Sono rimasto sempre molto
colpito dalla penultima fase della vita di Gesù, la sua morte. Vi
stupite se parlo di penultima fase e non di ultima? A mio parere, in
effetti, l'ultima fase è quella che va dalla morte alla
risurrezione.
Non ha senso fermarsi a Gesù morto, anche perché la sua morte ha un senso solo nella prospettiva di Gesù RISORTO.
Ma torniamo alla morte in croce così come raccontata dai Vangeli.
Non ha senso fermarsi a Gesù morto, anche perché la sua morte ha un senso solo nella prospettiva di Gesù RISORTO.
Ma torniamo alla morte in croce così come raccontata dai Vangeli.
Non mi ha mai convinto, dal punto di vista razionale, la riflessione che la morte di Gesù, fra immani dolori, possa essere vista come una spiegazione esauriente all'esistenza del dolore o un tentativo compiuto di risposta alla presunta inconciliabilità fra esistenza di Dio e esistenza del dolore.
Sono più che persuaso che abbia ragione Papa Francesco quando confessa che un certo tipo di dolore (ad esempio la morte di bambini o di giovani genitori...) rimanga per noi un mistero della volontà di Dio, di fronte al quale possiamo solo balbettare qualcosa ma non illuderci di dare spiegazioni che soddisfino.
Nemmeno mi convince la
decisione che molti cristiani traggono dall'episodio, di cercare il
dolore, il sacrificio, come forma di propria ricerca della
perfezione.
I Vangeli ci raccontano di un Gesù che ha sempre combattuto i dolori, i suoi miracoli (specialmente quelli relativi alle guarigioni dei malati) stanno lì a dimostrarlo.
Né bisogna dimenticare che, fino all'ultimo (anche nell'orto del Getsemani) Gesù chiede al Padre di risparmiargli quel passaggio (che lui chiama il “calice”).
Gesù accetta il dolore, non lo cerca né lo ha mai cercato !
In questi ultimi giorni di agosto ho approfondito il senso di quel suo ultimo grido sulla croce “Eli, Eli, lama sabactani (Dio mio,Dio mio perché mi hai abbandonato)?” che riprende un verso del salmo 22 ma che lui sembra ripetere gridando perché lo ritiene adatto alla sua situazione.
Gesù sulla croce dà la testimonianza di essere un uomo, di essere pienamente compartecipe della natura umana.
Dal punto di vista fisico, prova una sofferenza indicibile, come quella derivante dall'essere appeso ad una croce.
Dal punto di vista psicologico prova l'abbandono da parte della folla di Gerusalemme (che qualche giorno prima lo aveva accolto in città come re), nonché quello dei suoi amici più fidati, gli apostoli. Ai piedi della croce vede solo la madre Maria, l'amico prediletto Giovanni e, verosimilmente, una donna che forse lo amava (perché pensare di no?) come Maria Maddalena.
Un Gesù lasciato solo che dimostra pienamente di essere un nostro fratello come uomo, un nostro compagno di viaggio, quel viaggio che comporta, oltre a momenti di gioia e di piacere, altri pieni di angoscia e di dolore. Gesù uomo prova tutti questi momenti, proprio come noi.
Qualcuno potrebbe obiettare, tutto questo è vero ma, come figlio di Dio, Gesù era pur sempre consapevole che alla fine il Padre sarebbe potuto intervenire per liberarlo da quella situazione.
Ma anche questo aggancio crolla, Gesù urla l'abbandono da parte del Padre, si sente solo, si sente solo uomo, sente che il suo Dio non c'è.
In questo senso mi piace pensare ad un GESU' ATEO, ad un Gesù, cioè che, nel suo condividere pienamente la natura e la sorte degli altri uomini, ha accettato di provare ad abbattere l'ultima barriera che lo divideva dall'essere pienamente uomo, il diventare ateo!
Gesù in quel momento è un uomo pienamente solo, non ha più alcun aggancio positivo al quale collegarsi per cercare un barlume di positività, prova tutto ciò che i singoli uomini possono provare nel corso della vita.
Ed è qui che questo Gesù ateo (come mi piace chiamarlo per definire la sua situazione di piena umanità) ha uno scatto “Padre nelle tua mani affido il mio spirito”, uno scatto di fede pura (una fede cioè che non si basa su alcuna soddisfazione spirituale o materiale), di uomo solo che, nella sua “forte debolezza” (come altrimenti chiamarla?) trova l'energia dinamica per credere nonostante tutto, quella energia dinamica che attiva il processo dell'ultima fase della sua vita che culminerà, due giorni dopo, nella Resurrezione.
Cosa concludere da questa riflessione?
I Vangeli ci raccontano di un Gesù che ha sempre combattuto i dolori, i suoi miracoli (specialmente quelli relativi alle guarigioni dei malati) stanno lì a dimostrarlo.
Né bisogna dimenticare che, fino all'ultimo (anche nell'orto del Getsemani) Gesù chiede al Padre di risparmiargli quel passaggio (che lui chiama il “calice”).
Gesù accetta il dolore, non lo cerca né lo ha mai cercato !
In questi ultimi giorni di agosto ho approfondito il senso di quel suo ultimo grido sulla croce “Eli, Eli, lama sabactani (Dio mio,Dio mio perché mi hai abbandonato)?” che riprende un verso del salmo 22 ma che lui sembra ripetere gridando perché lo ritiene adatto alla sua situazione.
Gesù sulla croce dà la testimonianza di essere un uomo, di essere pienamente compartecipe della natura umana.
Dal punto di vista fisico, prova una sofferenza indicibile, come quella derivante dall'essere appeso ad una croce.
Dal punto di vista psicologico prova l'abbandono da parte della folla di Gerusalemme (che qualche giorno prima lo aveva accolto in città come re), nonché quello dei suoi amici più fidati, gli apostoli. Ai piedi della croce vede solo la madre Maria, l'amico prediletto Giovanni e, verosimilmente, una donna che forse lo amava (perché pensare di no?) come Maria Maddalena.
Un Gesù lasciato solo che dimostra pienamente di essere un nostro fratello come uomo, un nostro compagno di viaggio, quel viaggio che comporta, oltre a momenti di gioia e di piacere, altri pieni di angoscia e di dolore. Gesù uomo prova tutti questi momenti, proprio come noi.
Qualcuno potrebbe obiettare, tutto questo è vero ma, come figlio di Dio, Gesù era pur sempre consapevole che alla fine il Padre sarebbe potuto intervenire per liberarlo da quella situazione.
Ma anche questo aggancio crolla, Gesù urla l'abbandono da parte del Padre, si sente solo, si sente solo uomo, sente che il suo Dio non c'è.
In questo senso mi piace pensare ad un GESU' ATEO, ad un Gesù, cioè che, nel suo condividere pienamente la natura e la sorte degli altri uomini, ha accettato di provare ad abbattere l'ultima barriera che lo divideva dall'essere pienamente uomo, il diventare ateo!
Gesù in quel momento è un uomo pienamente solo, non ha più alcun aggancio positivo al quale collegarsi per cercare un barlume di positività, prova tutto ciò che i singoli uomini possono provare nel corso della vita.
Ed è qui che questo Gesù ateo (come mi piace chiamarlo per definire la sua situazione di piena umanità) ha uno scatto “Padre nelle tua mani affido il mio spirito”, uno scatto di fede pura (una fede cioè che non si basa su alcuna soddisfazione spirituale o materiale), di uomo solo che, nella sua “forte debolezza” (come altrimenti chiamarla?) trova l'energia dinamica per credere nonostante tutto, quella energia dinamica che attiva il processo dell'ultima fase della sua vita che culminerà, due giorni dopo, nella Resurrezione.
Cosa concludere da questa riflessione?
In primo luogo ho molto introiettato la convinzione della piena umanità di Gesù, la possibilità di poter vivere come lui, una possibilità che è per tutti, anche per i credenti di altre denominazioni, ma anche per gli atei, perché anche lui è stato ateo.
Il cristiano non deve cessare di essere pienamente uomo per essere realmente cristiano, la sequela di Gesù lo porta alla piena umanità.
E questo è valido anche per un ateo, essere compagno di viaggio umano di Gesù lo porta ad essere ancora più pienamente uomo.
In secondo luogo questa riflessione mi porta a credere che non Ci sia una situazione così negativa dalla quale una persona non possa pur sempre rialzarsi per iniziare di nuovo un processo di risurrezione.
Chissà che quel Dio Padre che Gesù non sentiva più era nascosto e invisibile ma pur sempre presente, come è presente (nascosto) vicino a tutti quelli che, pur non credendo nella sua esistenza, credono che sia possibile vivere facendo il bene?