Letture giovanili
Nel 1975 (avevo 27 anni e mi piaceva, come anche ora,
leggere) comprai e lessi con piacere il “Manuale di politica economica”
di Francesco Forte.
L’autore era a quell’epoca docente a Torino di Scienza delle finanze, successore,
in quella stessa cattedra, di un gigante come Luigi Einaudi.
Sono stato sempre appassionato di economia, a Roma, durante
la frequenza di Giurisprudenza avevo superato, in modo lusinghiero, gli esami
di Economia politica e di Scienze delle Finanze.
Dopo la laurea in Giurisprudenza continuai a interessarmi di economia leggendo
testi della materia (sia a livello universitario che divulgativo) e soprattutto
gli articoli di fondo del Corriere della Sera dedicati all’analisi economica
(ad esempio gli articoli di Cesare Zappulli e di un certo… Mario Monti!).
Ricordo benissimo che leggendo il manuale di Forte rimasi colpito da due
opinioni che contrastavano con quella prevalente corrente.
La prima, in netta contrapposizione
con chi inveiva contro l’aumento di spesa pubblica come causa diretta di una
seria dinamica inflazionistica, era che l’aumento di spesa pubblica non
poteva creare tensioni inflazionistiche in presenza di un non piego impiego
delle potenziali risorse reali del Paese (occupazione, uso degli asset
produttivi ecc.).
Vedremo in seguito che questo non è del tutto vero, ma che in linea generale si
tratta di una affermazione corretta.
La seconda, in netta contrapposizione con la politica
dei vari Governi che si succedevano, tutti intenti a delegare alla Banca
d’Italia l’uso della politica monetaria in un’ottica, a seconda dei casi,
deflazionistica o inflazionistica della gestione dell’economia, era che lo
strumento più adeguato ed equilibrato per indirizzare l’economia del Paese era
la politica di bilancio. Sosteneva Forte che far intervenire la Banca
d’Italia sulla massa monetaria circolante per spingere o frenare la crescita
economica era un modo elegante usato dalla classe politica per evitare di fare
scelte impopolari quali quelle di aumentare o di diminuire le tasse
privilegiando alcune classi sociali a discapito di altre.
Infatti la diminuzione o l’accrescimento del potere d’acquisto a seguito delle
manovre della Banca d’Italia, tramite il tasso di sconto, non faceva altro che
penalizzare le classi meno agiate a favore di quelle in possesso di maggior
reddito, laddove, invece, l’imposizione di tasse permetterebbe di indirizzare
meglio sia i tagli che gli aumenti di denaro nelle tasche dei cittadini.
L’incontro con la MMT
Queste due affermazioni mi sono rimaste impresse nella
memoria anche negli anni seguenti, nonostante la netta prevalenza delle teorie
economiche monetariste e neoliberali patrocinate dalla Scuola di Chicago di
Milton Friedman, mentre Forte si richiamava espressamente al pensiero di J. M.
Keynes.
Grande è stata la mia sorpresa nel ritrovare recentemente queste stesse posizioni
espresse nel libro “Il mito del deficit” scritto da Stephanie Kelton,
docente universitaria, capo degli economisti del Partito Democratico USA e esponente
di spicco della teoria economica meglio conosciuta come MMT (Modern Monetary
Theory).
Cosa dice la MMT? O almeno cosa io, dilettante, ma non
sprovveduto, di economia, ho capito di essa?
Elementi essenziali della MMT
Prima di tutto il fondamentale e pregiudiziale presupposto,
per uno Stato che voglia ricorrere alla MMT, è:
1) l’avere una piena sovranità monetaria ovvero l’avere un proprio
Istituto bancario di emissione (una Banca centrale) non autonomo dal Governo,
nonché
2) l’avere una moneta nazionale inconvertibile (ovvero senza obbligo di
convertirla con quella di un altro Stato o con un metallo prezioso come di
norma è l’oro).
Secondo i teorici della MMT l’obiettivo di fondo della
politica economica dovrebbe essere quello di puntare alla piena occupazione
prescindendo dall’attenzione all’aumento della spesa pubblica come fonte di
inflazione.
Si tratta di ribaltare completamente il pensiero dominante neo-liberale che
pone come obiettivo di fondo della politica economica una crescita condizionata
da uno stretto controllo del deficit pubblico al fine di limitare gli eventuali
rischi inflazionistici.
Secondo l’impostazione neo-liberale si è anche disposti a considerare normale
un determinato livello di disoccupazione (dal 5 al 10%) al fine di non far
alzare il tasso di inflazione.
Gli economisti che si richiamano alla MMT contestano tale posizione adducendo
la motivazione che, finché tutte le potenziali risorse reali[1] del Paese non sono pienamente impiegate,
l’aumento della massa monetaria (ottenuta stampando carta moneta o facendo
comprare dalla propria Banca centrale i propri titoli di debito pubblico) non
produce rischi inflazionistici.
Infatti la domanda aggregata aggiuntiva di beni e servizi, che viene
creandosi a seguito dell’aumento della massa monetaria, può essere riassorbita
dal maggiore impiego delle risorse reali del Paese senza per questo originare
tensioni inflazionistiche.
L’importante (e qui è chiaro il collegamento con la seconda
delle due opinioni espresse nel manuale di Forte, citato all’inizio) è evitare
che tali tensioni si originino al momento in cui le risorse reali vengano
impiegate nella misura massima (raggiungimento della piena occupazione e del
pieno impiego dell’apparato produttivo) ed essere pronti a intervenire con
manovre fiscali di restrizione mirata della massa monetaria limitando la
liquidità di alcune classi sociali sulla base di precise scelte politiche (è da
sottolineare che tali restrizioni mirate non sono possibili con il solo
intervento della politica monetaria che adotta strumenti di tipo quantitativo e
non qualitativo[2]).
In sintesi l’obiettivo della politica economica non è
tenere l’inflazione sotto un tasso considerato ottimale (generalmente il 2%),
bensì puntare (mediante l’emissione di moneta) alla piena occupazione
compatibile con il massimo impiego delle risorse reali disponibili.
Come si fa a capire quando non c’è margine ulteriore nell’impiego? Quando si
innescano tensioni inflazionistiche.
Con un paragone, del quale mi assumo la responsabilità ma che mi pare congruo,
il rialzo dell’inflazione è assimilabile al rialzo della febbre, che segnala
una infezione nel corpo umano.
Ci misuriamo la febbre quando ne percepiamo alcuni sintomi iniziali
(stanchezza, mal di testa, sensazione di freddo…) ma non passiamo il tempo a
misurarci la febbre. Così non dobbiamo essere ossessionati dal rialzo
dell’inflazione, ma tenerla sotto controllo, con misurazioni periodiche, per
evitare che l’economia giri a vuoto e si surriscaldi.
L’inflazione, secondo la MMT, serve a segnalarci che il pieno impiego delle
risorse reali è raggiunto e che si tratta di sospendere l’immissione di moneta
e di procedere, a seconda dei casi, a misure di sostegno dell’offerta
produttiva oppure, se questo non sia possibile, a drenare la quantità di moneta
e la conseguente domanda aggregata con misure fiscali mirate.
Due perplessità
L’obiettivo da tenere presente è dunque la massima occupazione. Due
perplessità sorgono però immediate.
La prima si può sostanziare
nell’osservazione che una massiccia iniezione di liquidità monetaria
agevolerebbe senza dubbio il raggiungimento della piena occupazione senza
stimolare alcun rischio inflazionistico finché tutte le risorse reali non
vengano completamente impiegate.
Ma questo assunto si riferisce alla cosiddetta “inflazione da domanda” (ovvero
l’aumento generalizzato dei prezzi originato da un eccesso generalizzato della
domanda aggregata di beni e servizi rispetto alla offerta aggregata degli
stessi).
Cosa accade nel caso di “inflazione da costi” (ovvero l’aumento
generalizzato dei prezzi originato da un aumento, ad esempio, dei costi dei
beni importati necessari per lo sviluppo della produzione interna o, ancora e
soprattutto dall’aumento dei salari, probabile corollario dell’ aumento
vigoroso dell’ occupazione)?
Tale aumento di salari sarebbe quasi automatico nel caso della piena occupazione
in quanto, anche se non cesserebbe completamente almeno verrebbe molto attenuata la
concorrenza nella domanda di lavoro e le organizzazioni sindacali avrebbero
buon gioco nel richiedere ed ottenere miglioramenti salariali).
Ma lo stesso fenomeno potrebbe realizzarsi anche nel caso di mancato
raggiungimento della piena occupazione, prima che, come spiegato nel prossimo
paragrafo, si possano esplicare gli effetti della “job guarantee”.
Tirando le somme l’assunto della MMT “pompo moneta nel sistema fino all’impiego
di tutte le risorse reali” e, una volta raggiuntolo, lo tengo sotto controllo
con la politica fiscale, è sicuramente corretto ma non è semplice da mettere in
pratica così come viene consigliato.
La seconda perplessità si
può esprimere con la seguente domanda: e se, per la vischiosità dell’apparato
produttivo (ad esempio per l’impossibilità di fare incontrare una specifica
offerta di lavoro con una determinata domanda) non si potesse raggiungere la
piena occupazione con la sola immissione di moneta nel sistema economico?
Secondo i teorici dell’economia classica di impronta neo-liberale questo ( una
disoccupazione stabile dal 5 al 10%) è da accettare perché è insito nel
funzionamento del sistema.
La MMT interviene invece con lo strumento della “job guarantee”.
In pratica si tratta di assicurare una vita degna anche a chi non riesce a
trovare un lavoro mediante l’assunzione da parte dello Stato in lavori
socialmente utili (essenzialmente lavori di “care” alle persone o di cura
del territorio e dell’ambiente).
La job guarantee non deve trasformarsi in un reddito di cittadinanza e
disincentivare le persone dalla ricerca di un lavoro, per questo dovrebbe
essere previsto un salario che permette una sussistenza umana ma non agiata e
comunque una forma di controllo che il lavoro venga effettivamente svolto con produttività
e attenzione.
E’ da considerare che i servizi di care e di cura in questione, resi alle
persone o al territorio vanno a formare il PIL del Paese, sono da considerare
risorse reali, per questo non tendono a innescare tensioni inflazionistiche.
E nel commercio internazionale?
Finora abbiamo considerato la situazione del funzionamento
di una politica economica, secondo la MMT, in un sistema nazionale chiuso.
Prima di dedicarci alle perplessità che alcuni passaggi di questa teoria
destano, capiamo come la MMT affronta la problematica del commercio
internazionale.
Secondo la teoria classica un Paese dovrebbe cercare di
esportare più di quello che importa, al fine di accrescere il proprio PIL e
acquisire valuta estera, nonché per evitare, nel caso malaugurato che invece le
importazioni eccedessero le esportazioni, di dover aumentare il proprio deficit
statale e cedere valuta per acquisire prodotti provenienti dall’estero.
Alle spalle di questa teoria c’è sempre il già visto “mito del deficit” ovvero
un bilancio pubblico aggravato dal debito e foriero di probabile inflazione.
La MMT risponde che un Paese che abbia sovranità monetaria (ovvero in possesso
di una moneta nazionale non convertibile e con una Banca Centrale nazionale
dipendente dal potere politico) non deve avere alcun timore del deficit.
Infatti il possesso di una moneta nazionale non convertibile e la presenza di
una Banca centrale obbligata e comprare i titoli di debito emessi dallo Stato
permette al Paese in questione di pagare il surplus delle importazioni
semplicemente… pagandole con la propria valuta, ovvero aumentando la massa
monetaria senza preoccuparsi dell’aumento del deficit finché questo non
stimolasse tensioni inflazionistiche. E’ come se la domanda aggregata, spinta
dalla politica monetaria espansiva, si rivolgesse all’acquisto di prodotti
esteri in aggiunta a quelli nazionali; finché la domanda trova risposta
nell’offerta (sia interna che estera) la tensione inflazionistica non dovrebbe
innescarsi.
E’ implicito che, qualora si avvertisse un inizio di pressione sui prezzi, il
Governo dovrebbe attuare un politica fiscale tendente a ridurre l’eccesso di
domanda con iniziative mirate di aumento delle tasse o diminuzione dei benefici
pubblici.
Tale impostazione della MMT sul commercio internazionale fa
emergere peraltro alcune perplessità.
Il ragionamento procede linearmente finché si assume che il Paese possa
pagare le proprie importazioni con la propria moneta nazionale.
Che succede invece se il Paese (“creditore”) che riceve tali pagamenti rifiutasse
di accettare tale moneta? E perché questo rifiuto potrebbe verificarsi
facilmente?
In primo luogo perché il Paese creditore potrebbe temere che la moneta offerta
possa svalutarsi facilmente a causa della sua politica monetaria troppo
espansiva del Paese debitore e trovarsi così in possesso di una valuta che non
bilancia, in termini reali, il peso dei prodotti esportati.
In secondo luogo perché il Paese creditore, con una economia forte, potrebbe utilizzare
la leva del rifiuto per arrivare ad una qualche forma di influenza politica sul
Paese debitore.
In entrambi i casi potrebbe esigere che i propri prodotti esportati fossero pagati
in metallo prezioso, nella propria valuta o comunque in altra valuta forte
diversa da quella del Paese creditore.
Quest’ultimo si vedrebbe costretto ad attuare una politica economica più
attenta sul fronte del commercio internazionale (bilanciando importazioni e
esportazioni).
In alternativa potrebbe privilegiare le importazioni da Paesi del suo stesso
peso politico rispetto a quelle da Paesi “forti”; questo però implicherebbe
l’indirizzare le scelte dei propri cittadini verso alcuni consumi a detrimento
di altri, comprimendo la libertà personale dei propri cittadini e mettere in atto un
orientamento politico di carattere
autoritario[GS1] [GS2] .
Una svolta autoritaria o altre ipotesi
percorribili?
Quello di una svolta governativa in senso autoritario
è dunque il rischio di un Paese, non appartenente alla piccola schiera dei
Paesi “forti” (USA, Cina, Russia, Regno Unito…, già peraltro dotati di una
Forma di Governo autorevole se non autoritaria), che voglia seguire una politica
del commercio estero ispirata dalla MMT?
E come potrebbe, in alternativa ad una difficile soluzione di tipo autarchico,
tale Paese praticare la MMT pur restando nel contesto del commercio
internazionale?
Sì, appare proprio verosimile che un Paese non in possesso di una economia
solida e non in grado di imporre (o almeno negoziare) l’uso della propria
moneta negli scambi internazionali, non possa praticare integralmente sic et
simpliciter i postulati della MMT.
Non per altro il libro “Il mito del deficit” di S. Kelton, citato all’inizio fa
espresso e quasi esclusivo riferimento alla situazione USA e al suo dollaro,
considerato universalmente come moneta di riserva del sistema valutario
mondiale.
Le alternative ipotizzabili all’abbandono, totale o parziale, della MMT sono
due.
La prima ipotesi, già accennata poco sopra, è quella di porre in essere
una politica economico sostanzialmente autarchica che però necessita,
per essere attuata, di una stringente programmazione economica e di indirizzi
abbastanza vincolanti sugli investimenti e sui consumi privati. A livello
costituzionale e politico l’autarchia postula una svolta in senso autoritario
della Forma di Governo.
La seconda ipotesi, forse più praticabile ma che presuppone una ampia
visione e un grande coraggio politico, è quella di rafforzare il peso economico
e politico di uno Stato puntando decisamente al superamento dello Stato
nazionale verso un più esteso Stato Federale, composto dalla unione di più
Stati nazionali.
Il peso politico ed economico acquisito permetterebbe al Governo Federale di
porre in essere, con maggiore autonomia internazionale, una politica ispirata
ai princìpi della MMT, corroborata dalla presenza di una Banca Centrale con il
compito di sostenere gli obiettivi del Governo Federale (in primis,
contemporaneamente, il raggiungimento e il consolidamento della piena
occupazione e il controllo della
inflazione).
Come non pensare, noi cittadini europei ad una Unione Europea trasformata in
Stato Federale e, in tal modo, in grado, ad un livello più alto rispetto a
quello degli Stati Nazionale, di acquisire una reale “sovranità” politica e
monetaria e un Governo autorevole per confrontarsi, con successo, con le altre
superpotenze politiche ed economiche mondiali?
Curiosamente la MMT, teoria di politica economica e monetaria, sostenuta
dai partiti “sovranisti” nazionali in Europa, potrebbe fungere da ponte verso
una concezione, più realistico “sovranismo a dimensione europea”.
Conclusione
Concludendo, e scusandomi subito per la semplificazione
(forse eccessiva, ma necessaria, in funzione del target di lettori al quale è
rivolta questa riflessione), si possono tirare le somme finali, esplicitandole
in due riflessioni.
In primo luogo, la MMT (Moderna Teoria Monetaria) tanto “moderna” non è
se non intesa come una moderna e innovativa interpretazione del pensiero Keynesiano
incarnato in uno Stato forte politicamente ed economicamente.
In secondo luogo la MMT, anche se non attuabile sempre ed ovunque, mette a
disposizione della classe politica (e della classe dirigente nel senso più
esteso) una “cassetta degli attrezzi” da utilizzare insieme agli altri
strumenti della politica economica tradizionale (sia di impronta classica che
Keynesiana), senza contare i nuovi orientamenti di economia civile di mercato,
emersi soprattutto fra studiosi italiani di economia (Zamagni, Becchetti,
Bruni, Gui, Pelligra).
Come spesso accade, il pragmatismo e il sincretismo pagano più della purezza
dottrinale.
Roma 29/12/2020 Giuseppe
Sbardella