’esercizio delle potestà si di essi e delle eventuali
disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo”
Non possiamo passare in silenzio un elemento
fondamentale: l’affidamento condiviso comporta, per i due ex-partners
genitori uno sforzo maggiore di quello esclusivo. Infatti nel caso di
modalità stabilite per sentenza (e pertanto non frutto di un accordo) la
condivisione “forzata” porta inevitabilmente ad una maggiore conflittualità fra
due persone che non hanno ancora elaborato il loro rapporto di ex-coniugi mantenendo
in piedi quello di genitori.
Solo la mediazione familiare, processo che si pone
come uno spazio transizionale da una situazione di conflitto a tutto campo ad
un’altra di elaborazione di rottura le legame partneriale e di mantenimento –
recupero di quello genitoriali, permette di pervenire ad un accordo di
affidamento che sia veramente frutto di una condivisione piena e di
soddisfazione fra le due parti.
Un affidamento condiviso frutto di una mediazione
familiare ha veramente molte più possibilità di creare, senza inutili
conflittualità continue o residue, un clima costruttivo per la crescita
equilibrata del minore e per dargli la piena possibilità di capire le ricchezze
di tutte le culture dei suoi genitori, oltre che una forma mentis aperta anche verso
tutte le altre culture con le quali potrebbe entrare in contatto.
L’obbligatorietà
della mediazione è un passo obbligato per arrivare a questo risultato ed è un
passo che sarà reso indispensabile (a dispetto di tutti i possibili catenacci
posti dalle varie lobbies) dalla necessità di rendere sempre più i nostri
giovani capaci di affrontare con serenità e capacità costruttiva le sfide di un
mondo globale e multiculturale.