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domenica 28 marzo 2010

Buona settimana (e infine, un si condizionato)

Carissimi

Il no positivo parte da un si a se stessi nell’ottica del bene comune, passa attraverso un no chiaro e motivato a capricci o a richieste irragionevoli ovvero arroganti, e si chiude con un si condizionato (esempio: “non ti posso concedere quello che vuoi, perché non ho il denaro per comprarti tutto quello che mi hai chiesto ma, se scegli un regalo, quello che ti piace di più, vedo di accontentarti”).

Che ne dite?

Buona settimana..... Santa!!

giovedì 25 marzo 2010

Ma la spesa pubblica crea felicità?

La spesa pubblica crea felicità?

Le popolazioni Europee, in particolare quelle del Sud Europa, non possono più aspettarsi la soddisfazione delle proprie aspettative attraverso l’aumento della spesa pubblica. Abbiamo visto nel precedente articolo "alternanza di governo o qualcosa di diverso?"(http://www.personaefuturo.it/2010/03/16/alternanza-di-governo-o-qualcosa-di-diverso.shtml) come la grave situazione dei bilanci pubblici non permetta più ai governi di agire tramite la leva del deficit spending (ovvero l’aumentare la spesa pubblica finanziandola con il deficit di bilancio).

Eppure, ad ogni tornata elettorale, la maggior parte dei partiti formula promesse che sa di non essere in grado di mantenere e il corpo elettorale, dopo aver punito i partiti al governo colpevoli di non aver tenuto fede agli impegni presi, tende a premiare le opposizioni sulla base di altre promesse formulate ma non sicuramente mantenibili.

C’è un’altra linea economica in grado di aumentare il benessere economico senza ricorrere all’incremento della spesa pubblica?

Gli economisti che si richiamano alla scuola liberale classica ne sono certi e sostengono con convinzione che la linea è una sola: studiare di più, lavorare di più, produrre di più, il tutto con maggiore velocità e minori costi delle Nazioni concorrenti.

Solo in questo modo si può creare vera ricchezza di beni materiali da poter distribuire in maniera equa puntando ad una maggiore giustizia ma senza punire i più meritevoli.

Dal punto di vista teorico quanto sopra funziona benissimo. Il problema contro cui si naufraga è la realtà di un mondo globale, nel quale la maggior parte delle Nazioni (in particolare quelle emergenti) segue questa linea.

In tale sistema, tutti i fattori di produzione (capitale, risorse umane, imprenditorialità) sono in grado di spostarsi rapidamente da una Nazione all’altra stabilendosi in quella che offre le maggiori occasioni di guadagno e di profitto.

Non c’è chi non può notare come questa ricerca di competitività sfrenata porti inequivocabilmente a porre l’efficienza e il profitto al centro della attività sociale (non solo economica). In questa visione tutti i corpi intermedi (famiglia, scuola, università, aziende ...) sono visti soltanto come strumenti funzionali all’aumento della produttività.

La dimensione del lavoro acquista la assoluta preminenza sulle altre dimensioni umane.

In altri termini, l’uomo cessa di essere “persona” e diventa “arma” per poter vincere la competizione economica.

Non solo, ma è sotto gli occhi di tutti come si allarghi sempre più fra le diverse Nazioni e, all’interno di essere fra le classi sociali, la forbice fra chi ha di più (e avrà sempre di più) e chi ha di meno (e avrà sempre di meno).

Alcuni economisti (e uomini di governo) affermano che sarebbe necessario predisporre una normativa internazionale in grado di regolare questi fenomeni dannosi se lasciati a se stessi.

Bello ma utopistico, anche la recente crisi finanziaria ha ampiamente dimostrato come i “poteri forti” internazionali economico-finanziari non accettino tali misure, se non in maniera minima come palliativo e “contentino” mediatico, e anzi richiedano allo Stato l’aumento della spesa pubblica (sic!!) per rimediare ai disastri da loro causati e dalle cui conseguenze vogliono restare indenni.

Quest’ultimo è un paradosso che chiarisce senza ombra di dubbio che non è questa la strada giusta da proporre alle popolazioni per tornare ad una crescita economica reale e umanamente sostenibile.

Nessuno forse ha una ricetta teorica già bella che pronta ma certe linee di soluzione sono già individuabili.

Perché ad esempio, invece di proporre di studiare, lavorare e di produrre di più non si riflette sull’esigenza di lavorare e di produrre meglio? Sullo studiare di più, oltre che meglio, non ci sono dubbi, talmente palese è l’emergenza educativa.

In altri termini perché, per quali fini si lavora e si produce? Per aumentare il possesso di beni materiali, incrementare il prodotto e il reddito lordo, quello che Adam Smith chiamava la “ricchezza nazionale?

O non invece per aumentare la felicità nazionale?

Gli ultimi studi in materia economica (anche, ma non solo, di studiosi italiani come Zamagni, Bruni, Pelligra ecc.) hanno messo in evidenza tre elementi:

1. la felicità non è un termine astratto, ma un modo concreto e reale di essere, perfettamente misurabile dal punto di vista quantitativo;

2. raggiunta una certa soglia di reddito (tale da permettere una vita non solo a livello minino, ma realmente degna di essere vissuta) il livello e lo stato di felicità rimangono stabili anche in presenza di incrementi del reddito individuale o nazionale;

3. il livello di felicità aumenta con il dispiegarsi di una propria crescita spirituale (acquisizione di maggiori capacità intellettuali e culturali) e di relazioni interpersonali più appaganti (un ambiente familiare sereno, amicizia salde, costruttive e durature, una rete di protezione sociale partecipativa e percepita come amichevole).

Se ciò è vero, il lavorare meglio e il produrre meglio dovrebbero equivalere a lavorare per produrre quei beni che permettono di conseguire, oltre che un aumento di reddito, soprattutto un ampliamento della categoria di quelli che dalla dottrina economica più recente sono definiti beni relazionali (servizi alla persona, creazione di luoghi di incontro, occasioni culturali, difesa e promozione dei dati naturali e del territorio...).

Questo beninteso con gradualità e ribadendo inequivocabilmente la necessità di alzare il livello di vita delle persone povere anche attraverso una redistribuzione del reddito (stimolandole, quando necessario, ad una maggiora capacità e volontà lavorativa).

In questa ottica i corpi intermedi e le agenzie sociali (scuola, famiglia, associazioni, aziende) diventano strumenti essenziali al servizio della felicità comune.

Qualcuno dei lettori, o molti? diranno che si tratta di un’utopia, di un sogno.

No, si tratta di un progetto faticoso, pesante ma realizzabile come dimostrano gli studi più recenti (vedi allegata bibliografia).

Il nocciolo del problema è passare da una cultura che mette al centro l’individuo teso al guadagno e al profitto individuale ad un’altra che mette al centro la persona umana rivolta a raggiunge la felicità propria e quella degli altri.

Ma non è questo uno dei motivi, se non il principale, per il quale è nata Persona è futuro?

Bibliografia essenziale sull’argomento

S. Zamagni – L. Bruni (a cura di) – Dizionario di Economia civile – Città Nuova 2009

R. Layard – Felicità. La nuova scienza del benessere umano – Rizzoli 2005

L. Bruni, P.L. Porta (a cura) – Felicità ed economia – Guerini e Associati 2004

Autori vari – Umanizzare l’economia – Cacucci 1999

S. Zamagni – L’economia del bene comune – Città Nuova 2007

F. Fukuyama – Fiducia – Rizzoli 1996

J. Rifkin – Il sogno europeo – Mondadori 2004

A. Kohn – La fine della competizione – Buchini e Castaldi 1999

A. Sen – Lo sviluppo è libertà – Mondatori 2000

G. Manzone – Il lavoro dal volto umano – Lateran University Press 2003

E. Chiavacci – Lezione brevi di etica sociale – Cittadella editrice 1999

S. Latouche – Breve trattato sulla decrescita serena – Bollati Boringhieri

G. Sbardella - Controcorrente, la mia storia di cristiano e di manager - Città Nuova 2007

sabato 20 marzo 2010

Buona settimana (un bel "si" prima del "no")

Carissimi amici

dire “no” ai capricci dei bambini e degli adolescenti è faticoso, perché consuma energia psicologiche andare controcorrente contro la cultura dominante, ed è doloroso perché è con dispiacere che neghiamo qualcosa ai nostri ragazzi.

E’ per questo che il “no” deve essere preceduto da un bel “si”, un si alla loro educazione civica, un si al rispetto delle altre persone, un si alla sobrietà, un si al bene comune che poi è il loro e nostro vero bene duraturo.

Solo questo si, ben deciso dentro di noi, può darci la forza di pronunciare un no convinto e necessario.

Un no che dovrà essere chiaro, ma anche ragionevole e motivato perché ai ragazzi deve essere offerta la possibilità di capire, non è un no alle loro persone, ma solo ai loro comportamenti sbagliati.

Che ne pensate?

Buona settimana

mercoledì 17 marzo 2010

Alternanza di governo o qualcosa di diverso?

L’alternanza al governo da parte di due coalizioni in competizione rappresenta, secondo la maggior parte dei politologi uno dei punti di forza delle democrazie parlamentari. Infatti il potere del popolo di poter cambiare la coalizione al governo si esprime al massimo, in occasione di competizioni elettorali, con il voto e con il conseguente diritto di valutare l’operato dei partiti al governo e, in caso negativo, di poterli sostituire. Sempre secondo i politologi il timore di un giudizio negativo da parte del corpo elettorale è lo sprone migliore per spingere le coalizioni a governare nel migliore dei modi.

In effetti, tenendo a mente ciò che è accaduto, negli ultimi 20 anni, in Italia e in Europa, tale teoria non convince del tutto ad una serena valutazione obiettiva.

In Italia, dopo “tangentopoli” e il caotico periodo del passaggio dalla I alla II Repubblica, dal ’94 ad oggi, ad ogni competizione elettorale è stata cambiata la coalizione al governo, con un succedersi ininterrotto di centrodestra e centrosinistra. Al governo Berlusconi (a prescindere dalla esperienza “presidenziale” Dini) è succeduto quello Prodi (con l’appendice di D’Alema e Amato), quindi è tornato al potere Berlusconi, di nuovo disarcionato da Prodi e ora al governo c’è nuovamente Berlusconi.

Anche negli altri Paesi , contrariamente a quanto avveniva nel cinquantennio precedente, caratterizzato da lunghi periodi di governo omogeneo (è sufficiente pensare alle esperienze di Mitterrand in Francia e di Brandt o Kohl in Germania), negli ultimi 20 anni la alternanza ha assunto un ritmo accelerato, anche senza raggiungere il caso italiano che vede la prevalenza della coalizione di opposizione ad ogni tornata elettorale.

Quali sono i motivi alla base di questo strano rovesciamento di situazioni?

Negli anni ’80 si è verificata una svolta di cui solo in futuro gli storici sapranno evidenziare l’importanza: l’ascesa al potere, per un discreto numero di anni, di M. Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli USA, entrambi sulle ali di una linea socio-economica neoconservatrice e neoliberista.

Fino ad allora tutti i governi delle repubbliche democratiche occidentali avevano seguito una politica economica ispirata al deficit spending, propugnata, negli anni ’30 e ’40 dall’economista inglese J.M. Keynes. Base di tale politica era il sostegno alla domanda dei beni, in momenti di ristagno economico, attraverso l’utilizzo della spesa pubblica anche in situazione di forte disavanzo di bilancio.

Pochi si rendevano conto che i governi, una volta terminata la fase di ristagno, non riuscivano a rientrare (come avrebbero dovuto e come lo stesso Keynes raccomandava) nei vincoli di bilancio, sia perché si sarebbe trattato di porre in essere misure impopolari, sia perché era estremamente comodo soddisfare, con l’aumento della spesa pubbica e il ricorso spregiudicato al deficit spending, le richieste del corpo elettorale e le promesse allo stesso fatte.

Questa politica, a lungo andare, ha portato a costi economici insostenibili, quali periodi di contemporanea inflazione e disoccupazione massiccia, ma anche a costi sociali più sottili ma altrettanto importanti, quali il disincentivo alla voglia individuale di intraprendere, di produrre, di studiare.

Reagan e la Thatcher, giunti al potere sulla scia di una rivolta contro questi costi e sostenuti a livello teorico dalla scuola economica di Chicago, posero in essere quella che, all’epoca, poteva essere considerata una rivoluzione copernicana.

In primo luogo misero le mani ad una revisione della curva delle aliquote fiscali, diminuendo in maniera massiccia le tasse ai più ricchi, nell’assunto che il risparmio, messo nuovamente nelle mani dei privati sarebbe stato investito e speso meglio che se fosse rimasto nelle mani pubbliche.

Secondo la teoria dei Chicago boys, l’aumento di produttività globale avrebbe fatto rientrare, nel medio periodo, le entrate fiscali perse con le modifiche alle aliquote. A parte la circostanza che ciò non avvenne, si rese necessario, nel breve periodo ridurre la spesa pubblica per spese sociali per compensare la diminuzione delle entrate tributarie.

In secondo luogo i due leaders USA e Britannico rivalutarono ampiamente la funzione del mercato quale regolatore più efficiente e giusto della attività economica, eliminando tutti i possibili intralci di natura legislativa all’azione delle imprese private.

Lentamente, sotto la pressione congiunta della politica Statunitense e Britannica e delle teorie neoliberiste della scuola di Chicago, anche le Nazioni europee si allinearono al questa posizione (teorica e concreta insieme) e iniziarono a porre in essere politiche di forte restrizione della spesa pubblica.

Una grande spinta in questo senso la diedero anche l’adesione al trattato di Maastrischt (che imponeva severi limiti di bilancio) e la costituzione dell’Euro quale moneta unica europea, misure che entrambe limitavano seriamente l’autonomia delle singole Nazioni nel porre in essere politiche economiche monetarie differenziate.

Pochi si rendevano conto che questo nuovo disegno di linea economica e sociale avrebbe dovuto provocare, anche nei partiti, un ripensamento ed una conversione in un nuovo modo di fare politica. In un momento storico in cui la spesa pubblica andava posta sotto controllo, compito dei partiti non era più quello di soddisfare (finanziandole con il deficit spending) le richieste degli elettori nel breve periodo (sicuramente incompatibili con i vincoli di bilancio) bensì quello di elaborare e proporre al corpo elettorale, programmi e proposte in grado di soddisfare, nel medio – lungo periodo, l’interesse collettivo e compatibili con una sana politica economica.

Ciò non avvenne e si verificarono invece tre fenomeni paralleli.

Da una parte si andò sempre più perdendo la differenza di linea politica ed economica fra coalizioni di diverso orientamento, conservatore o riformista, convergendo entrambe su un pensiero unico che propugnava il sostegno al liberismo economico e una forte riduzione della spesa pubblica.

Dall’altra parte si è accentuata una difficoltà del corpo elettorale, nelle Nazioni europee, ad accettare una inevitabile riduzione dello stile di vita compensabile solo in parte con una forte ripresa della iniziativa individuale in campo economico, andata però quasi completamente persa nel periodo precedente (laddove la forte fiducia popolare nelle virtù benefiche della spesa pubblica aveva posto i cittadini in una posizione di attesa spegnendo le capacità imprenditoriali).

In terzo luogo i partiti, invece di svolgere un lavoro educativo spiegando ai loro elettori il cambiamento avvenuto e la necessità di un mutamento delle abitudini civili di comportamento, hanno preferito non sfidare l’impopolarità e continuare invece a procacciarsi favore e voti attraverso promesse che sapevano non essere in grado di mantenere.

L’insieme di questi elementi ha fatto sì che le coalizioni vincenti, in ogni tornata elettorale, non si sono rivelate in grado di mantenere le promesse fatte o, anche in assenza di tali promesse, di soddisfare le attese popolari di uno sviluppo lineare dello stile di vita in atto.

Appare normale conseguenza di tale situazione che i partiti di governo hanno sempre perso (particolarmente in Italia) le elezioni al termine del loro periodo di governo. Come appare altresì normale conseguenza che l’opposizione vinca le elezioni successive promettendo di soddisfare le attese del corpo elettorale (ben sapendo peraltro che non ne sarà capace).

Altro che sana alternanza di governo, qui si tratta di un circolo vizioso che occorre necessariamente rompere per evitare una spirale di perverso degrado sociale, civile, ed economico.

Come fare? Qualche modesta proposta in un prossimo articolo.

domenica 14 marzo 2010

Buona settimana (reimparare a dire di no)

Se si intende per tirannia la capacità di alcuni soggetti di imporre la loro volontà ad altri soggetti o ad intere categorie umane, forse i bambini e gli adolescenti della nostra epoca possono benissimo definirsi tiranni.

Vi è mai capitato, in pizzeria, sui mezzi pubblici, in famiglia, sui marciapiedi, di vedere bambini o adolescenti fare capricci nei confronti dei genitori disturbando anche le altre persone presenti?

Quante volte i genitori hanno avuto la forza di respingere i capricci (magari dando seguito a minacce punitive quasi mai eseguite)? Se diciamo che il 10% dei genitori ne sono in grado forse esprimiamo una percentuale già troppo alta.

Se vogliamo veramente educare le nuove generazioni, se vogliamo difendere il loro bene personale e il bene comune di tutti, dovremo reimparare a dire una paroletta faticosa, pesante, ma altamente efficace: “NO”.

Nelle prossime settimane alcuni suggerimenti per dire dei no, che siamo decisi ed educativi, senza essere lesivi della dignità dei bambini e degli adolescenti.

Buona settimana.

lunedì 8 marzo 2010

Regole da rispettare e valutazioni politiche

Le regole, poste dall’ordinamento giuridico a fondamento dell’ordinato sviluppo di una comunità civile, vanno sempre rispettate, con la eccezione del diritto di obiezione di coscienza per quelle regole che sono percepite come gravemente illegittime in quanto lesive della vita o della dignità personale di un essere umano.

Il rispetto delle regole costituisce la prima norma di quell’ etica sociale condivisa che è a fondamento della stessa possibilità di esistenza di un qualsiasi gruppo sociale, a maggior titolo di una Nazione che voglia considerarsi tale.

Il vero cancro che sta corrodendo il sistema politico, economico, sociale e civile della nostra Italia è la pratica soppressione di questa norma fondamentale.

Non solo il trasgredire (o per usare un termine di moda, il bypassare) le regole è diventato un costume diffuso ma, e questo è ancora più grave, viene considerato bravo (o per dirla con i giovani “fico”) chi riesce a raggiungere un obiettivo personale, a scapito del bene comune, trasgredendo le regole e restando impunito.

Questo accade dagli illeciti più piccoli (come quelli relativi alle regole per salire e scendere negli autobus, o ai divieti di sosta) a quelli più gravi concernenti gli illeciti fiscali o i reati. Non basta aumentare le norme che stabiliscono illeciti, o incrementare multe o pene quando è opinione diffusa che quelle multe e quelle pene non verranno applicate e che i comportamenti illeciti non saranno sanzionati ma, in qualche modo (amnistia, condono, prescrizione...) sanati.

Il primo compito fondamentale dei cittadini onesti e competenti, che ancora tengono alla dignità nazionale, è lottare per ripristinare, nelle coscienze prima ancora che nel diritto, l’obbligo del rispetto delle regole poste a difesa del bene comune.

Persona è futuro dovrà essere in prima linea in questa lotta di carattere fondamentalmente etico.

Sottolineato questo con estrema chiarezza (e anche amarezza) non si può prescindere anche dal dire che le conseguenze del rispetto delle regole possono (in qualche caso, devono) essere oggetto di valutazioni politiche.

In tal senso sono pienamente d’accordo con il comportamento del nostro Capo dello Stato nel recente caso relativo al salvataggio di alcune liste elettorali del Centro destra.

Pochi (fra i quali uno dei pochi italiani ben valutati, guarda caso, più all’estero che in Italia, Giuliano Amato, politico ma anche costituzionalista di levatura internazionale) hanno osservato che, in assenza del salvataggio di quelle liste, si rischiava una assenza di rappresentatività democratica, dei Governatori e Consiglieri regionali eletti nel Lazio e in Lombardia.

Mi piace ricordare che non avrebbe potuto esprimere liberamente il proprio voto una grande parte del corpo elettorale, pari a circa il 40% nel Lazio e a forse più del 50% in Lombardia.

Il rispetto formale delle regole (compito ineludibile e non forzabile della Magistratura indipendente) avrebbe condotto ad una situazione politica in contrasto sostanziale con la volontà degli elettori. Questa è stata sicuramente la valutazione politica che ha spinto il Capo dello Stato a controfirmare il Decreto di legge “interpretativo” predisposto dal Governo.

Sicuramente avrà anche pesato sul comportamento di Giorgio Napolitano la riflessione che l’assenza di uno sbocco elettorale a legittime opinioni politiche avrebbe potuto portare, specialmente in Lombardia (dove sarebbe stata esclusa una gran fetta dell’elettorato con una forte connotazione territoriale) a sbocchi diversi e pericolosi come potenziali tumulti di piazza.

In un momento delicato come questo, quando non siamo ancora usciti da una pesantissima crisi economica e la nostra Nazione, specialmente dopo l’insorgere delle gravi difficoltà finanziarie in Grecia e in Spagna, è sotto l’occhio attento dei mercati internazionali e delle agenzia di rating, appare saggio ogni comportamento tendente a rassicurare gli animi, sia all’interno che all’estero, circa la permanenza di una salda coesione sociale.

Sotto questo punto di vista viene spontaneo rammaricarsi delle mancata scuse all’elettorato presentare dal partito di maggioranza relativo, come la scarsa chiarezza dell’opposizione moderata nel trovare una soluzione politica al “pasticcio”.

A prescindere da quanto successo, rimane ferma e improrogabile l’esigenza di un grande sforzo educativo nazionale nel ripristinare la condivisione di una forte etica sociale a partire dal principio fondamentale del rispetto delle regole e della conseguente punizione per chi le trasgredisce.

Un grande sforzo che, oltre a esprimersi attraverso le “agenzie” a questo preposte (famiglia, scuola, comunità religiose) dovrà coinvolgere personalmente tutti i cittadini onesti e competenti.

Si tratta di una immane fatica controcorrente ma una fatica inderogabile se si vuole far uscire l’Italia dal un disgraziato circuito vizioso che ci sta portando al sottosviluppo culturale ed economico.

giovedì 4 marzo 2010

Innovazione tecnologica e sviluppo civile

Il Laboratorio “Persona è futuro” è lieto di invitare soci e simpatizzanti all'incontro "ICT, sviluppo & innovazione: prospettive di sviluppo e di occupazione nella società dell'informazione", organizzato dal Centro Studi Tocqueville-Acton in collaborazione con il nostro Laboratorio, l'Osservatorio sulle Strategie Europee per la Crescita e l'Occupazione (O.S.E.C.O), l'Associazione Culturale "Cento Giovani".

L'incontro si terrà a Roma il 12 marzo p.v. alle ore 18,00 presso la sede O.S.E.C.O., via E. Albertario n.56.

Interverranno:
Ing. Francesco Saverio Profiti, Responsabile Innovazione e New Media del Centro Studi Tocqueville-Acton
Ing. Carlo Viola, Vice coordinatore e Responsabile del settore "Innovazione tecnologica" di Laboratorio "Persona è futuro"
Avv. Michele Gerace, Presidente O.S.E.C.O.