Un carissimo amico mi ha recentemente segnalato che Umberto Eco diceva che il bravo studente non è quello che sa a memoria la data di nascita di Napoleone, ma quello che è in grado di recuperare in due minuti l’informazione che gli serve l’unica volta della sua vita.
E’ questo l’ultimo di una serie di input mentali che sono arrivati alla
mia mente nel corso degli anni e che sono all’origine di questa riflessione.
Il primo lo ebbi molti
anni fa, nel marzo 1974, quando avevo 25 anni.
Ero stato appena assunto nella Direzione IBM che si occupava di politiche
contrattuali e uno dei primi compiti del mio capo era quello di illustrarmi i
contratti standard IBM, futuro oggetto del mio specifico lavoro.
Ricordo benissimo il mio stupore quando, per spiegarmi il primo contratto,
quello di noleggio, il capo tracciò su un foglio una riga orizzontale, con due
lineette verticali agli estremi dicendomi: “questa è la durata del contratto”.
Il mio stupore aumentò quando scrisse il numero 12 sulla riga orizzontale (“la
durata del contratto è di 12 mesi”) e tracciò altre undici lineette verticali
lungo la riga per evidenziare i dodici mesi della durata.
Non era finita… Per chiarirmi che il cliente, per recedere dal contratto,
avrebbe dovuto dare la comunicazione di recesso con un preavviso di tre mesi rispetto alla fine
del contratto stesso, accentuò con un deciso tratto di matita la lineetta
verticale che indicava l’inizio del primo mese dell’ultimo trimestre!
Ero attonito, non riuscivo a capacitarmi come il mio capo non sapesse dire con
semplicità (per di più ad un laureato in Giurisprudenza con il massimo dei voti):
“il contratto IBM di noleggio ha una durata di 12 mesi e può essere disdettato
dal cliente con un preavviso di tre mesi rispetto alla scadenza”. Più tardi
compresi…
Ma andiamo avanti.
Il secondo input mentale mi deriva ancora dal
mio lavoro.
Ero stato abituato, come studente di Giurisprudenza e poi come laureato, a
leggere i testi normativi cercando di ricostruirne a mente l’impalcatura
teorica, ricordandomi successivamente innanzitutto questa impalcatura e solo
dopo quel che ne derivava, ovvero le singole norme.
Scoprii invece il diverso modo di operare in azienda. La normativa, ovvero la
procedura veniva trasformata in un diagramma a blocchi nel quale i quadratini o
i rombi indicavano i diversi passaggi da fare e le frecce, monodirezionali o
pluridirezionali (nel caso che le scelte potessero essere diverse) le opzioni
di azioni disponibili.
Per operare non era più necessario rileggere (con gli occhi o, più spesso con
la memoria) la normativa, ma era sufficiente rileggere il diagramma a blocchi.
Il terzo input lo ebbi (verso il 2000) in un
negozio di vendita di beni elettronici.
Avevo appena acquistato un nuovo cellulare, di marca diversa da quello
precedentemente utilizzato e notai che nella scatola non c’era alcun foglio che
ne illustrasse il funzionamento (come era stato normale trovarlo in tutti gli
elettrodomestici che fino allora avevo acquistato).
Domandai chiarimenti al commesso che, piuttosto stupito per la domanda, mi
rispose: “no, non c’è alcun manuale operativo cartaceo, se vuole le può essere
d’aiuto andare sul nostro sito web dove lo potrà trovare ma, segua il mio
suggerimento, faccia come fanno i ragazzi, ci smanetti sopra e vedrà come è
facile, smanettando, imparare le diverse funzioni”.
Il quarto input lo ricevetti nel corso di un
incontro che ebbi, verso il 2010, con alcuni giovani amici studenti di
Giurisprudenza, tutti ragazzi con buon profitto, che si lamentavano del metodo
di insegnamento attuato in Facoltà, troppo sbilanciato verso la parte teorica
piuttosto che verso la la pratica.
Rimasi molto sconcertato perché quando mi ero laureato io, lo studio era
esclusivamente teorico, ma ne presi atto.
Del resto, nel 2007, quando seguii, ormai in pensione, il Master biennale di
Mediazione familiare notai l’abnorme numero di simulazioni. Ogni volta che
veniva completato un passaggio teorico subito seguiva una simulazione pratica.
Quando chiesi alla Direttrice del Corso il motivo di queste simulazioni (“ho perfettamente
capito la lezione teorica, che bisogno c’è della simulazione?”) mi rispose che
la grande maggioranza degli studenti aveva bisogno della simulazione pratica
per poter comprendere e far proprio il contenuto della lezione teorica.
Il quinto input (e forse, se mi sforzassi, ne
troverei altri…) mi deriva dalla mia esperienza di coniuge di una insegnante.
Mia moglie aveva notato una caratteristica del comportamento comune a molti
studenti.
Di fronte ad un problema che comportava l’applicazione pratica di un postulato
teorico (che avrebbero dovuto comunque sapere) la maggior parte di essi seguiva
due strade alternative:
1) scrivere i termini del problema sullo smartphone sperando così di trovare la
soluzione;
2) chiedere la soluzione finale al compagno di classe bravo, che aveva studiato
la teoria ed era arrivato alla soluzione con passaggi logici, e, una volta
saputo la soluzione finale, provare e riprovare finché non si arrivava
alla soluzione che si era carpita.
Sulla base di tali considerazioni mi viene da
concludere che ormai si è consolidata la prevalenza del “saper fare”
(trovare la soluzione provando o riprovando) sul sapere (ricavare la
soluzione dalla teoria) o, per dirla in altro modo, la prevalenza della pratica
sulla teoria o, per dirla ancora in altro modo, la prevalenza del metodo
induttivo su quello deduttivo.
Sul rapporto fra teoria e pratica mi vengono in mente
alcune considerazioni illuminanti di Emanuele Kant:
“Si chiama teoria un corpus [Inbegriff]
di regole anche pratiche, quando queste regole, come princípi, sono pensate con
una certa universalità e quindi si astrae da una serie di condizioni che pure
hanno necessariamente influsso sulla loro applicazione. Viceversa si chiama
pratica non ogni affaccendarsi, bensì solo quella attuazione [Bewirkung] di un
fine che è pensata come osservanza [Befolgung] di certi principi dell'agire,
rappresentati in generale.
Che,
fra la teoria e la pratica, si richieda ancora un termine intermedio di
connessione e di transizione dall'una all'altra, per quanto la teoria possa
essere completa, è evidente: infatti al concetto dell'intelletto, che contiene
la regola, si deve aggiungere un atto della facoltà di giudicare, tramite cui
il praticante [Praktiker] distingue se qualcosa sia o no il caso della regola;
e poiché alla facoltà di giudicare non si possono dare sempre di nuovo regole
secondo cui dirigersi nella sussunzione (perché si andrebbe all'infinito), così
ci possono essere teorici che nella loro vita non riescono mai a diventare
pratici, perché fa loro difetto la facoltà di giudicare; per esempio medici o
giureconsulti che hanno fatto bene la loro scuola, ma che se hanno da dare un
parere non sanno come comportarsi. Ma anche qualora si incontri questa dote di
natura, può ancora darsi una mancanza nelle premesse; cioè la teoria può essere
incompleta e il suo completamento può forse aver luogo solo tramite esperimenti
ed esperienze ancora da fare, dai quali il medico, l'agronomo o il cameralista che
viene dalla sua scuola possa e debba astrarre nuove regole e completare la sua
teoria. Non dipendeva dunque dalla teoria, quando valeva ancora poco per la
pratica, ma dal fatto che non ce n'era abbastanza; teoria, questa, che egli
avrebbe dovuto imparare dall'esperienza e che è vera anche se non è capace di
darsela da sé e di rappresentarla sistematicamente, come insegnante, in
proposizioni generali e dunque non può pretendere il nome di medico teorico, agronomo
teorico e così via. Nessuno quindi può farsi passare per esperto in una scienza
sul piano pratico e tuttavia disprezzare la teoria, senza farsi riconoscere
semplicemente come un ignorante nella sua disciplina, in quanto crede che
brancolando in esperimenti ed esperienze, senza raccogliere certi princípi (che
formano propriamente ciò che si dice teoria) e senza aver riflettuto sulla sua
attività come un intero (che si chiama sistema, se si è proceduto
metodicamente) possa andare più lontano di dove la teoria sia in grado di
portarlo.”
Questo pensiero di Kant è alquanto lungo ed espresso
in un linguaggio molto diverso da quello usato oggi.
Cercando di semplificare e riepilogare, Kant afferma che è più semplice
e veloce trovare una soluzione pratica partendo da un impianto teorico che
trovarla “brancolando in esperimenti ed esperienze”.
E questa affermazione mi pare estremamente ragionevole se si riferisce alla
situazione dei secoli precedenti il XXI.
Oggi, con il rilievo e le capacità elaborativa che ha
assunto l’informatica, particolarmente con il sorgere e l’impetuoso crescere
della Intelligenza Artificiale (IA)
questo è ancora vero?
Torniamo alla considerazione di Umberto Eco citata all’inizio di questo scritto
“il bravo studente non è quello che sa a memoria la data di nascita di
Napoleone, ma quello che è in grado di recuperare in due minuti l’informazione
che gli serve l’unica volta della sua vita”.
Tale considerazione era condivisibile nella misura in cui questo “saper fare”
del bravo studente (nel caso in questione saper trovare rapidamente una
informazione senza che fosse stato necessario prima “saperla” trattenere sulla
memoria) si riferisse solo al reperimento di un dato ( la data di nascita di
Napoleone) e non pure alla elaborazione di una ipotesi storica per la quale
fosse necessario il riferimento ad altri avvenimenti contemporanei alla nascita
di Napoleone.
Se invece si fosse trattato di inserire la vita di quest’ultimo all’interno
del suo contesto storico (ad esempio la Rivoluzione Francese, la ventata
liberale in Europa, la crescita della classe borghese…) una ricerca veloce
sarebbe stata possibile solo avendo una cultura di base che avesse permesso di
collegare ed elaborare diverse informazioni storiche di carattere sociale,
politico, economico.
Oggi la accresciuta potenza dei motori informatici di ricerca, unita alla
possibilità di utilizzare anche tutte le immani potenzialità dell’IA
permetterebbe al bravo studente citato da U. Eco di avere a disposizione molto
rapidamente non solo la data di nascita di Napoleone ma anche le informazioni
(collegate) relativamente al contesto storico in cui si trovò a vivere
Napoleone.
L’avvento della IA ha cambiato le carte in tavola, il saper smanettare bene
(“la pratica”) sulla tastiera di un computer o di uno smartphone è più efficace
del sapere (“teoria”) delle informazioni e averle trattenute nella propria
memoria pronte per l’uso.
Si può concludere che l’avvento della Intelligenza
Artificiale ha confutato il succitato pensiero di Kant sulla prevalenza, sia in
termini di velocità che di efficacia,
della pratica sulla teoria e del saper fare sul sapere?
La risposta dovrebbe essere positiva sulla base di un buon grado di ragionevolezza.
L’uomo pratico, per usare i termini del grande filosofo tedesco, non brancola
più in esperimenti ed esperienze ma, supportato dalla inimmaginabile (fino a
questo secolo) potenza dell’informatica naviga sicuro e veloce tra milioni di
informazioni elaborate in pochi nanosecondi per giungere celermente a soluzioni
affidabili e sicure.
La pratica, il saper fare, il metodo induttivo, i cosiddetti soft skill
(quelli che in italiano vengono chiamati “competenze trasversali”) sembrano
aver vinto, grazie soprattutto alla IA, la loro sfida con la teoria, il sapere,
il metodo deduttivo, gli hard skill.
Ma è proprio così? Hanno veramente conquistato il monopolio del conoscere?
Temo (o spero?) di no!
Potrà mai l’IA rispondere a domande come queste:
a) quale è il senso della mia vita?
b) perché sento che questa mia
scelta, nonostante sia ragionevole sulla base dei dati raccolti, non mi soddisfa
internamente?
d) quando è che mi sento pienamente realizzato?
e) che risposta do a questo mio
senso del mistero, dell’infinito, che mi trascende?
f) l’amore (sia sensuale che non),
l’amicizia, la empatia sono solo reazioni fisico / chimiche del mio corpo o
c’entra qualcos’altro?
Sinceramente è mia personale opinione che queste ed altre questioni,
appartenenti, sulla base della vecchia cultura classica, al campo della “metafisica”, non possono essere
risolte con il semplice ricorso alla IA.
La metafisica riguarda non tanto il “saper fare” né il “sapere” (in termini di
conoscere) quanto soprattutto quello che potremmo chiamare il “saper essere”, ovvero la
consapevolezza della propria identità, delle proprie radici sia genetiche che
culturali, la nostra direzione di marcia verso il futuro, il senso della vita
e, diciamolo pure… della morte!
Non sento di poter andare oltre e chiudo senza
dimenticare di ringraziare di cuore chi ha avuto la pazienza di leggermi
sino alla fine.
Roma 1/2/2022 Giuseppe
Sbardella