Cari amici, il Vangelo di oggi ci chiede di «dare a Cesare quel che è di Cesare» e di «dare a Dio quel che è di Dio». Che cosa significa questa espressione che conosciamo molto bene perché è diventata quasi un proverbio?
Al tempo di Gesù si era consolidato in Giudea il dominio politico di Roma. L’imposta da pagare in moneta romana ne era il segno tangibile. Il fatto però sollevava perplessità. La questione non riguardava solamente il fatto di accettare la dominazione romana o meno, ma aveva anche risvolti religiosi. Il dominio dell’imperatore in alcun modo doveva mettere in dubbio il riconoscimento di Dio come esclusivo signore del popolo di Israele. Le ideologie orientali, come quella egiziana, ad esempio, consideravano il re come dio.
Gesù qui intende riaffermare una cosa semplice: Dio è Dio, cioè solo Dio è Dio. A ogni altro potere è tolta ogni pretesa di assolutezza e di divinizzazione. Dio «ha rovesciato i potenti dai troni», infatti. Ma proprio per questo a Dio va dato «ciò che è di Dio», e non… altro! Devo chiarire meglio per evitare facili confusioni.
Dire che Dio è Signore della vita, è il Signore di tutto, non significa che dobbiamo aspirare a una teocrazia dove il potere ecclesiastico o «divino» sia la soluzione di tutti i problemi. E’ «di Dio» l’adesione totale ed esclusiva delle nostre persone, del significato della nostra vita, delle nostre «radici» profonde. Ma c’è una sfera «politica» che Dio affida all’uomo. L’Apocalisse, ad esempio, è chiara nella denuncia di un «potere divinizzato». Nessun potere umano è divino, e dunque esso ha un ambito di autonomia che richiede discernimento, pazienza, saggezza, partecipazione…
D’altra parte Gesù invita i suoi interlocutori a guardare l’immagine impressa nella moneta. Di chi era? Di Cesare. E l’uomo non è stato creato a immagine di Cesare. Ma è stato creato a immagine di Dio.
E l’uomo oggi invece si inganna perché crede di essere a questo mondo a immagine di Cesare. O meglio: crede che quella sia la sua vera immagine: l’immagine del potere, del successo, dell’imperio, del profitto, del guadagno. E’ ridicolo. In questo modo oscura e dimentica Dio e dimentica che è stato creato a sua immagine.
Tutte le volte in cui la politica, l’economia, la giustizia vogliono fare il bene dell’uomo rispondono alla chiamata di Dio e rispondono anche all’appello di «dare a Cesare ciò che è di Cesare».
Tutte le volte in cui la politica, l’economia, la giustizia vogliono invece presentarsi come la «salvezza» dell’uomo, allora diventano supremi inganni davanti ai quali Gesù dice: «date a Dio quel che è di Dio». E la salvezza è di Dio.
E questa visione ci libera da due tentazioni: lo spiritualismo che ci fa dire: Dio è tutto e il resto non vale nulla; e la teocrazia che ci fa dire che Dio deve essere imposto dovunque, e che il sacro deve dunque diventare potere politico.
La prima lettera ai Tessalonicesi, cioè la seconda lettura di oggi, ci offre il senso del giusto equilibrio quando parla della «operosità della vostra fede» (nel latino della vulgata suona come opus fidei) e della «fermezza della vostra speranza» (in latino sustinentia spei, ma in greco alla lettera: la «pazienza della speranza»).
La fede è operosa nel mondo, spinge a operare, richiede l’opus fidei. Dice Ignazio di Loyola: «l’amore si dimostra più nelle opere che nelle parole». E la lettera di Giacomo ci dice che la fede senza le opere è morta. Anche l’opera politica è uno dei frutti della fede, cioè è chiamata ad essere opus fidei. Se la fede non fruttifica nell’impegno resta senza frutto.
D’altra parte la speranza deve essere ferma in Dio, deve essere anzi «paziente» in Dio perché sappiamo che il nostro agire politico troverà in Dio il suo compimento e il suo significato. Il nostro agire, l’agire del cristiano è contrassegnato, marchiato a fuoco con la pazienza. Il cristiano sa che nessun potere umano è quello definitivo, ultimo, quello che salva. Sa che la sua salvezza è «di Dio» e non «di Cesare». E questa pazienza nella speranza significa dunque attesa, vivere le contraddizione, negoziare decisioni, sapere che bisogna aprire un dialogo vero anche con chi non la pensa come noi. Questa è la sustinentia spei.
Ed è questo che comprendiamo leggendo la prima lettura di oggi. Qui è Dio che parla a Ciro, re pagano, che si accinge a conquistare Babilonia e a permettere al popolo d’Israele di tornare nella sua terra. Qui è Dio che «rende pronto all’azione» il re Ciro, anche se, dice Dio, «tu non mi conosci». E Ciro infatti è un re pagano.
Dunque Dio non comanda, non agisce, non domina politicamente, ma «rende pronti» ad agire. Accinxi te, traduce
Occorre, come ha detto il Papa la parlamento tedesco, «tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra e imparare a usare tutto questo in modo giusto». E’ compito nostro, è il compito della «politica».
Come ha ricordato il Papa in quel discorso, al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiede il giovane sovrano? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo. Domanda invece: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (1 Re 3,9).
Allora chiediamo a Dio che ci renda pronti all’azione, ci renda capaci di dar frutto distiguendo il bene dal male, ma anche di aver pazienza perché sappiamo che Lui e nessun altro, nessun Cesare, è il nostro Signore.
Omelia del Padre Antonio Spadaro S.J. del 15/10/2011