Appunti su velocità, tecnologia, libertà
1) La
rivoluzione della velocità
Spesso
mi trovo a riflettere su una considerazione espressa da Sergio Zavoli nel suo
libro “C’era una volta la prima Repubblica” pubblicato nel 1999 e che,
pressappoco, suonava così: “la rivoluzione non è più il cambiamento, ma la
velocità con cui questo avviene”.
Zavoli non faceva altro che vedere la realtà che si era andata sviluppando in
quell’ultimo decennio dello scorso secolo. La sempre maggiore diffusione degli
strumenti informatici (in primo luogo i computer portatili di grande potenza),
la modernizzazione e l’accelerazione dei mezzi di trasporto (aerei e treni
superveloci), l’avvento e la veloce diffusione di Internet hanno causato un
aumento della velocità delle nostre decisioni e dei nostri comportamenti.
Oggi i computer compiono in nanosecondi operazioni che 20 anni fa costavano
minuti di calcolo, il web ci scarica addosso miriadi di informazioni che il più
delle volte rischiano di sommergerci, il nostro cervello per far fronte a
questa invasione di dati è costretto ad accelerare la propria velocità di
elaborazione e a comandare al corpo immediati e rapidi comportamenti conseguenti.
Non
è un caso che molti ragazzi soffrano oggi di iperattivismo e comunque non
appaiano in grado di dedicare il tempo necessario per considerare
esaurientemente un tema complesso. Ricevono così tanti input in brevi periodi
di tempo che sono costretti a scelte rapide ma soprattutto approssimative,
spesso dettate prevalentemente dall’emotività.
Scrive
bene Bauman nella sua teorizzazione della “società liquida” che i tempi del
cambiamento sono ormai così veloci che spesso, nel momento in cui riusciamo a
cogliere l’essenza di un cambiamento, questo è già superato.
L’unica
soluzione sembra essere quella di accelerare, rischiando di perdere alcuni
elementi indispensabili per una corretta valutazione di un fatto, o di
limitarsi a vivere il momento presente assumendo decisioni che poco tengono
conto del passato e che si limitano ad una prospettiva di breve periodo.
Le
persone e i Paesi che non cambiano il modo di vivere, accettando questa
accelerazione, si trovano ben presto a correre il rischio di essere emarginati.
Certo
occorre, d’altra parte, prendere atto che questa rivoluzione della velocità si
è rivelata essere uno dei fattori di sviluppo del mondo attuale.
L’utilizzo
dei computer è servito per alleviare il lavoro meccanico di tante persone e per
migliorare la qualità della vita (basti pensare ai progressi resi possibili
nell’ambito della medicina).
La
sempre più ampia possibilità di effettuare veloci viaggi virtuali sul web, o
viaggi fisici sui mezzi di trasporto ad alta velocità, quella di poter avviare
comunicazioni immediate e a basso costo con persone di Paesi lontani, non
ultima quella di avere informazioni in diretta sui fatti che si verificano o
sui movimenti di opinione che si stanno sviluppando in tutto il mondo, hanno
reso quest’ultimo simile ad un villaggio in cui la vicinanza (seppur solo
virtuale) è la regola.
Il
formidabile vantaggio di questa vicinanza globale deriva dallo scambio di
esperienze, di informazioni e di know-how che permette a tutti di poter
crescere nelle proprie capacità personali e professionali (quello che A. Sen,
Nobel dell’economia, chiama “functionning”), di potersi confrontare, di
scegliere le soluzioni più vantaggiose per se stessi, per la propria comunità,
per il proprio Paese.
Non
si possono d’altra parte, neppure sottovalutare i grossi rischi che il mondo sta
correndo inseguendo di corsa questa rivoluzione.
Abbiamo già accennato prima alla grande difficoltà che incontrano i ragazzi
nella possibilità di elaborare esaurientemente e con frutto tutte le
informazioni dalle quali sono investiti. Sono il più delle volte costretti a
fare delle scelte, non sulla base di criteri di valore o di reale importanza,
bensì sulla base della maggiore emozione che una informazione suscita nella
propria struttura psicologica. Le decisioni sono prese sulla base dell’emotività
e in una prospettiva di breve periodo, perché non si ha il tempo per una
riflessione ponderata e di maggior durata (il rischio è che, mentre si spende
tempo per la riflessione, un problema cambi profondamente di consistenza
rendendo inutile il tempo speso per rifletterci meglio).
Non
è detto che la situazione cambi profondamente nel mondo degli adulti. La
necessità di prendere decisioni veloci costringe spesso a valutazioni non
approfondite e approssimative basate su assunzioni di rischio (potenzialmente
errate) e sul presupposto (che il più delle volte si rivela impossibile da
realizzarsi) di approfondimenti in un secondo tempo. Anche in questo caso la
prospettiva non può essere che di breve periodo, sulla base del bene immediato
di chi prende le decisioni, in assenza di una adeguata valutazione delle
conseguenze nel medio e lungo periodo che, invece avrebbero potuto suggerire
una ben diversa decisione. L’ interesse personale o di una piccola collettività
nel breve periodo viene privilegiato rispetto al bene comune in un periodo più
lungo, del cui raggiungimento avrebbe potuto meglio beneficiare la persona o la
piccola collettività che invece ha deciso diversamente.
Le
conseguenze della rivoluzione della velocità possono essere poi disastrose per
gli anziani, nei quali la necessità di una maggiore lentezza nei comportamenti
è conseguenza diretta del maggior numero di anni sulle spalle. Inoltre una
inevitabile e progressiva diminuzione della flessibilità cerebrale li porta ad
affrontare con sempre maggiore difficoltà il cambiamento, incluso quello per
attività che ormai stanno divenendo praticamente indispensabili quali l’accesso
ad internet o l’utilizzo di strumenti ICT sempre più complessi (basta pensare
alle difficoltà incontrate dai nostri genitori o nonni nel passaggio alla TV
digitale o a quelle che incontrano quotidianamente nei rapporti con istituti
bancari dai servizi sempre più automatizzati). Si rischia concretamente di
arrivare ad una piena emarginazione e ad un completo isolamento degli anziani.
Va
anche approfondito il rapporto fra istituzioni, finanza ed economia, alla luce
della rivoluzione della velocità.
La competizione crescente, non solo fra le singole persone, ma anche fra i
Paesi, costringe questi ultimi a dotarsi di sistemi istituzionali più rivolti a
favorire la rapidità decisionale rispetto alle esigenze di partecipazione
popolare. L’emergere di sistemi di potere “personalistici”, il successo
economico di regimi a base totalitaria, il ricorso a Governi di tipo “tecnico”
parzialmente svincolati dal controllo parlamentare, possono essere visti come
la conseguenza a livello istituzionale della rivoluzione della velocità.
Ma
anche a livello aziendale le scelte economiche vanno assunte velocemente e
spesso sulla base di informazioni sommarie e approssimative. Questo può
comportare, nelle aziende, la trasformazione dei dipendenti da collaboratori a
meri esecutori di operazioni dettagliatamente programmate (l’importante diventa
non capire cosa si fa o perché la si fa, ma farla in maniera conforme a quanto
previsto). Anche nelle aziende, come nei casi prima indicati, la prospettiva
non può non essere che di breve periodo. Nell’impossibilità di spendere tempo
per valutare tutti gli aspetti del problema e le possibili conseguenze delle decisioni,
ci si sofferma su quelli più evidenti e immediati, trascurando altri forse più
importanti ma che non impattano il breve periodo (conseguenze sull’ambiente,
sulla qualità della vita, sulle relazioni con e tra le persone, dipendenti o
meno).
C’è
un ulteriore aspetto da considerare.
La velocità nella elaborazione delle informazioni e nella esecuzione di
comportamenti è certamente necessaria allorché si è investiti da un numero
considerevoli di dati in periodi di tempo spesso minimi.
Ma, in un mondo dove la competizione fra nazioni, aziende, persone, rappresenta
l’elemento discriminante, per poter emergere (e talvolta anche solo per
sopravvivere) non è necessario solo essere veloci, ma anche saper andare più
veloce dell’altro.
Potremmo
oggi riformulare la frase di Zavoli “la rivoluzione non è il cambiamento, ma la
velocità con cui questo avviene” in “la rivoluzione non è più nella velocità
del cambiamento, ma nell’accelerazione continua di questa velocità”.
Cosa
vuol dire tutto questo? Cosa significa per le persone essere costrette ad
accelerare sempre più, a spingere sempre al massimo il motore del proprio
cervello, dei propri arti?
Come
si coniuga questa accelerazione con l’aumento, nel mondo, dei suicidi, di fatti
criminali apparentemente inspiegabili, l’incremento di malattie nervose quali
depressioni, stress ecc.
Come reagisce la parte spirituale, morale, sentimentale di noi, a queste
accelerazioni, alla impossibilità di fermarsi a riflettere, a contemplare, ad
amare?
Non
si tratta di denigrare il mondo moderno, gli strumenti della tecnica, in
particolare quelli della più moderna tecnologia, non si tratta di auspicare un
impossibile ritorno indietro, ma certo occorre dare una risposta costruttiva (e
forse anche creativa) alle domande appena più sopra formulate.
Ne va della nostra capacità di saper costruire una società in cui la persona
umana sia ancora al centro.
2)
Accelerazione della velocità + superficialità =
manipolazione mediatica?
Ultimamente mi sono venuti in mente alcuni flash
della mia vita.
Nel primo flash ho visto me che, verso la fine degli anni ’90 leggevo un libro di Sergio Zavoli e rimanevo molto colpito da
questa osservazione (la cito a memoria nella sostanza, non so se la
formulazione fosse la stessa): “la rivoluzione non è più nel cambiamento ma
nella velocità con la quale questo avviene”.
Ricordo che mi fermai a riflettere su quella
frase. Mi resi conto che era vero. Avevo allora circa 40 anni e, pensando ai
progressi della scienza e della tecnica fino allora avvenuti a partire dal mio
anno di nascita non potevo che concordare sugli enormi cambiamenti e sulla
velocità con la quale erano avvenuti.
Nel 1974, anno di assunzione, lavoravo in una
grande azienda dell’informatica come era l’IBM, operavo e facevo i conti con
una calcolatrice da tavolo elettromeccanica, scrivevo a mano lettere che poi
venivano dattiloscritte da una segretaria, comunicavo con i miei colleghi di
altre città con il telefono fisso o con messaggi scritti inviati tramite la
posta interna aziendale.
Nel periodo in cui stavo leggendo quel libro di
Zavoli (fine anni ’90) ero ormai in possesso di un personal computer mobile
aziendale scrivevo da solo le lettere ed ero in grado di trasmetterle ai miei
colleghi di altre città tramite la posta elettronica con i quali, peraltro, ero
in grado di parlare ad ogni ora del giorno con il “telefonino” (quello era
allora il nome di quello che ora è diventato “cellulare mobile”) aziendale.
Il mondo, dal 1974 alla metà degli anni ‘90, era cambiato in modo
molto profondo e, quello che notavo, questo cambiamento era avvenuto con una
crescente accelerazione.
Questo fenomeno non era limitabile solo al mondo
del lavoro ma anche a quello della comunicazione, della medicina, della scienza
in generale...
L’unico mondo che appariva fermo era quello
della politica ma anche esso cambiò improvvisamente, e con una accelerazione
imprevedibile, grazie all’operazione giudiziaria di Mani Pulite e all’ingresso
in politica di Berlusconi.
Che dire poi del fenomeno della globalizzazione
economica e dei primi passi di Internet? L’avvento di Internet avrebbe sempre
più rappresentato un momento di svolta epocale rivoluzionaria.
Sì, per parafrasare Zavoli si poteva affermare
che “la rivoluzione non era più nel
cambiamento e nella sua velocità, ma nell’accelerazione con la quale tutto
questo avveniva”.
Il secondo flash riguarda un mio lungo colloquio
con il mio fraterno amico Renato avvenuto negli anni a cavallo del secolo.
Discorrevamo io, dirigente IBM ormai in vista di
una pensione non lontana, e lui, lanciato dirigente di una primaria azienda di
IT, sul tema del lavoro nel mondo nel terziario avanzato (in particolare
elettronica e telefonia mobile).
Io mi lamentavo di essere chiamato dai miei
manager sui dispositivi aziendali che mi erano stati forniti, non solo dopo
cena e nei giorni festivi ma anche, in maniera massiccia, durante le ferie
nelle quali mi vedevo costretto a passare gran tempo a rispondere al cellulare
o al PC portatile.
Lui mi confermò che ormai fermarsi ad auspicare
il ritorno ad un orario di lavoro fissato in maniera rigida o ad un periodo di
ferie di totale riposo era un modo di pensare totalmente superato e
irrealizzabile. Con la competizione tra aziende che aveva ormai superato i
confini nazionali e si era ormai traferita a livello globale una azienda non
poteva permettersi il lusso di fermarsi mai perché, nello stesso momento nel
quale essa si fermava, una sua concorrente poteva continuare a lavorare (e a
superarla..) in un’altra parte del mondo!
La soluzione non poteva essere trovata nel
fissare dei limiti predefiniti all’orario di lavoro, ma nell’essere noi stessi
a saper gestire una mole inimmaginabile di dati ogni giorno e a saper
conciliare le nostre attività (lavoro,
hobby, famiglia) nel modo migliore tenendo presente l’impossibilità di fare
programmi che non fossero se non a breve scadenza.
Aggiunse che, in un periodo non troppo lontano,
sia il computer che il telefonino non sarebbero stati due strumenti diversi,
bensì sarebbero stati unificati. Bisognava solo chiedersi se avrebbe fatto
prima l’IBM a costruire un computer in grado assolvere le funzioni del telefono
o la Nokia a costruire un telefonino in grado di assolvere le funzioni del
computer.
Era circa intorno al 2005 quando uscì il primo
dispositivo Blackberry (né Nokia, né IBM) che gestiva anche le email, oltre che
le conversazioni telefoniche e gli sms…, Renato aveva visto giusto in anticipo!
Mi rendevo conto, seppure a malincuore, che le
considerazioni (e le previsioni…) di Renato erano verosimili e corrette e, nel
frattempo, mi chiedevo, con un certo senso di angoscia: “dato che praticamente
sarò sempre connesso in rete e potrò ricevere comunicazioni in ogni momento,
dato che questo processo non potrà che accelerare (in funzione della
concorrenza su scala globale), come farò a gestire, con discernimento ed
equilibrio, questa valanga di dati che mi piomberà addosso tutti i giorni?
Quale spazio ci sarà per una fruttuosa vita privata e familiare”?
Nel terzo flash la memoria mi rimanda al 2007,
quando con Patrizia passai una settimana di vacanza sulle Dolomiti vicino a
Folgarida..
Durante quel breve periodo ebbi motivo di
ascoltare una lezione di Ezio Aceti, uno psicologo che stimavo e stimo molto,
sulla situazione dei bambini e degli adolescenti oggi.
Ezio faceva notare che quando eravamo bambini e
adolescenti, noi avevamo molto meno stimoli, avevamo la radio, forse la
televisione, il telefono, il cinema 1-2 volte al mese, gli input dei genitori,
le lezioni dei docenti a scuola.
I nostri giochi erano semplici e per nulla o
scarsamente interattivi.
Avevamo ampio tempo per ascoltare, per leggere,
per far domande….
I bambini e adolescenti di oggi hanno molti più
stimoli in aggiunta a quelli nostri (radio, televisione, cinema, genitori,
docenti), sono sempre connessi tramite il loro cellulare o il loro computer,
possono accedere a giochi molto interattivi che forniscono input e chiedono
continue risposte spesso non verbali ma gestuali.
Avendo ogni giorno centinaia di stimoli di più
di quanti ne avevamo noi, hanno minor tempo per ascoltare, per leggere, per farsi
domande.
Devono sempre correre per tener dietro a tutti
questi stimoli, di qui la loro frenesia ma anche l’acquisizione di nuove
capacità.
Una delle quali, sottolineava Aceti era una
grande capacità di lavorare in multi programmazione, ovvero di svolgere o
seguire più attività contemporaneamente, senza peraltro poter approfondire.
Per star dietro a tutti gli input dovevano
pagare lo scotto di restare in superficie senza andare in profondità sui
diversi temi che affrontavano.
La maggior velocità portava inesorabilmente ad
una maggiore superficialità.
Mia moglie Patrizia ed io constatammo la verità
di questo assunto quando vedemmo un nostro giovane giovane amico che usciva,
nello stesso tempo, a vedere la televisione e a studiare, ciò che né lei né io,
da ragazzi, eravamo in grado di fare. Peraltro constatammo anche che lo studio
era più basato sulle memorizzazione di ciò che andava leggendo che sulla sua
comprensione.
Il quarto flash (ma lo chiamo così solo per
comodità) si sostanzia nella maturazione della consapevolezza, nell’ultimo
decennio, della accelerazione nella velocità del progresso della tecnologia.
Pur non avendo, da giovane, un retroterra di
cultura scientifica (Maturità classica e laurea in Giurisprudenza), la lunga
permanenza di 31 anni in una azienda ad alta tecnologia come la IBM, che ha
comportato uso costante di HW e SW sempre più avanzato e il contatto continuo
con persone di elevata cultura scientifica, mi ha fatto progredire di molto su
questo aspetto.
Quando raggiunsi la pensione, il 1 gennaio 2006)
acquistai il PC che usavo in azienda, perfettamente aggiornato, e sapevo usare
la maggior parte dei programmi più diffusi.
Inoltre maneggiavo bene Internet, creai due
email personali, un blog e, nel 2008, due profili e una pagina facebook.
Ora a distanza di appena poco più di un
decennio, mi rendo conto che arranco faticosamente dietro una innovazione
tecnologica sempre più avanzata, app invece di siti internet, programmi e
sistemi operativi sempre più complessi e sofisticati, dispositivi (specialmente
i cellulari smartphone) con comandi sempre diversi e pieni di funzioni
inesplorate…
Una domanda può chiarire il concetto, quanti
miei coetanei conoscono e usano tutte le app precaricate sul loro smartphone
(so che non è corretto ma, con questo termine comprendo anche gli I-phone)?
O, più semplicemente quanti semplici cittadini
sono capaci di usare un PC o un cellulare al massimo (o vicino al massimo)
delle loro potenzialità?
Senza contare che ormai gli smartphone hanno
assunto in gran parte anche le funzioni di un PC con l’aggravante di avere
schermo e tasti più piccoli e, pertanto, comportanti maggior difficoltà di uso
da parte di persone con la vista non perfetta (o anziani).
E’ un tema che è stato definito “digital
divide”, ovvero la separazione tra generazioni (nonché singole persone) che si
trovano pienamente a loro agio nell’uso appropriato della tecnologia e
generazioni (nonché persone) che la usano in maniera superficiale perché non
hanno il tempo necessario per imparare e gestire tutti gli stimoli generati dal
sempre più rapido progresso tecnologico.
In pratica l’accelerazione della realtà
tecnologica costringe una gran parte dell’umanità a correre sempre di più e
necessariamente ad essere superficiale.
Non posso a questo punto non citare quanto
rimasi colpito, durante lo studio universitario di Sociologia , dalle tesi
espresse da G. Simmel e da autori della Scuola di Francoforte circa la
differenza tra “ragione” e “intelletto”.
La ragione, secondo questi autori, è un
principio che dà ordine alle conoscenze empiriche in base a domande che
riguardano il loro “senso, e che non rinuncia al confronto con i sentimenti e
con le domande ultime sul valore e sulla vita; l’intelletto è una facoltà
essenzialmente logico-combinatoria, eminentemente orientata alla calcolabilità
e in questa accezione è la più superficiale e adattabile delle nostre facoltà”.
E come dimenticare l’altro sociologo
recentemente scomparso Z. Bauman e il suo riferimento alla “società liquida” ,
ovvero un tipo di società che cambia tanto velocemente che quando ci accingiamo
a studiare uno dei suoi molteplici aspetti per comprenderlo, ci accorgiamo,
quando pensiamo di averlo compreso, che quell’aspetto, nel frattempo è
nuovamente cambiato.
Dalle riflessioni prima svolte in maniera autonoma
e dallo studio del pensiero di questi eminenti autori non resta che concludere
che l’unica maniera per stare al passo con le realtà che ci circondano in
continuo mutamento accelerato è quella di avere un approccio puntato sulla
veloce comprensione superficiale anziché su un discernimento approfondito.
Questo perché un discernimento approfondito non è possibile se non a pochi
eletti.
Tre recenti libri di M. Tegmark , L. Floridi ,
S. Quintarelli , tutti incentrati sulla Intelligenza Artificiale (di seguito
definita “IA”) hanno destato in me una enorme impressione.
Ero consapevole degli enormi progressi che
l’elaborazione elettronica stava facendo, ma mai avrei immaginato quello che ho
letto.
Siamo ormai capaci di costruire computer /
macchine / robot che sono in grado, in piena autonoma di migliorare se stesse e
anche di progettare macchine più performanti. I nuovi SW sono in grado di elaborare in maniera
rapidissima un numero inimmaginabile di dati (i famosi “Big data”).
Chissà, ad esempio, se si sarebbe riusciti a
inventare i nuovi vaccini anti-Covid in così breve tempo (rispetto agli
standard precedenti) se non si fosse utilizzata la potenza della I.A.?
Ormai il computer che qualche anno fa sconfisse
a scacchi il campione del mondo appare ormai ampiamente superato e sta alla mia
vecchia calcolatrice elettromeccanica come il super computer di I.A. sta
all’ultima versione della calcolatrice scientifica tascabile al servizio di un
semplice studente universitario.
Mi ha molto impressionato, ad esempio il leggere
che, con l’uso della moderna I.A., le multinazionali dell’e-commerce potranno,
con l’accesso ai nostri dati personali, non solo “tagliare” offerte di prodotti
particolarmente allettanti per noi, ma anche (e questo è sconvolgente)
differenziare e “tagliare” i prezzi sulla base della capacità finanziaria
individuale (con buona pace degli schemi della libera concorrenza e della
fissazione del prezzo al punto di equilibrio fra la domanda e l’offerta).
Ci troviamo ai confini di un mondo sconosciuto,
il cui futuro, nel libro di Tegmark, è soggetto a più e diversi scenari.
La domanda cruciale è: “sarà in grado l’uomo di
controllare l’I.A. o questa sfuggirà al nostro controllo, data la sua incommensurabile
maggiore capacità e velocità rispetto a quelle del nostro cervello?”
Ma un’altra domanda aleggia.
Assunto che speriamo di essere in grado comunque
di controllare lo sviluppo dell’I.A. quanti saranno gli uomini capaci di tenere
il passo in questa corsa ad alta velocità. Quali caratteristiche avranno?
A questa domanda non è possibile dare una
risposta certa se non rimandando alla figura geometrica di una piramide
alquanto bassa, con una base molto molto estesa e con un vertice appiattito
molto molto ristretto.
Per questo motivo, qualche riga più sopra ho
usato il termine eletti.
Gli eletti sono pochi, perché solo pochi possono
avere sia la capacità intellettuale sia il sostanzioso know-how necessari per
tenere il passo dell’I.A..
Certamente possiamo trovarli con maggiore
facilità tra i giovani, laureati in discipline scientifiche, esperti in
informatica, estremamente resilienti, piuttosto cittadini del mondo che
riferibili ad una singola identità culturale nazionale.
Saranno i padroni del mondo, avranno una marcia
in più e, con questa marcia, potranno essere sempre più potenti e più ricchi,
perché saranno gli unici in grado di sfruttare appieno la potenza dell’ I.A..
La conseguenza di questa struttura sociale
gerarchica e piramidale sarà certamente una crescita poderosa della
disuguaglianza fra la classe degli eletti e la grandissima maggioranza del
resto dell’umanità.
Come accetterà questo “resto” uno stato delle
cose che lo relega in una situazione permanente di sudditanza (è giusto parlare
di sudditanza piuttosto che di povertà perché l’I.A. darà il via ad una
crescita poderosa del reddito mondiale e potrebbe permettere a tutti una vita
almeno dignitosa)? Non si ribellerà?
NO!
Ma come faccio ad esserne così sicuro.
Abbiamo visto come l’I.A. può arrivare a sapere
tutto di noi. Ogni volta che facciamo un movimento su Internet (ricerca di
argomenti o di articoli o di fotografia, operazioni sul nostro conto corrente,
spedizione e ricevimento di email e messaggi…) i relativi dati possono essere
captati e memorizzati per costruire un nostro preciso profilo personale
contenente la nostra situazione familiare, i nostri gusti, le caratteristiche
fisiche, lo stato delle nostre finanze.
La I.A. può conoscerci meglio e in maniera più
precisa e oggettiva di quanto possiamo conoscerci noi stessi. Sulla base delle
informazioni in suo possesso, potrebbe benissimo manipolarci, farci offerte di
servizi e beni che desideriamo fissando un prezzo “tagliato” sulla intensità
del nostro desiderio e del nostro stato finanziario, potrebbe guidare le nostre
scelte mostrandoci, su Internet, siti ed app che non conoscevamo ma appetibili
su noi…. Potrebbe, e questo è forse l’aspetto più grave, manipolare le nostre
scelte politiche, il nostro voto, pur rispettando formalmente la cornice
democratica.
Sarebbe facile per l’I.A., conoscendo
precisamente i nostri gusti, i nostri interessi, le nostre finanze, le nostre
paure, le nostre relazioni personali…, elaborare tutti questi aspetti, mandarci
messaggi (diretti, o anche indiretti mostrandoci, nelle nostre ricerche sul
web, sempre certi argomenti in grado di agire sulle nostre emozioni profonde) e
indirizzare le scelte politiche verso il sostegno ai fini e agli interessi
propri della classe degli “eletti”.
Si tratterebbe di accentuale le nostre già
esistenti distorsioni cognitive e percezioni selettive, di evidenziare certi
aspetti dei nostri gusti e della nostre idee, lentamente annebbiandone altri,
di annullare (o perlomeno attenuare fortemente) la nostra voglia di sapere,
capire, approfondire in autonomia, e il gioco è fatto.
Potremo diventare schiavi, senza nemmeno
accorgercene, pensando invece di essere pienamente libere.
Ho disegnato uno scenario tenebroso e irreale?
No, è uno scenario perfettamente verosimile e
chi già lavora sulla elettronica evoluta, sulla comunicazione, se non
addirittura sulla I.A. ne è pienamente a conoscenza.
E quello che ho disegnato già parzialmente
avviene.
Non vi siete forse accorti che, quando
effettuate una inquiry sui motori di ricerca web, al battere di una sola
parola, il “sistema” vi offre una serie potenziale di possibili formulazioni
della vostra inquiry a partire dalla parola inserita?
Non avete mai notato che, quando ad esempio fate
una inquiry su un prodotto, quello stesso prodotto vi appare in una
“finestrella” su siti web sui quali siete entrati successivamente.
E come mai facebook vi presenta sempre i post
degli amici che più frequentate sul web (non solo su facebook) e non quelli
degli altri numerosi amici?
Per passare alla manipolazione politica, come
non pensare alle poderose macchine elettorali con propaganda mirata, anche a
base di fake news, per indirizzare il voto dei cittadini. E le interferenze di
Governi stranieri su elezioni di altri Paesi?
Mettiamocelo bene in testa; già viviamo a
rischio di manipolazione in quella che gli esperti di comunicazione chiamano
“bolla” mediatica e stiamo correndo il pericolo di esservi sempre più immersi.
Le future dittature potrebbero non essere più
causate da colpi di stato o da rivoluzioni sociali, ma dalla manipolazione
mediatica, questa sì totalitaria, indotte dalla I.A., per di più sotto la falsa
cornice del rispetto formale delle regole democratiche.
Come difendersi da questa I.A dall’aspetto così
invadente?
Un primo modo potrebbe essere quello di non
difendersi, ma di assecondarne lo sviluppo.
Vorrebbe dire accettare, in cambio di una
maggior sicurezza e di un dignitoso benessere, di essere manipolati nelle
nostre scelte di fondo, pur conservando (e questo è terribile) la parvenza di
una apparente libertà personale.
Un modo alternativo potrebbe essere quello
vagheggiato da chi propone un ritorno ad un surreale “stato della natura”.
E’ una ipotesi affascinante anche perché
permetterebbe di affrontare anche un altro problema, quello dell’enorme mole di
energia che viene consumata dalla I.A..
Ci possono essere due modalità di intendere
questo ritorno alla natura, una radicale e una temperata.
La prima consisterebbe nel bloccare il progresso
tecnologico e concentrarsi solo nella equa ripartizione dei risultati dello
stesso, con due obiettivi:
1) ridistribuire il benessere, creando maggiore
uguaglianza tra i popoli e, dentro i popoli, tra le singole persone;
2) ricostruire l’equilibrio ecologico del
pianeta.
Ma è una soluzione possibile e, soprattutto
augurabile? Vogliamo rinunciare alle ricerche in campo medico per trovare
medicinali e vaccini più efficaci, vogliamo rinunciare a ricerche in capo
scientifico per, ad esempio, pervenire a trarre energia non dalla fissione, ma
dalla ben più pulita fusione nucleare?
E altri esempi potrebbero farsi.
Ma soprattutto, possiamo bloccare l’anelito
primordiale dell’uomo ad usare le proprie capacità per trovare soluzioni
innovative ai suoi problemi?
No, non possiamo bloccare, sic et simpliciter il
progresso tecnologico.
Diverso è ricorrere ad una modalità temperata di
ritorno alla natura.
Non si tratta, in questo caso, di bloccare,
bensì di rallentare e indirizzare il progresso tecnologico verso obiettivi di:
1) ripristino dell’equilibrio ecologico del
pianeta;
2) estrema attenzione a bloccare o quantomeno
moderare le potenzialità di manipolazione mediatica indicate qualche riga più
sopra.
Siamo ancora in tempo? siamo ancora in grado di
controllare lo sviluppo della I.A. o ormai questa è avviata in modo
ineluttabile a svilupparsi in maniera autonoma e ad arrivare al punto
(terrificante) di essere più potente dell’uomo?
A questa domanda non so rispondere e,
sinceramente, non so se gli scienziati stessi siano in grado di rispondere in
maniera unanime. Stando alle mie letture sull’argomento, questa unanimità non
esiste.
Ma ancora, stando all’attuale modello culturale
imperante, siamo in grado ancora di ragionare (perché di questo si tratta) e di
porre fine alla catastrofe? O è invece vero che la manipolazione mediatica
delle menti è ormai così pervasiva che non è più possibile tornare indietro?
Non so se sia possibile una risposta razionale.
Quello che mi sento di poter affermare è che appare necessario un grande atto
di fede verso la capacità dell’uomo di rinascere e ricominciare di nuovo.
Servirebbe scoprire nuovi (o riscoprire vecchi?)
parametri di riferimento valoriali e culturali quali:
1) il primato della piena dignità di ogni
persona umana;
2) il valore della fraternità umana, ovvero la
sensazione e la consapevolezza di essere tutti compartecipi di una stesso
pianeta e di uno stesso destino;
3) il primato dello spirito di collaborazione su
quello di competizione ;
4) il controllo della emotività da parte della
razionalità.
Mentre scrivevo questo elenco mi sono accorto
che stavo ripercorrendo i temi chiave di quel pensiero personalistico che mi ha
sempre affascinato e che ha tra gli autori principali E. Mounier, J. Maritain,
G. La Pira, L. Stefanini.
Per cominciare a ricostruire una solida cultura
basata sui valori del personalismo occorre andare faticosamente controcorrente.
Come fare? quali strumenti usare?
Si aprono altre pagine da scrivere, e non mi
sento in grado di scriverle io o, almeno non in grado di scriverle ora.
Chissà se qualcuno avrà voglia e capacità di
continuare?
Comunque grazie a chi ha avuto la pazienza di
leggere fino alla fine.
3) Meglio “sapere” o “saper
fare”? o… “saper essere”?
Un
carissimo amico mi ha recentemente segnalato che Umberto Eco diceva che il
bravo studente non è quello che sa a memoria la data di nascita di Napoleone,
ma quello che è in grado di recuperare in due minuti l’informazione che gli
serve l’unica volta della sua vita.
E’
questo l’ultimo di una serie di input mentali che sono arrivati alla mia mente
nel corso degli anni e che sono all’origine di questa riflessione.
Il
primo lo ebbi molti anni fa, nel marzo 1974, quando avevo 25 anni.
Ero
stato appena assunto nella Direzione IBM che si occupava di politiche
contrattuali e uno dei primi compiti del mio capo era quello di illustrarmi i
contratti standard IBM, futuro oggetto del mio specifico lavoro.
Ricordo
benissimo il mio stupore quando, per spiegarmi il primo contratto, quello di
noleggio, il capo tracciò su un foglio una riga orizzontale, con due lineette
verticali agli estremi dicendomi: “questa è la durata del contratto”.
Il
mio stupore aumentò quando scrisse il numero 12 sulla riga orizzontale (“la
durata del contratto è di 12 mesi”) e tracciò altre undici lineette verticali
lungo la riga per evidenziare i dodici mesi della durata.
Non
era finita… Per chiarirmi che il cliente, per recedere dal contratto, avrebbe
dovuto dare la comunicazione di recesso con un preavviso di tre mesi rispetto
alla fine del contratto stesso, accentuò con un deciso tratto di matita la
lineetta verticale che indicava l’inizio del primo mese dell’ultimo trimestre!
Ero
attonito, non riuscivo a capacitarmi come il mio capo non sapesse dire con
semplicità (per di più ad un laureato in Giurisprudenza con il massimo dei
voti): “il contratto IBM di noleggio ha una durata di 12 mesi e può essere
disdettato dal cliente con un preavviso di tre mesi rispetto alla scadenza”.
Più tardi compresi…
Ma
andiamo avanti.
Il
secondo input mentale mi deriva ancora dal mio lavoro.
Ero
stato abituato, come studente di Giurisprudenza e poi come laureato, a leggere
i testi normativi cercando di ricostruirne a mente l’impalcatura teorica,
ricordandomi successivamente innanzitutto questa impalcatura e solo dopo quel
che ne derivava, ovvero le singole norme.
Scoprii
invece il diverso modo di operare in azienda. La normativa, ovvero la procedura
veniva trasformata in un diagramma a blocchi nel quale i quadratini o i rombi
indicavano i diversi passaggi da fare e le frecce, monodirezionali o
pluridirezionali (nel caso che le scelte potessero essere diverse) le opzioni
di azioni disponibili.
Per
operare non era più necessario rileggere (con gli occhi o, più spesso con la
memoria) la normativa, ma era sufficiente rileggere il diagramma a blocchi.
Il
terzo input lo ebbi (verso il 2000) in un negozio di vendita di beni
elettronici.
Avevo
appena acquistato un nuovo cellulare, di marca diversa da quello
precedentemente utilizzato e notai che nella scatola non c’era alcun foglio che
ne illustrasse il funzionamento (come era stato normale trovarlo in tutti gli
elettrodomestici che fino allora avevo acquistato).
Domandai
chiarimenti al commesso che, piuttosto stupito per la domanda, mi rispose: “no,
non c’è alcun manuale operativo cartaceo, se vuole le può essere d’aiuto andare
sul nostro sito web dove lo potrà trovare ma, segua il mio suggerimento, faccia
come fanno i ragazzi, ci smanetti sopra e vedrà come è facile, smanettando,
imparare le diverse funzioni”.
Il
quarto input lo ricevetti nel corso di un incontro che ebbi, verso il 2010, con
alcuni giovani amici studenti di Giurisprudenza, tutti ragazzi con buon
profitto, che si lamentavano del metodo di insegnamento attuato in Facoltà,
troppo sbilanciato verso la parte teorica piuttosto che verso la la pratica.
Rimasi
molto sconcertato perché quando mi ero laureato io, lo studio era
esclusivamente teorico, ma ne presi atto.
Del
resto, nel 2007, quando seguii, ormai in pensione, il Master biennale di
Mediazione familiare notai l’abnorme numero di simulazioni. Ogni volta che
veniva completato un passaggio teorico subito seguiva una simulazione pratica.
Quando
chiesi alla Direttrice del Corso il motivo di queste simulazioni (“ho
perfettamente capito la lezione teorica, che bisogno c’è della simulazione?”)
mi rispose che la grande maggioranza degli studenti aveva bisogno della
simulazione pratica per poter comprendere e far proprio il contenuto della
lezione teorica.
Il
quinto input (e forse, se mi sforzassi, ne troverei altri…) mi deriva dalla mia
esperienza di coniuge di una insegnante.
Mia
moglie aveva notato una caratteristica del comportamento comune a molti studenti.
Di
fronte ad un problema che comportava l’applicazione pratica di un postulato
teorico (che avrebbero dovuto comunque sapere) la maggior parte di essi seguiva
due strade alternative:
1)
scrivere i termini del problema sullo smartphone sperando così di trovare la
soluzione;
2)
chiedere la soluzione finale al compagno di classe bravo, che aveva studiato la
teoria ed era arrivato alla soluzione con passaggi logici, e, una volta saputo
la soluzione finale, provare e riprovare finché non si arrivava alla soluzione
che si era carpita.
Sulla
base di tali considerazioni mi viene da concludere che ormai si è consolidata
la prevalenza del “saper fare” (trovare la soluzione provando o riprovando) sul
sapere (ricavare la soluzione dalla teoria) o, per dirla in altro modo, la
prevalenza della pratica sulla teoria o, per dirla ancora in altro modo, la
prevalenza del metodo induttivo su quello deduttivo.
Sul
rapporto fra teoria e pratica mi vengono in mente alcune considerazioni
illuminanti di Emanuele Kant:
“Si chiama teoria un
corpus [Inbegriff] di regole anche pratiche, quando queste regole, come
princípi, sono pensate con una certa universalità e quindi si astrae da una
serie di condizioni che pure hanno necessariamente influsso sulla loro
applicazione. Viceversa si chiama pratica non ogni affaccendarsi, bensì solo
quella attuazione [Bewirkung] di un fine che è pensata come osservanza
[Befolgung] di certi principi dell'agire, rappresentati in generale.
Che, fra la teoria e la
pratica, si richieda ancora un termine intermedio di connessione e di
transizione dall'una all'altra, per quanto la teoria possa essere completa, è
evidente: infatti al concetto dell'intelletto, che contiene la regola, si deve
aggiungere un atto della facoltà di giudicare, tramite cui il praticante
[Praktiker] distingue se qualcosa sia o no il caso della regola; e poiché alla
facoltà di giudicare non si possono dare sempre di nuovo regole secondo cui
dirigersi nella sussunzione (perché si andrebbe all'infinito), così ci possono
essere teorici che nella loro vita non riescono mai a diventare pratici, perché
fa loro difetto la facoltà di giudicare; per esempio medici o giureconsulti che
hanno fatto bene la loro scuola, ma che se hanno da dare un parere non sanno
come comportarsi. Ma anche qualora si incontri questa dote di natura, può
ancora darsi una mancanza nelle premesse; cioè la teoria può essere incompleta
e il suo completamento può forse aver luogo solo tramite esperimenti ed
esperienze ancora da fare, dai quali il medico, l'agronomo o il cameralista che
viene dalla sua scuola possa e debba astrarre nuove regole e completare la sua
teoria. Non dipendeva dunque dalla teoria, quando valeva ancora poco per la
pratica, ma dal fatto che non ce n'era abbastanza; teoria, questa, che egli
avrebbe dovuto imparare dall'esperienza e che è vera anche se non è capace di
darsela da sé e di rappresentarla sistematicamente, come insegnante, in
proposizioni generali e dunque non può pretendere il nome di medico teorico,
agronomo teorico e così via. Nessuno quindi può farsi passare per esperto in
una scienza sul piano pratico e tuttavia disprezzare la teoria, senza farsi
riconoscere semplicemente come un ignorante nella sua disciplina, in quanto
crede che brancolando in esperimenti ed esperienze, senza raccogliere certi
princípi (che formano propriamente ciò che si dice teoria) e senza aver
riflettuto sulla sua attività come un intero (che si chiama sistema, se si è
proceduto metodicamente) possa andare più lontano di dove la teoria sia in
grado di portarlo.”
Questo
pensiero di Kant è alquanto lungo ed espresso in un linguaggio molto diverso da
quello usato oggi.
Cercando
di semplificare e riepilogare, Kant afferma che è più semplice e veloce trovare
una soluzione pratica partendo da un impianto teorico che trovarla “brancolando
in esperimenti ed esperienze”.
E
questa affermazione mi pare estremamente ragionevole se si riferisce alla
situazione dei secoli precedenti il XXI.
Oggi,
con il rilievo e le capacità elaborativa che ha assunto l’informatica, particolarmente
con il sorgere e l’impetuoso crescere della Intelligenza Artificiale (IA)
questo è ancora vero?
Torniamo
alla considerazione di Umberto Eco citata all’inizio di questo scritto “il
bravo studente non è quello che sa a memoria la data di nascita di Napoleone,
ma quello che è in grado di recuperare in due minuti l’informazione che gli
serve l’unica volta della sua vita”.
Tale
considerazione era condivisibile nella misura in cui questo “saper fare” del
bravo studente (nel caso in questione saper trovare rapidamente una
informazione senza che fosse stato necessario prima “saperla” trattenere sulla
memoria) si riferisse solo al reperimento di un dato (la data di nascita di
Napoleone) e non pure alla elaborazione di una ipotesi storica per la quale
fosse necessario il riferimento ad altri avvenimenti contemporanei alla nascita
di Napoleone.
Se
invece si fosse trattato di inserire la vita di quest’ultimo all’interno del
suo contesto storico (ad esempio la Rivoluzione Francese, la ventata liberale
in Europa, la crescita della classe borghese…) una ricerca veloce sarebbe stata
possibile solo avendo una cultura di base che avesse permesso di collegare ed
elaborare diverse informazioni storiche di carattere sociale, politico,
economico.
Oggi
la accresciuta potenza dei motori informatici di ricerca, unita alla
possibilità di utilizzare anche tutte le immani potenzialità dell’IA
permetterebbe al bravo studente citato da U. Eco di avere a disposizione molto
rapidamente non solo la data di nascita di Napoleone ma anche le informazioni
(collegate) relativamente al contesto storico in cui si trovò a vivere
Napoleone.
L’avvento
della IA ha cambiato le carte in tavola, il saper smanettare bene (“la
pratica”) sulla tastiera di un computer o di uno smartphone è più efficace del
sapere (“teoria”) delle informazioni e averle trattenute nella propria memoria
pronte per l’uso.
Si
può concludere che l’avvento della Intelligenza Artificiale ha confutato il
succitato pensiero di Kant sulla prevalenza, sia in termini di velocità che di efficacia, della
pratica sulla teoria e del saper fare sul sapere?
La
risposta dovrebbe essere positiva sulla base di un buon grado di
ragionevolezza.
L’uomo
pratico, per usare i termini del grande filosofo tedesco, non brancola più in
esperimenti ed esperienze ma, supportato dalla inimmaginabile (fino a questo
secolo) potenza dell’informatica naviga sicuro e veloce tra milioni di
informazioni elaborate in pochi nanosecondi per giungere celermente a soluzioni
affidabili e sicure.
La
pratica, il saper fare, il metodo induttivo, i cosiddetti soft skill (quelli
che in italiano vengono chiamati “competenze trasversali”) sembrano aver vinto,
grazie soprattutto alla IA, la loro sfida con la teoria, il sapere, il metodo
deduttivo, gli hard skill.
Ma
è proprio così? Hanno veramente conquistato il monopolio del conoscere?
Temo
(o spero?) di no!
Potrà
mai l’IA rispondere a domande come queste:
a)
quale è il senso della mia vita?
b)
perché sento che questa mia scelta, nonostante sia ragionevole sulla base dei
dati raccolti, non mi soddisfa internamente?
c)
quando è che mi sento pienamente realizzato?
d)
che risposta do a questo mio senso del mistero, dell’infinito, che mi
trascende?
e)
l’amore (sia sensuale che non), l’amicizia, la empatia sono solo reazioni
fisico / chimiche del mio corpo o c’entra qualcos’altro?
Sinceramente
è mia personale opinione che queste ed altre questioni, appartenenti, sulla
base della vecchia cultura classica, al campo della “metafisica”, non possono
essere risolte con il semplice ricorso alla IA.
La
metafisica riguarda non tanto il “saper fare” né il “sapere” (in termini di
conoscere) quanto soprattutto quello che potremmo chiamare il “saper essere”,
ovvero la consapevolezza della propria identità, delle proprie radici sia
genetiche che culturali, la nostra direzione di marcia verso il futuro, il
senso della vita e, diciamolo pure… della morte!
Non
sento di poter andare oltre e chiudo senza dimenticare di ringraziare di cuore
chi ha avuto la pazienza di leggermi sino alla fine.
4) E’ possibile liberarsi
della manipolazione mediatica?
Domande
senza risposta?
Al
termine della mia riflessione su “meglio sapere, o saper fare o, ancora… saper
essere?” mi sono chiesto se l’Intelligenza Artificiale (di seguito la chiamerò
IA) potrà mai rispondere a domande come queste:
a)
quale è il senso della mia vita?
b)
perché sento che una mia scelta personale, nonostante si presenti ragionevole
sulla base dei dati che ho raccolto, non mi soddisfa pienamente nel mio intimo?
c)
quando è che mi sento pienamente realizzato?
d)
che risposta do a questo mio senso del mistero, dell’infinito, del sacro, che
mi trascende?
e)
l’amore (sia sensuale che non), l’amicizia, l’ empatia sono solo reazioni
fisico / chimiche del mio corpo o c’entra qualcos’altro?
E
ancora:
f)
come fare a distinguere il bene dal male?
g)
quali sono i valori ai quali non potrò mai rinunciare se non al costo di non
considerarmi più un uomo?
La
risposta che mi do è No, molto difficilmente l’IA potrà rispondere a domande
come queste (e altre potrebbero essere aggiunte da qualche lettore…), comunque
sempre riguardanti l’ambito della metafisica o dell’etica.
Domande con risposte da
parte dell’IA.
L’IA
sarà invece in grado, prima o poi, di rispondere, più velocemente e
esaurientemente, dell’uomo, a domande che possano essere risolte tramite:
1)
la raccolta delle informazioni necessarie;
2)
il successivo loro collegamento rivolto ad elaborare una risposta logica.
Ma
cosa vuol dire raccogliere informazioni, collegarle fra loro ed elaborarle in
una risposta se non ragionare e, ragionando, dare una risposta toh!
“ragionevole”?
Maggiore
è il numero di informazioni da trovare, collegare ed elaborare, maggiore è
l’efficacia della IA rispetto all’ intelligenza umana.
E’
estremamente importante da sottolineare che, a parte le domande poste
nell’ambito metafisico e/o morale, tutte le altre potranno molto probabilmente
ottenere risposte più rapide e precise dalla IA.
Non
solo, occorre tener presente che l’IA, allo stato attuale del suo sviluppo, può
anche riflettere sulle proprie risposte, farsi domande conseguenti e trovare le
relative risposte. Già esistono computer che si rendono conto dei propri limiti
di elaborazione e si ristrutturano in maniera autonoma (ovvero senza
l’intervento umano) per superare tali
limiti (ad esempio creando nuovo software al loro interno).
Praticamente,
con la solita eccezione dell’ambito metafisico / etico, già in larga parte
l’area della memoria e della razionalità è stata espropriata all’uomo a favore
dell’informatica e ancor più della IA.
Per
restare su aspetti semplici, basta notare quante volte andiamo sui motori di
ricerca per trovare una informazione ( la data di un evento storico, il nome di
un personaggio…) o, ancora, quante volte facciamo una domanda, anche complessa
e articolata, sui motori di ricerca e questi ultimi ci danno velocemente una
risposta esatta.
Senza
dimenticare il sostegno che l’IA offre allo sviluppo della scienza e di
soluzioni scientifiche all’avanguardia. Alzi la mano chi è convinto che l’IA
non abbia contribuito in maniera determinante alla velocità con la quale sono
stati trovati i vaccini MRNA per combattere il Covid 19!
Tutto
facile allora?
Se
la IA risolve i problemi di ordine logico molto più velocemente ed esattamente
di noi, se offre un contributo determinante allo sviluppo scientifico, vuol
dire che può solo facilitarci la vita?
Forse
non è proprio così.
Non
sarà forse che con l’avanzare della IA nel campo della razionalità e della
memoria quantitativa e meccanica, si ritrarrà lo spazio della razionalità e
della memoria umana?
Quanti
di noi usano già l’app “calcolatrice” del proprio smartphone per effettuare
calcoli anche facili che fino a due decenni fa era normale effettuare a mente
sulla base delle famigerate “tabelline” scolastiche e dell’uso delle facoltà
cerebrali di computo?
Quanti
di noi, per andare in automobile in un posto lontano o anche vicino ma
sconosciuto sono ancora soliti andare a cercare questa location su mappe
cartacee o (e qui già entra in campo l’informatica) su google maps o app
similari invece di affidarsi direttamente al “navigatore” installato sulla
propria autovettura o sul proprio smartphone?
Quanti
di noi, per scegliere o acquistare una automobile o una casa (o qualsiasi altro
oggetto di valore), si affidano ad un programma software (ad esempio, nella
maniera più semplice, un foglio Excel approntato da noi stessi o, meglio, già
predisposto) nel quale inserire (o trovare già inseriti) i criteri per
orientare la scelta tra le diverse alternative (ad esempio, nel caso di una
automobile, la casa di produzione, la velocità, il consumo, il tipo di energia
che usa, il cambio ecc.) dando a ciascun criterio un peso per giungere ad una
valutazione ponderata della scelta fra le diverse alternative? Ci siamo chiesti
come avremmo fatto due decenni fa e come molti noi ancora fanno? Forse avremmo
usato la nostra capacità di memoria e di ragionamento! Magari avremmo attivato
i nostri amici e parenti, ci saremmo consultati con loro invece che… con il
computer!
Certo,
l’informatica in generale e, più in particolare l’IA sta riducendo i tempi di
elaborazione delle nostre scelte personali; ma sta anche riducendo i tempi
trascorsi ad utilizzare le nostre facoltà cerebrali e, attenzione! non sta
forse atrofizzando, a causa del loro non uso, parte di tali facoltà cerebrali?
E
ancora, non sta forse diminuendo la nostra capacità di socializzazione,
l’attitudine ad attivare ed a consolidare costruttivi rapporti interpersonali?
Sarebbe interessante chiedere, su questo aspetto, il parere di quanti stanno
già spendendo molto del loro tempo di lavoro in smart-working.
Fra
dieci anni saremo ancora in grado fare un calcolo semplice senza usare l’app
“calcolatrice”, andare in un luogo lontano sulla base di una mappa rinunciando all’uso
del “navigatore”, fare scelte personali di acquisto senza ricorrere all’aiuto
dell’informatica, uscire di casa per incontrare fisicamente gli amici e/o i
colleghi di lavoro?
Ma,
soprattutto, saremo capaci di fare scelte personali o l’IA le farà in effetti
al posto nostro illudendoci del contrario?
Questo
è il grosso rischio, più l’IA aumenta il suo spazio nell’ambito della realtà
materiale suscettibile di razionalizzazione, più diminuisce nello stesso ambito
lo spazio riservato all’uomo e alla sua intelligenza.
Una umanità teleguidata?
Se
l’attività di analisi di dati, di loro valutazione, di scelta dell’opzione
migliore è svolta in maniera più veloce ed efficace da parte dell’IA che da
parte dell’uomo, non potrebbe accadere
di trovarsi di fronte ad una totale resa dell’uomo nell’ambito delle realtà
fisiche e materiali e ad un suo rifugiarsi nell’ambito di quelle più intime o
di quelle spirituali?
Non
potremmo assistere ad una umanità teleguidata in toto da un superpotere dell’IA
tramite lo strumento della manipolazione mediatica?
Se
l’IA è in grado di conoscere tutto di noi stessi (dati personali, preferenze di
ogni tipo, capacità di spesa, simpatie politiche…) cosa potrebbe impedirle di
usare queste informazioni per dirigere la nostra vita in una direzione e verso
obiettivi propri dei pochi che riescono a governare l’IA? Non abbiamo già avuto
esempi di come la manipolazione mediatica riesca ad influenzare scelte
elettorali (gli esempi abbondano) o scelte collettive di consumo (addirittura
diversificando i prezzi sulla base della capacità individuale di spesa e della
propensione al consumo)?
L’IA
non potrebbe essere lo strumento per attuare, da parte di pochi, una dittatura
informatica tramite la manipolazione mediatica?
Ritenete
che si tratti di domande puramente teoriche, di astruserie di persone che si
divertono con elucubrazioni mentali?
Forse
chi avrà voglia di leggere i testi citati nella piccola bibliografia indicata
alla fine di queste considerazioni, potrebbe avere l’opportunità di condividere
questo timore.
Come
imporre una dittatura informatica?
Quale
potrebbe essere una strategia per creare questa situazione nella quale,
attraverso un uso spregiudicato (ma mirato…) della IA si possa pervenire ad
influenzare pesantemente il comportamento di milioni di persone?
Come
pervenire a instaurare quella che più sopra abbiamo definito una “dittatura
informatica”?
La
strategia probabilmente si dovrebbe strutturare attraverso tre precise serie di
azioni.
1. In primo luogo la raccolta di dati.
Occorre
che vengano reperiti, tracciati e quindi raccolti (al fine di poterli
elaborare) i dati personali del maggior numero possibile di persone, generalità
individuali (data di nascita, residenza, stato civile, situazione familiare),
preferenze di consumo, disponibilità finanziarie, simpatie politiche, tipo e
qualità delle amicizie…
Si
giungono così a creare innumerevoli (miliardi?) di profili individuali e a
catalogare e classificare tali profili in blocchi che comprendano profili con
caratteristiche abbastanza omogenee fra di loro.
2. In secondo luogo la costruzione e
diffusione di quelle che semplicisticamente vengono definite “fake news”.
In
realtà non si tratta di costruire e diffondere notizie interamente false, bensì
anche notizie parzialmente false oppure di bloccare la diffusione di notizie
vere ma che potrebbero far aprire gli occhi su precedenti o contemporanee
informazioni false.
E’
una vera e propria azione di falsificazione delle realtà trasmessa con una
carica psicologica tale da restare impressa, più che nella parte cerebrale, in
quella emotiva, nella cosiddetta “pancia” delle persone .
3. In terzo luogo la creazione di nuovi
paradigmi, ovvero nuovi schemi di riferimento mentali.
Tutti
noi usiamo questi schemi, ovvero facciamo (in maniera pressoché automatica) una
ricerca veloce nella nostra memoria per ricordare come ci siamo comportati in
un certo frangente similare e tendiamo a ripetere quel comportamento,
particolarmente se quel tipo di comportamento ci ha permesso di conseguire
risultati positivi (ci diciamo internamente “ha funzionato bene”
Ogni
volta in più che implementiamo quello stesso comportamento tendiamo, con questa
continua ripetizione, a consolidare un preciso schema di riferimento.
Può
però capitare che quel certo comportamento, che più volte ha funzionato in
maniera ottima, dimostri la sua inattitudine a “funzionare” in una situazione
che ci pareva uguale ad altre verificatesi in precedenza e che invece era solo
apparentemente uguale ma, in effetti alquanto diversa.
E’
quello che accade allorché un paradigma, uno schema di riferimento mentale, si
trasforma in una “distorsione cognitiva”, ovvero pensiamo di conoscere una
determinata situazione, mentre in effetti la situazione è diversa.
Sulla
base delle informazioni in nostro possesso “leggiamo” una situazione in un
determinato modo e applichiamo a quella situazione uno schema di riferimento
che, nelle volte precedenti, ha funzionato benissimo sfruttando al meglio a
nostro favore le potenzialità offerta da quel particolare contesto.
Che
accade però se le informazioni che abbiamo raccolto non sono vere o, peggio,
sono state falsificate da altri proprio per modificare il nostro comportamento?
Accade che il nostro comportamento, implementato in base una visione distorta
della realtà, risulta inadeguato agli scopi prefissi.
Ricapitolando
i punti precedenti, possiamo dedurre che una “entità” (politica o economica),
che sia pienamente a conoscenza delle nostre caratteristiche personali
(peculiarità fisiche, dati logistici, familiari e finanziari, preferenze di
gusti, opinioni culturali e politiche…) può, inviandoci false informazioni,
attivare in noi determinate distorsioni cognitive e condizionare pesantemente
il nostro comportamento senza che noi ne siamo consapevoli.
Ma
può una “entità” essere in grado di fare questo a livello mondiale, può
raccogliere i dati di miliardi di persone, elaborarli creando profili sia
personali che diversificati per tipologia di persone, può mirare e veicolare le
informazioni false in maniera da differenziare le stesse in funzione delle
diverse persone e delle diverse tipologie, può praticamente orientare il
comportamento del mondo intero?
Non
so se già questo sia possibile ma certamente lo sviluppo della IA lo renderà
possibile. Sarà invero possibile imporre una “dittatura informatica” a livello
globale attraverso la manipolazione mediatica delle menti delle persone.
Come
difenderci?
Come
difenderci, a livello individuale, dal rischio che la nostra mente possa essere
mediaticamente manipolata e, di conseguenza, il nostro comportamento, essere
condizionato e indirizzato verso fini prescelti da altri?
Quando
ero poco più che ventenne e avevo in animo di fare la mia tesi di laurea sui
valori della democrazia, mi capitò di leggere “I fondamenti della democrazia”
di Hans Kelsen .
Kelsen,
giurista e sociologo di rilievo mondiale, appartenente alla Scuola di Vienna,
sostiene, in questo libro, che il fondamento della democrazia (o, per meglio
chiamarla, della liberaldemocrazia) è la cultura del “dubbio”.
Se
non ho dubbi, argomentava Kelsen, se penso di avere ragione, di possedere
pertanto la “verità” su un determinato argomento, se penso, di conseguenza, che
la mia verità non possa che essere sinonimo di bene sia per me che per gli
altri (altrimenti non sarebbe “verità”…), quali remore dovrei avere non solo a
proporla, ma addirittura ad imporla agli altri... per il loro bene?
A
rifletterci, è questo il principio implicito nella dottrina della maggior parte
delle religioni a sostegno della loro attività missionaria. Convertire diventa
sinonimo di imporre all’altro l’adesione ad una certa fede perché in tal modo
realizzerà il suo bene.
Secondo
Kelsen solo se mi pongo in un atteggiamento di dubbio, sono capace di
presentare la mia opinione all’altro, di ascoltare serenamente la sua e, in uno
spirito di ascolto reciproco ( di “dialogo”…), camminare insieme verso la
ricerca della verità.
Nel
corso della mia vita talvolta ho avuto la forza (perché non è facile…) di
assumere questa cultura del dubbio e mi sono chiesto, in certe situazioni in
cui avevo espresso una opinione o adottato un comportamento che altre volte era
stato giusto; “se invece avessi torto?”, “se quello che dice il mio
interlocutore fosse vero?”, “non è che sto insistendo a seguire la mia idea per
ostinazione o, peggio, per pigrizia?”.
Ebbene,
quando ho avuto questa forza sovente mi è capitato di cambiare la mia opinione,
di accettare in tutto o, più spesso, parzialmente, quella del mio
interlocutore.
Avere
questa cultura del dubbio può essere il primo passo per l’acquisizione di una
maggiore libertà di giudizio rispetto alle informazioni che cerchiamo e
troviamo autonomamente o che ci piovono addosso da altri.
Ma
vivere con questa cultura del dubbio non deve sfociare nell’abbracciare uno
scetticismo estremo, bensì nell’evitare di accettare acriticamente informazioni
infondate e, invece, nel diventare capaci di valutarle e di discernere, nel
mare di informazioni nel quale nuotiamo, quelle vere e utili da quelle false o
inutili.
Una
volta acquisita una sana cultura del dubbio, il passo successivo per combattere
le distorsioni cognitive consiste nel saper ragionare correttamente e
soprattutto nel confrontarsi costantemente con altri.
Leggere
molto, leggere, con mente aperta, sia testi in linea con le nostre opinioni che
testi discordanti e riportanti opinioni diverse, leggere attentamente notando
come le persone articolano e motivano i loro ragionamenti, leggere acquisendo
un ampio bagaglio informativo, permette di ampliare non solo le nostre
informazioni ma soprattutto la nostra capacità di ragionare ed esprimere
giudizi corretti.
Ma
non è ancora sufficiente.
Un
altro e ultimo passo deve essere quello di confrontare le nostre opinioni, i
nostri giudizi con quelli di persone che stimiamo (e che magari hanno opinioni
e giudizi diversi) in un dialogo in cui la serenità, la sincerità, la
assertività e, soprattutto, la voglia di ascoltarsi reciprocamente
rappresentino caratteristiche comuni.
Coltivare
sempre il dubbio, leggere (o vedere…) acquisendo il maggior numero possibile di
informazioni, classificare, collegare e articolare queste ultime sulla base di
ragionamenti corretti, mettere alla prova le nostre conclusioni in confronto e
dialogo con amici che partono da conclusioni diverse, tutto ciò dovrebbe
permettere di raggiungere un certo livello di capacità mentale e intellettiva
sufficiente per riconoscere una gran parte delle informazioni false e
fuorvianti e per limitare l’influenza della nostre distorsioni cognitive.
Ultima
virtù da coltivare è l’umiltà, ovvero la capacità di essere consapevole che,
nonostante tutti i tentativi che possiamo mettere in atto, la nostra
imperfezione innata di essere umani non ci consentirà mai di essere sicuri di
essere completamente liberi da potenziali manipolazioni (di qualsiasi tipo esse
siano).
Di
seguito una breve bibliografia sulla intelligenza artificiale (IA) e sul suo
impatto sociale.
1. Max
Tegmark “Vita 3.0”, Raffaello Cortina editore, 2018
2. Stefano
Quintarelli “Capitalismo immateriale”, Bollati Boringhieri, 2019
3. Luciano
Floridi “Il verde e il blu”, Raffaello Cortina editore, 2020
4. L.
Floridi – F. Cabitza “Intelligenza artificiale”, Bompiani 2021
5. Luciano
Floridi “Etica dell’Intelligenza artificiale”, Raffaello Cortina editore, 2022
6. C.
Giaccardi – M. Magatti “Supersocietà”, il Mulino, 2022
7. L. Giustini “Cluster digitali”, Aracne 2018